N.1 2021 - Biblioteca, storia, memoria

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Biblioteche e public history: intersezioni, opportunità, sfide

Chiara De Vecchis

Biblioteca del Senato della Repubblica “G. Spadolini”, Roma chiaradevecchis@gmail.com

Per tutti i siti web l’ultima consultazione è stata effettuata il 10 aprile 2021.

Abstract

Da alcuni anni anche in Italia è sorto un certo interesse per la public history, «campo delle scienze storiche a cui aderiscono storici che svolgono attività attinenti alla ricerca e alla comunicazione della storia all’esterno degli ambienti accademici nel settore pubblico come nel privato, con e per diversi pubblici» nella definizione del Manifesto della public history italiana elaborato dall’Associazione italiana di public history (AIPH). L’esigenza di chiarire ambiti disciplinari, specificità locali, buone pratiche, traghetta la public history fuori da una fase di assestamento, puntando a un’azione più pervasiva nella società per renderla consapevole del ruolo attuale della storia.

In questo scenario le biblioteche, coinvolte nei processi di sedimentazione e trasmissione di conoscenza, ma anche chiamate a rapportarsi con un’utenza potenzialmente vasta, differenziata, distribuita sul territorio, possono trovare spazi di collaborazione e crescita, a patto di intercettare opportunità di condivisione di finalità civili e culturali; pratiche anche tradizionali delle biblioteche possono diventare operazioni di public history se elaborano modalità di comunicazione e coinvolgimento del pubblico adeguate a veicolare consapevolezza storica metodologicamente fondata e se offrono occasioni e spazi pubblici alla ricerca e al dibattito storico.

Attraverso il racconto delle fasi costitutive dell’AIPH, in cui hanno giocato un ruolo le associazioni professionali nel settore della documentazione, e ripercorrendo esperienze e riflessioni emerse dalle conferenze realizzate dal 2017, il contributo propone spunti per l’azione bibliotecaria nella prospettiva della public history enucleando alcuni ambiti strategici attorno ai temi del digitale, delle comunità, delle professioni e di un nuovo welfare culturale integrato.

English abstract

In the latest years Italy is experiencing a growing interest around public history, a field of historical sciences undertaking activities related to research and communication of history out of academic settings, with and for different audiences, as described in the Italian Public History Manifesto issued by the Italian association of public history (AIPH). Italian public history seems now in a moment of settlement, with the need to clarify disciplinary areas and local features, while advancing towards a phase of maturity: defining and improving good practices should lead to a more pervasive action in society, making it aware of the role of history.

In this scenario, libraries, being involved in the processes of recording memories and transmitting knowledge to a wide and various audience, may find opportunities for cooperation and growth, by sharing civil and cultural purposes, developing new methods of communication, fostering citizen engagement, so to convey a methodologically based historical awareness and offer public spaces for research and historical debate.

By summing up AIPH’s beginnings, where professional associations in the documentation sector have also played a role, and by retracing the experiences and debates emerged from the conferences held since 2017, the paper proposes some ideas for library action in the perspective of public history, pointing out some strategic areas and key concepts: digital, communities, professions, cultural welfare.

Avendo gli uomini come oggetto di studio, se gli uomini non ci comprendono,
come non aver il senso di aver compiuto solo a metà la nostra missione? [Bloch, 1969, p. 86]

La recente apparizione in rete della Electronic library of public history (ELPHi), archivio aperto nato su impulso dell’Associazione italiana di public history (AIPH) in collaborazione con l’Università di Salerno, e ancor più il suo rapido arricchirsi di un buon numero di studi sulla public history, attestano l’interesse suscitato da un campo di riflessione che, per la sua attenzione alla sedimentazione delle memorie registrate e alle modalità della loro comunicazione, ha notevoli agganci con le professioni della documentazione, ma ha stentato a trovare una definizione univoca.

Public history: studi e definizioni

Appunto su questioni definitorie si sofferma parte significativa dei contributi attualmente in ELPHi e in generale una discreta percentuale della letteratura sulla public history anche in ambito internazionale, sebbene la maggiore novità del tema in Italia solleciti un più vivo dibattito sui suoi metodi e confini. Di public history si parlava negli Stati Uniti già negli anni Settanta; da allora si è diffusa in tutto il mondo (con minor successo in Europa), anche se la International Federation for Public History (IFPH) si formalizzava solo una decina d’anni fa. Comunque «una definizione universale del campo della public history rimane ambigua [...] e non applicabile dappertutto nello stesso modo. Il processo di internazionalizzazione della public history […] si svolge su basi differenziate nei diversi paesi in base ai bisogni specifici e alle tradizioni culturali nazionali» [Noiret, 2017a, p. 12].

Tra le declinazioni locali della public history si cerca spesso il minimo comun denominatore trovandone in effetti più d’uno, ora nella «formalizzazione di una tendenza intrinseca alla ricerca storica, ovvero […] essere un “processo sociale” condiviso e orientato alla comunicazione dei propri risultati» [Giuliani, 2017], ora in un fine comune di consapevolezza e disponibilità del passato, ora in una visione relazionale «tra il sapere storico e la dimensione pubblica dell’agire» [Colazzo, 2019, p. 23].

L’esigenza definitoria (anche espressa dal modo interrogativo con cui è formulato il titolo di un certo numero di studi) procede talvolta a ritroso e in negativo, partendo da ciò che la public history non è e da ciò che non fa.

Non è «soltanto divulgazione colta [...] ma è anche ricerca innovativa, fatta anche insieme al pubblico e ad altri professionisti» [Noiret, 2017b, p. 5]; non è sovrapponibile al concetto di uso pubblico della storia (secondo la fortunata espressione di Jurgen Habermas ripresa e riveduta da Nicola Gallerano) [Gallerano, 1995, passim], che può implicare manipolazioni interpretative e riletture del passato a fini politici, contro la storiografia “ufficiale”.

Non fa ricerca senza preoccuparsi di condividerne i risultati con una platea ampia; non fa a meno di collegare il passato «alle necessità del presente», né «di un rapporto immediato con il pubblico», al quale porta i risultati della storiografia accademica producendo una storia «utile». Da questo confronto con la storiografia “pura” si giunge talvolta a ricondurre la public history nell’ambito della storia applicata, sebbene acquisti valore in un più ampio contatto «con l’evoluzione della mentalità e del senso delle appartenenze collettive delle diverse comunità» [Noiret, 2009, p. 275].

Risultando impervio abbracciarla in modo univoco e sintetico, la si descrive con le metafore dell’«arcipelago» o della «costellazione», con insiemi di attributi («critica, partecipativa, sintetica, [...] inclusiva, coinvolgente, interdisciplinare, glocale») [Carrattieri, 2019, p. 120], o nelle sue implicazioni pratiche, in forma enumerativa:

La “Public History” deve essere […] intesa come più vasta concezione della storia [...] trasportata verso un largo pubblico di non addetti ai lavori usando [...] mezzi moderni di comunicazione [...]. Public History è discesa della storia nell’arena pubblica, confronto con pubblici diversi, ed uso sistematico, per farlo, dei media di comunicazione di massa [...]. Inoltre, la Public History porta anche la storia ed i problemi storici nella società [...]. La Public History è [...] fruizione di discorsi storici per diletto culturale, ma esprime anche la volontà di molti soggetti che si situano al di fuori dell’ambiente universitario, di capire più in profondità i problemi del presente alla luce della loro storia. È una pratica scientifica della storia e dei metodi storici, è soprattutto la capacità di offrire una profondità analitica agli eventi da contestualizzare e da documentare con le fonti; si tratta con il metodo storico di rendere più problematica l’analisi degli eventi. È anche fare la storia di alcuni eventi contemporanei per conto di datori di lavoro pubblici e privati fuori dell’università [...]. Si tratta infine di investire sulla memoria non soltanto usando le tecniche di conservazione delle fonti della contemporaneità, ma anche costruendole in ambiti virtuali (radio, televisione, fotografia, rete) o “fisici” (quando si pianificano parchi storici, musei e monumenti commemorativi), che immettono la storia nel quotidiano e introducono nella vita pubblica delle società la ricerca delle loro identità passate [Noiret, 2009, p. 277-278].

Non mancano timori e perplessità, dentro e fuori la comunità dei public historian, per i confini frastagliati di un ambito che può indurre a considerare public history pratiche e progetti eterogenei, o per l’entusiasmo suscitato, coi connessi rischi d’improvvisazione o rapido esaurimento.

Ancora, si osserva una non del tutto risolta tensione riguardo lo statuto stesso della public history: ci si chiede se si configuri davvero come nuova disciplina o non piuttosto come “movimento” [Savelli, 2019] nato dalle lacune dell’accademia e per la creazione di nuovi spazi e percorsi al suo interno, segnatamente colmando la distanza tra la didattica tradizionale – che ha visto negli ultimi anni spopolarsi i corsi di storia universitari – e il bisogno di storia che emerge “dal basso”, dalle comunità, dai territori, anche con forme d’attenzione a una più ampia disponibilità di fonti, che il digitale offre nuove opportunità di condividere. Il mondo accademico non è rimasto indenne dalla crisi della storia, almeno quella d’impianto ottocentesco, quale interprete del passato per orientare il presente e fornire modelli per il futuro; la diffusa ricerca di nuove chiavi interpretative della complessità del reale ha messo in atto processi di adeguamento della didattica e della comunicazione scientifica ed è stata colta come occasione di sviluppo di competenze e sbocchi innovativi anche nel mercato del lavoro. Uno di questi è appunto la public history, il cui pubblico non è più mero consumatore passivo della narrazione storica ma soggetto partecipe, fino a contribuire ai processi interpretativi diventando talvolta, secondo la discussa teoria della shared authority, coautore di storia.

La public history sembra insomma muoversi in costante tensione tra opposti: disciplina/movimento, accademia/agorà, storia/memoria, autorevolezza dello storico/forme di autorità condivisa, rigore epistemologico/domanda sociale di storia, auspicabile condivisione di percorsi e obiettivi a livello internazionale/necessaria dimensione territoriale. Da tale dinamismo prende linfa uno scopo culturale: diffondere «un tipo di conoscenza che unisce [...] un contenuto di informazioni strutturate su una scala diacronica con un metodo critico che consente di verificare, analizzare quelle informazioni e capire la logica che è sottesa a quei brani di storia» [Tomassini - Biscioni, 2019, p. 21].

Una “via italiana” alla public history?

Superando la dialettica tra disciplina e movimento, il Manifesto della public history italiana individua un “campo”: «La Public History (storia pubblica) è un campo delle scienze storiche a cui aderiscono storici che svolgono attività attinenti alla ricerca e alla comunicazione della storia all’esterno degli ambienti accademici nel settore pubblico come nel privato, con e per diversi pubblici. È anche un’area di ricerca e di insegnamento universitario finalizzata alla formazione dei public historian» [AIPH, 2018]. Questi ultimi vengono definiti non solo in base alla scelta della public history come tema di ricerca e didattica, ma anche perché creano interazioni esterne alla comunità accademica, espressamente richiamandosi alla “terza missione” delle università.

È interessante soffermarsi sul metodo partecipativo con cui nel 2018 AIPH ha inteso portare alla definizione di public history italiana: il Manifesto è stato elaborato recependo le tante osservazioni ricevute nelle liste di discussione e nella conferenza annuale dell’AIPH. Anche la scelta di lasciare tra parentesi la traduzione “storia pubblica”, preferendo per l’uso corrente l’espressione inglese, è stata condivisa e ispirata dall’esigenza di evitare equivoci col concetto di uso pubblico della storia, o sospetti di una storia orientata dai poteri pubblici (che sarebbe lontanissima dalla public history), o ancora confusioni con dinamiche pubblico/privato di sapore istituzionale, estranee alla nuova visione dei “pubblici” come co-creatori e talvolta committenti di contenuti e pratiche. Dal Manifesto esce comunque rinsaldata la competenza degli storici, indipendentemente dal contesto lavorativo in cui operano e dal dialogo con altri settori professionali.

Le peculiarità italiane dell’approccio alla storia e dell’atteggiamento nei confronti del passato sono state messe ben in evidenza da Serge Noiret, già presidente IFPH e attuale presidente AIPH, che ne individua le cause nei nodi irrisolti del Novecento e nella forte identità delle comunità locali, radicate al territorio sia dalla rilevanza delle antiche municipalità, sia dalla ricchezza di un patrimonio culturale diffuso, su cui si innestano politiche pubbliche e segmenti di attività produttiva, come lo sviluppo del turismo culturale [Noiret, 2019a]. Un humus favorevole si era manifestato negli anni Duemila, con il successo dei “luoghi della memoria” e di pratiche discorsive e interattive di narrazione storica (“processi alla storia”, festival, rievocazioni, teatro civile a tema storico ecc.) che hanno spinto a parlare di una “via italiana” alla public history; ma si pensi anche alla tradizione fiorente di studi in contesto extra-accademico, specialmente d’interesse storico-locale, e alla notevole esperienza delle deputazioni provinciali di storia patria (né è un caso che l’AIPH sia nata con la stretta collaborazione della Giunta centrale per gli studi storici, che le coordina).

Dal punto di vista della distribuzione territoriale, un’immagine della public history italiana è resa da un’iniziativa di mappatura delle sedi che ospitano progetti e percorsi di public history. Il censimento, un work in progress curato in seno all’AIPH da Enrica Salvatori ma aperto a segnalazioni esterne, geolocalizza al momento le sole realtà accademiche (corsi di laurea, master, dottorato, laboratori ecc.), rappresentandole su una carta geografica interattiva, e ambisce a diventare «una mappa variegata e il più possibile rappresentativa della situazione italiana», anche con apporti di altro genere (associazioni, istituzioni, festival ecc.) [Tucci, 2021]. Ad aprile 2021 popolavano la mappa circa 20 corsi universitari di vari livelli, attivi in una quindicina di atenei, piuttosto equamente distribuiti in 11 regioni tra nord, centro e sud (Abruzzo, Campania, Emilia Romagna, Lazio, Liguria, Lombardia, Marche, Puglia, Sardegna, Toscana, Veneto); questa presenza, sviluppata in una manciata di anni, sembra destinata ad aumentare grazie all’attività di un Gruppo di lavoro AIPH sulla public history nelle università, che ha già elaborato lo statuto di un Centro interuniversitario per la ricerca e lo sviluppo sulla public history (CISPH): quest’ultimo, sotto la guida dell’Università di Roma Tre, dovrebbe raccordare 26 atenei italiani e alcuni stranieri per promuovere percorsi di studi coordinati e occasioni «di congiunzione tra ricerca e progettualità applicata».

Spazi associativi e professioni della documentazione

Queste e altre iniziative, tra cui la diffusione dell’appello contro l’eliminazione del tema di storia dall’esame di maturità, o i “Dialoghi della public history” (incontri pomeridiani online avviati nel 2020), sono tappe recenti di un percorso avviato e largamente sostenuto dall’AIPH.

Il Comitato costituente dell’associazione si è riunito a Roma il 21 giugno 2016, su iniziativa della IFPH e della Giunta centrale di studi storici, che ne ha ospitato i lavori. Erano invitati rappresentanti di 18 istituzioni professionali o scientifiche nell’ambito degli studi storici, per avviare un percorso di formalizzazione dell’Associazione e di convocazione di una prima Conferenza italiana di public history, con «lo scopo di promuovere le azioni di public history in Italia e la loro valorizzazione nell’ambito scientifico, accademico, civile» [AIB, 2016]. La riunione ha posto le basi per coinvolgere e legare le comunità degli storici (non solo accademici), delle professioni affini (operatori di musei, archivi, biblioteche), degli archeologi, avviando un processo «finora unico in Europa» [AIPH, 2016]. In un secondo momento l’AIPH è entrata a far parte del Coordinamento della Giunta centrale per gli studi storici e delle società degli storici, che raccoglie virtualmente gli storici italiani «che tramite i rispettivi organismi collaborano alla difesa e alla valorizzazione della storia, nella ricerca, nell’organizzazione culturale, nella didattica».

Lo Statuto dell’AIPH la configura come associazione culturale senza scopo di lucro, che persegue «l’ampia diffusione di ogni informazione riguardante l’insegnamento e la pratica della disciplina, l’organizzazione e gli esiti della ricerca nonché il dibattito tra i cultori della stessa» [AIPH, 2017]: un programma molto ampio, volto a illustrare la quantità e varietà di esperienze in atto, nonché a stimolarne di nuove, aprendo a chiunque a vario titolo si riconosca nelle finalità dell’associazione.

La partecipazione attiva delle associazioni nazionali di professionisti dei beni culturali in ambito MAB (ICOM Italia, ANAI e AIB), rappresentate prima nel Comitato costituente e poi nel Comitato scientifico AIPH, è stata subito annoverata tra i punti qualificanti dell’Associazione, con l’intento di favorire il coinvolgimento degli istituti in cui si conserva e trasmette conoscenza e di valorizzarne le specificità. Di qui, per le biblioteche, un’interessante occasione di advocacy, per dar voce a una professione spesso relegata nel cliché del bibliotecario “studioso” e della “biblioteca-contenitore” di una non meglio precisata “cultura” (che non è nel documento quanto nell’uso che se ne fa: e su questo la prospettiva della public history può suggerire strategie innovative). Si è ritenuto inoltre che attivare circuiti di reciproca conoscenza potesse accrescere la consapevolezza, dentro e fuori le biblioteche, non tanto del loro antichissimo ruolo di raccolta di fonti, quanto della loro funzione di mediazione col pubblico in relazione alle istanze di fruizione e valorizzazione delle testimonianze del passato.

Con questo spirito si arrivava alla prima Conferenza italiana di public history a Ravenna (5-9 giugno 2017). Nella grande quantità e varietà di stimoli, le biblioteche si sono mosse con qualche iniziale timidezza: i progetti presentati (sessione “Biblioteche e public history: dal patrimonio al progetto”), pur interessanti quali esperienze di valorizzazione documentale, sul fronte delle forme di proposizione al pubblico affiancavano elementi di interattività e co-progettazione a pratiche comunicative più tradizionali. Gli interventi esprimevano in prevalenza la visione di enti locali in cui biblioteca e archivio collaborano efficacemente, anche coinvolgendo istituti scolastici in attività didattiche coordinate da docenti: se questa interazione appariva preziosa per il dialogo tra professioni, d’altra parte non ne emergeva appieno la specificità dell’azione bibliotecaria in un campo forse ancora percepito come nuovo e distante.

Quale ruolo per le biblioteche?

Questa prima occasione pubblica, tuttavia, ha spinto a enucleare alcune prospettive dell’azione bibliotecaria per conservare, comunicare, “fare” storia, e insieme servire a chi fa storia e la comunica. Se la «naturale affinità» [Manuel, 2015] tra public history e public library era già rilevata in ambito anglosassone, andava diffusa l’idea che anche altre tipologie di biblioteche possano scendere in campo, non solo per la propria specializzazione disciplinare (anzi proprio la pervasività disciplinare della storia quale indagine critica su concatenazioni di eventi apre spazi alle storie di settore) ma anche aggiornando le modalità d’interazione con il patrimonio, gli utenti, le fonti.

Nell’ambito dell’Associazione italiana biblioteche si è dunque intrapreso un percorso di riflessione di più ampio respiro, con l’apporto della  Commissione nazionale biblioteche speciali, archivi e biblioteche d’autore, per delineare un paradigma dell’apporto bibliotecario alla public history. Nella seconda Conferenza AIPH (Pisa, 11-15 giugno 2018) la Commissione ha curato una propria sessione di taglio teorico-pratico, “Biblioteche e public history: risorse e metodi”, ponendo in relazione varie tipologie bibliotecarie (accademiche, di pubblica lettura, scolastiche) con un ventaglio di attività e ambiti in cui incontrare gli obiettivi della public history (information literacy, strumenti di valutazione delle fonti, supporto alla didattica, storia locale, fondi personali, aggregazione e coinvolgimento delle comunità territoriali, percorsi espositivi tematici, strategie anche digitali di valorizzazione delle raccolte). Nell’introduzione al panel, chi scrive presentava i primi risultati di un sondaggio sulle pratiche di public history in biblioteca, che l’AIB aveva lanciato tramite le liste di discussione professionali, nella convinzione che richiamare su questi temi l’attenzione dei bibliotecari avrebbe favorito una riflessione su vasta scala.

Un leitmotiv delle prime analisi era l’assunto che le biblioteche già svolgevano più o meno inconsapevolmente attività di public history, pur senza questa “etichetta” [Noiret, 2019b, p. 1].

Tuttavia è proprio la consapevolezza che può fare la differenza quando si tratta di condurre un’azione efficace: andava dunque diffusa l’idea che per fare public history in biblioteca non basta allestire una mostra, organizzare un seminario, promuovere collezioni storiche o proporre iniziative di user education, attività variamente sperimentate e persino tradizionali, ma che occorre un ripensamento dei modi in cui le biblioteche, anche attraverso l’accorta progettazione di tali pratiche, possono elaborare una comunicazione innovativa, interagire con gli storici (public e non) e con le memorie storiche, coinvolgere i cittadini.

Coniugando dunque l’approccio metodologico elaborato in seno alla Commissione AIB con esemplificazioni dalle varie esperienze in atto, in vista della Conferenza AIPH 2019 (S. Maria Capua Vetere, 24-28 giugno) si procedeva a presentare in tre panel alcuni progetti emersi dal sondaggio del 2018, ruotanti su altrettanti aspetti dell’attività bibliotecaria: rapporto col territorio, potenzialità comunicative in relazione alla trasmissione del sapere storico, ruolo aggregativo e distributivo (ma anche ri-creativo) rispetto a fonti orali, bibliografiche, digitali.

Opportunità e sfide

Perché l’ottica della public history possa diventare per le biblioteche motivo di riflessione sul doppio binario dei contenuti e dei metodi di lavoro, si può tentare di enucleare alcune sfere d’intersezione tra attività e scopi dei public historian e dei professionisti della documentazione, anche allargando lo sguardo a ciò che nel passato recente ha stimolato l’intreccio dei loro percorsi.

Digitale

«La storia si presta per sua natura ad una narrazione pubblica inclusiva e sembra quindi scontato lo sbocco nel mondo digitale» [Bertelli, 2019, p. 11], che tuttavia ha trovato resistenze in parte della comunità accademica. Il successo di internet, come e più di quanto già avvenuto con la diffusione dei mass media, ha influito sulla formazione dell’opinione pubblica, creando «una dimensione interattiva in cui esercitare il dominio sulla memoria», sollecitando un nuovo modo di pensare la funzione sociale della ricerca storica e «una diversa interazione tra gli storici e il loro pubblico, anche nell’organizzazione della ricerca» [Spagnolo - Vitali, 2004, p. 48-49]. La comunicazione digitale (pervasiva, reticolare, frammentata, intertestuale), e ancor più il web 2.0, con la riscrittura dei rapporti tra sfera pubblica e privata e l’inarrestabile aumento dei produttori di contenuti, hanno acuito in ogni ambito la crisi del principio di autorità già in atto. Ne sono emerse tendenze anti-intellettuali e revisionismi sconfinanti in posizioni a-scientifiche, anche con fenomeni di gruppo ancorati a una dimensione “locale”, se non sul piano geografico, almeno su quello relazionale: le “camere d’eco” dei social network tendono a rafforzare opinioni e pregiudizi, anche a scapito delle fonti “ufficiali”. Per contro, «il digital turn ha fornito anche nuovi strumenti alla comunità accademica per realizzare materiale multimediale e digitale user-centered, orientato al pubblico: dal processo di adattamento della narrazione storica alle nuove tecnologie emergono quindi nuove pratiche sociali, comunicative e scientifiche» [Bertelli, 2019, p. 51]. Non sorprende pertanto che la public history, benché non geneticamente connessa alla nascita di internet, si sia molto sviluppata attorno ai temi del digitale, al punto da diventare talvolta digital public history e dialogare con le altre digital humanities, che già da tempo hanno rimodulato i confini epistemologici tra discipline [Salvatori, 2017].

Parallelamente, anche le biblioteche sono state chiamate in causa dall’espansione digitale della società dell’informazione; «la novità sostanziale che il materiale posseduto dalla biblioteca non costituisce più l’oggetto principale della ricerca» ha ricentrato l’offerta bibliotecaria sulla «disponibilità ad aiutare la ricerca di informazioni» [Revelli, 2017, p. 42]. Come gli storici, soprattutto dell’età contemporanea, i bibliotecari si sono trovati a confrontarsi con un eccesso di fonti, oltre che con una nuova facilità nella loro manipolazione; tuttavia, data la loro specificità professionale hanno sviluppato competenze e linguaggi per valutarle, raccoglierle, descriverle, indicizzarle, valorizzarle, crearne di nuove anche digitali, educare al loro uso, di fatto coprendo le aree d’interesse che già nel 1999 Noiret additava agli storici in internet: disponibilità di servizi di comunicazione, maggiore accesso alle fonti storiche e agli studi, sviluppo di tecnologie didattiche [Noiret, 1999, p. 10]. 

Ne è uscita sorprendentemente rafforzata la potenzialità di mediazione bibliotecaria: un esempio pratico ai fini della public history è il supporto che il professionista dell’informazione può dare al public historian nel trattamento dei documenti e negli aspetti tecnici di metadatazione, accessibilità, usabilità, interoperabilità delle risorse digitali di storia (lo stesso repository ELPHi nasce dalla collaborazione con un sistema bibliotecario d’ateneo), in una logica di squadra che è di per sé parte del bagaglio dei public historian.

Un aspetto più sottile della rivoluzione digitale sta nel cambio di valori indotto dallo sviluppo di abilità meglio padroneggiate dalle nuove generazioni: l’illusione della disintermediazione e della rapidità di accesso (a dispetto del vaglio critico) e la tendenza a screditare i precedenti modelli culturali possono trovare un antidoto nel risvolto formativo dell’attività bibliotecaria, anche nei confronti degli storici di domani.

Bibliotecari e archivisti sono le professioni che più hanno seguito lo sviluppo tecnologico disciplinare di storia con il digitale […]. Essi sono spesso in grado di formare criticamente giovani storici all’uso degli strumenti professionali e alla selezione critica della documentazione approdata in rete anche collegandoli con quelli più tradizionali disponibili sugli scaffali […]. Bisogna riconoscere che gli archivisti ed i bibliotecari-documentalisti italiani hanno reagito più sistematicamente alle sfide poste dai mutamenti digitali accettandone gli inevitabili cambiamenti e tentando, con pochi mezzi finanziari, di agire per modificare le pratiche ed i comportamenti degli utenti [...], adattandole in modo critico e consapevole alla rivoluzione in atto [Noiret, 2011, p. 178 e 229].

Nella sfera del digitale rientrano naturalmente altri ambiti dell’azione bibliotecaria, per la messa in rete del patrimonio documentale con progetti di digitalizzazione di qualità, per l’allestimento di modalità interattive che ne stimolino la fruizione, per il contrasto alla disinformazione con battaglie di information e digital literacy.

Comunità

Appunto in tema di tutela della corretta informazione le biblioteche possono giocare un ruolo anche nei processi di legittimazione di idee attivati da specifiche comunità in opposizione al pensiero dominante o alla storiografia accreditata, con ricostruzioni storiche poco rigorose o prive di metodo, favorite dalla facilità di diffondere contenuti in rete. Gruppi sociali, etnici, religiosi, che si sentono ai margini della storia come tradizionalmente proposta, per trovare una propria affermazione sono inclini a produrre, anche in buona fede, narrazioni storiche autoreferenziali o basate su fonti parziali, inattendibili, fraintese. Contro tali fenomeni – ma ancor più per distillare le istanze di cui tali gruppi sono portatori, coinvolgerli e far maturare quanto di positivo è insito nel “bisogno di storia” che esprimono – la public history s’incarica di diffondere una cultura del metodo storico, anche affrontando «le problematiche del riconoscimento e della visibilità» [Colazzo, 2019, p. 30].

Le biblioteche, dal canto loro, possono agire in questo contesto su più livelli: con la sensibilizzazione all’uso libero e corretto delle informazioni (che la professione bibliotecaria cura in molti aspetti, dal contrasto alla censura alle azioni anti fake news), con la didattica delle fonti, con l’allestimento di collezioni e percorsi di valorizzazione, con canali alternativi di aggregazione e incontro. «Ciò che si chiede ora alle istituzioni culturali è di diventare spazi abilitanti che permettano a queste comunità di senso di coltivare e di espandere la propria capacità di espressione, la propria identità culturale», anche ripensando l’audience development in termini di coinvolgimento [Sacco, 2020, p. 519]; è di realizzare «un incontro diffuso degli abitanti (prima dei turisti), con la storia e le memorie vissute come materia viva in cui i contemporanei si possano riconoscere» [Crasta, 2020, p. 125].

Trasportando il concetto di comunità sul piano geografico si espande ulteriormente il ruolo delle biblioteche: «per la public history il rapporto con il territorio è cruciale, e sul territorio le biblioteche hanno un ruolo fondamentale, e in particolare di tipo “pratico” e “civile”» quali «spazi/luoghi/contesti democratici privilegiati per attivare momenti e processi costruttivi di discussione, partecipazione, approfondimento e riflessione su discorsi storici e civico-educativi», coinvolgendo un’utenza più varia rispetto a quella dei musei e potenzialmente più aperta alla condivisione di contenuti anche su temi controversi [Sabba, 2020, p. 14]. Su questo fronte il bibliotecario si presenta in doppia veste: è a sua volta “pubblico” del public historian ma può affiancarlo all’occorrenza, in base alle proprie competenze, ingaggiando “pubblici” più vasti.

Professioni

Portando i termini “riconoscimento” e “visibilità” su un diverso piano, si può dire che proprio la ricerca di visibilità e autorevolezza nella società sia un altro degli aspetti che accomunano oggi i percorsi di public historian e bibliotecari; ma mentre i primi sembrano conquistare spazi nelle università (quasi in controtendenza col carattere extra-accademico della public history), le biblioteche soffrono spesso di scarso dialogo col mondo accademico. Esse potrebbero dunque giovarsi della propensione al dialogo insita nella public history, entrando nell’arena pubblica per offrire expertise nei propri ambiti di competenza e favorire il ripristino di un clima di fiducia nei confronti della ricerca scientifica. Nei manuali di public history statunitensi le biblioteche sono talvolta inserite nel bagaglio esperienziale dei percorsi didattici: si consiglia ad esempio agli studenti di esplorare le collezioni storiche della biblioteca pubblica o di farsi aiutare dal bibliotecario di quella accademica nella valutazione di una fonte

Potremmo dare per scontato, in Italia, questo atteggiamento? E, se sollecitate, quante biblioteche sarebbero pronte ad accoglierlo e approfondirlo? Da questo punto di vista il perdurante scollamento tra le qualificazioni professionali e i meccanismi di reclutamento del personale di biblioteca in Italia, nonostante le energie profuse nella certificazione delle competenze e nel loro riconoscimento normativo, rappresenta un aspetto critico, ostacolando la percezione del bibliotecario come partner strategico e la rivendicazione del suo ruolo intellettuale nella sfera pubblica.

Altro aspetto cruciale nel rapporto tra professioni è il dialogo con la scuola, non solo all’interno delle biblioteche scolastiche ma attivando circuiti collaborativi tra istituti scolastici e biblioteche civiche, pubbliche statali, di musei: la prospettiva della public history si presta bene a progetti didattici a più voci, né forse è un caso che i contributi di taglio pedagogico, o con proposte operative di questo tipo, siano una porzione rilevante della componente bibliotecaria nella letteratura sulla public history, che è ancora minoritaria, anche rispetto ai contributi provenienti dal mondo degli archivi e – ancora di più – dei musei.

Appunto sul fronte MAB, sembra che tra le professioni dei beni culturali le biblioteche soffrano oggi una meno immediata percepibilità quali alleate della ricerca storica. Se gli archivi conservano fonti documentali primarie, se i musei godono di più antica familiarità con la propria vocazione comunicativa, in un mondo sempre più (apparentemente) disintermediato la biblioteca rischia invece di essere relegata a semplice erogatrice di servizi o fornitrice di postazioni di lettura, che una maggiore disponibilità di contenuti online potrebbe ulteriormente marginalizzare. Di qui l’esigenza di approfondire il “fare rete” con le altre professioni della documentazione, ma pure di stabilire alleanze in contesti trasversali, condividendo battaglie culturali di ampio respiro, in nome di un comune impegno civile.

Welfare

Quanto esposto fin qui può essere ricondotto al più generale dibattito in corso sull’identità attuale delle biblioteche, anch’essa in tensione tra diverse visioni; si configura la biblioteca come “terzo luogo” che aggrega, come conversazione, come agorà postdigitale per porre domande «fornendo gli strumenti per costruire risposte provvisorie, in un contesto di nuovi dialoghi» [Carrión, 2020, p. 524]. Non sempre una visione della biblioteca calza a ogni tipologia di istituzione, di collezioni o di utenza su cui sono parametrati spazi e servizi. L’orizzonte è quello della complessità, di cui i bibliotecari come i public historian sono chiamati a facilitare la comprensione senza scadere nella semplificazione. In quest’ottica, il confronto con le pratiche e i metodi della public history può essere una preziosa occasione di riflessione sulle rispettive specificità e sui diversi pubblici, di rielaborazione dei linguaggi con cui rivolgervisi, di riscoperta del substrato civile dell’azione bibliotecaria.

Va inoltre considerato un più generale cambio di prospettiva sui beni culturali indotto dalla Convenzione di Faro, che introducendo il concetto di «diritto al patrimonio culturale come facoltà di partecipare all’arricchimento o all’incremento del patrimonio stesso e di beneficiare delle attività corrispondenti» di fatto avvicina la fruizione culturale a ogni cittadino e incoraggia una co-creazione di contenuti e forme delle attività culturali, ulteriormente legittimando le pratiche partecipative fin qui descritte. Di più, la Convenzione, definendo patrimonio culturale (ma il testo originale pone l’enfasi sul concetto di heritage) l’«insieme di risorse ereditate dal passato che le popolazioni identificano […] come riflesso ed espressione dei loro valori, credenze, conoscenze e tradizioni costantemente in evoluzione»[Consiglio d’Europa, 2005, p. 34], ne stabilisce la natura interattiva e modifica il modo di rapportarsi ad esso, accentuandone l’aspetto di lascito del passato vivo nel presente. Ne deriva un «profondo rovesciamento complessivo: dell’autorità, spostata dal vertice alla base; dell’oggetto, dall’eccezionale al tutto; del valore, dal valore in sé al valore d’uso e, dunque, dei fini: dalla museificazione alla valorizzazione» [Montella et al., 2016, p. 14].

Le nuove implicazioni della valorizzazione e una visione non statica del patrimonio possono offrire spunti di lavoro ma soprattutto ricollocano in uno scenario più ampio le opportunità e le sfide fin qui esposte. Le biblioteche, insieme agli altri luoghi della cultura, sono considerate parte di un nuovo modello di welfare culturale integrato, come fattore di benessere soggettivo, inclusione, empowerment [Cicerchia - Ghiglione - Seia, 2020], «promozione degli individui e delle comunità attraverso pratiche di vicinanza partecipative» [Valenza, 2020, p. 49]; sono fautrici di una cittadinanza consapevole, che è lo stesso obiettivo del pensare storico quando si fa elemento di costruzione dell’utilità sociale. Così, in una visione che pone al centro l’uomo, ci ricolleghiamo alla prospettiva umanista enunciata in esergo con le parole di Marc Bloch che, seppure riferite al lavoro degli storici, ben possono applicarsi alla mission bibliotecaria.