N.1 2021 - Biblioteca, storia, memoria

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Le raccolte locali: opinioni a confronto

Alberto Salarelli

Dipartimento di Discipline umanistiche, sociali e delle imprese culturali Università degli studi di Parma alberto.salarelli@unipr.it

Abstract

La tavola rotonda proposta in questo contributo tratta il tema delle raccolte locali, un ambito di indagine che, malgrado la ricerca storica di interesse locale appaia tutt’oggi come un filone di studi alquanto ricco, appare sottovalutato nella letteratura biblioteconomica italiana. L’obiettivo che questo articolo si propone consiste proprio nel dare voce a una serie di esperienze differenti allo scopo di fornire un panorama non esaustivo ma esemplificativo di buone pratiche per la valorizzazione e l’arricchimento delle collezioni locali.

English abstract

The round table proposed in this contribution deals with the theme of local collections, a field of investigation that, even though historical research in the local field still appears to be a very rich strand of study, appears to be underestimated in the Italian LIS literature. The objective of this contribution is to give voice to a series of different experiences to provide a non-exhaustive but exemplary panorama of good practices for the valorization and enrichment of local collections.

Introduzione alla tavola rotonda

Il diradarsi, da una ventina di anni a questa parte, dei contributi nella letteratura biblioteconomica italiana relativi alle raccolte di ambito locale è un’evidenza difficilmente contestabile. Dopo la vivace stagione degli studi sul tema culminata, e ben presto terminata, alla fine del secolo scorso con il lavoro seminale di Rino Pensato [Pensato, 2000] – una stagione coincisa con un revival degli studi storici di ambito locale, fenomeno che può essere fatto risalire al periodo post-sessantottino, caratterizzato da un lato dalla crisi dei principali modelli ideologico-interpretativi con la conseguente necessità di riscrivere la storia partendo da nuove basi spaziali e documentali e contestualmente, dall’altro lato, dalle nuove competenze degli enti locali in tema di beni culturali a seguito della devoluzione dei poteri alle Regioni – pochissime sono state le occasioni per una significativa ripresa del discorso, come se esso fosse ormai collocato in posizione defilata rispetto a «tematiche più cool, che hanno conquistato posizioni di privilegio nella considerazione professionale, egemonizzando i seminari di aggiornamento, i convegni, le riviste di divulgazione e di approfondimento» [Rasetti, 2013, p. 128]. Il perché di questa eclissi rimane una questione meritevole di approfondimento; ci limitiamo in questa sede a qualche spunto di riflessione.

Se è vero che la ricerca storica di ambito locale, come dicevamo, è stata uno dei motori di interesse in grado di stimolare nel recente passato la riflessione delle biblioteche pubbliche attorno al tema della preservazione e valorizzazione delle fonti, bisognerebbe innanzitutto chiedersi in che stato di salute versi oggi tale tendenza storiografica.

Ci sentiamo di affermare che essa – pur in un contesto generale di tormento che la storia vive in relazione alla progressiva perdita di importanza della dimensione diacronica quale chiave interpretativa della contemporaneità – appare ai nostri occhi come un filone alquanto vivace, se ammettiamo che tale categoria possa essere misurata in base al numero di cultori coinvolti nelle ricerche e alle risultanze da tali ricerche generate: studi, pubblicazioni di fonti, siti web, gruppi di discussione sui social. Insomma, ha osservato Isabella Zanni Rosiello, «che l’interesse per la memoria e la storia locale, sia pure inteso nella sua sfaccettata polisemia, sia a tutt’oggi diffuso, è indubbio. Tanto diffuso che, per riprendere le parole di Cantimori […], sarebbe sciocco negarlo o ignorarlo» [Zanni Rosiello, 2017, p. 74].

È difficile non leggere dietro questo fervore di iniziative una risposta nei confronti dei rischi di una omogeneizzazione della cultura in termini globali: si tratta di una visione delle cose che, se sul piano politico ha fecondato il terreno per nuovi nazionalismi, nel campo della ricerca storica ha alimentato un ulteriore trasporto verso orizzonti territoriali più limitati, quelli più prossimi alla dimensione ove si svolge la vita quotidiana, ovvero una dimensione – come ha scritto Marco De Nicolò – «che dia modo di scoprire identità più omogenee, più compatte, in grado di ancorare gli studi a una comunità di cui si riescano a vedere solide radici di lungo periodo» [De Nicolò, 2010, p. 26]. Non è questa l’occasione per ragionare nel merito attorno alla qualità storiografica di tali ricerche che vedono sovente come protagonisti i cosiddetti storici “non professionisti” (categoria notoriamente composita che comprende maestri, eruditi, collezionisti e, un tempo, ora meno, i parroci) quanto prendere atto che “pas de documents, pas d’histoire”, da cui il ruolo insostituibile delle istituzioni deputate alla conservazione. Ci troviamo perciò nel bel mezzo dell’ennesimo paradosso di questa nostra età delle contraddizioni: ha ragione Adriano Prosperi quando lamenta la perdita della memoria e l’ignoranza della storia che affligge tanta parte della società, ed è altrettanto condivisibile la denuncia della poca cura riservata in Italia a «biblioteche, archivi e musei, considerati enti inutili e non redditizi, colpiti da continue riduzioni di personale, mezzi e strumenti» [Prosperi, 2021, p. 7]. Ma è altresì evidente come, al di là di queste considerazioni di carattere generale, qualora si voglia abbandonare una visione a volo d’uccello abbassando invece lo sguardo sui singoli territori, si noterà come tanti siano i soggetti (individuali o collettivi) coinvolti nello scavo documentario, nell’analisi del paesaggio, nella valorizzazione di tanta parte della cultura materiale e, soprattutto, come l’impegno di centinaia di docenti nel coinvolgimento dei loro studenti in percorsi di ricerca in grado di affinare le capacità di lettura delle stratificazioni cronologiche rappresenti un veicolo di esperienze diffuse e significative, esperienze che non dovrebbero essere derubricate in modo frettoloso come sottoprodotti (variamente denominabili: identitarismo, eruditismo, rimembranza ecc.) della “vera” storia.

Torniamo perciò ai documenti, dal momento che la vivacità che caratterizza la storia locale oggi si riflette in teorizzazioni e in pratiche molto differenti che si affiancano, senza soppiantarle, alle strategie di ricerca più tradizionali: ci riferiamo alla public history, alla digital history, a quegli approcci che, allargando il perimetro semantico, potremmo riferire agli studi culturali o alla citizen science; in tutti questi casi siamo di fronte a nuove modalità di approccio che sollecitano le istituzioni della memoria, responsabili dell’allestimento e della gestione delle «macchine per esplorare il tempo e lo spazio», a un continuo ripensamento in ordine alle tipologie di fonti da prendere in considerazione e, altresì, alle strategie da adottare per il loro trattamento. Giusto per scegliere un esempio non casuale, le pratiche di digitalizzazione e l’utilizzo di internet – questioni a cui Pensato aveva dedicato lo stringato ma non banale capitolo conclusivo della sua monografia – hanno profondamente ridisegnato in questi anni il panorama entro il quale la documentazione locale viene ad essere offerta e fruita. Non è solo la quantità di documentazione oggi disponibile in rete a rendere palesemente diverso il modo attraverso cui si può impostare una strategia di indagine storica ma, insieme ad essa, è la varietà delle esperienze che possono essere attivate partendo da un patrimonio documentale condivisibile online che configurano nuove modalità di collaborazione tra i bibliotecari e gli utenti. E allora, se sul versante storico questo nuovo contesto ha dato origine a una copiosa letteratura, perché nel nostro Paese si avverte la mancanza di una riflessione di pari livello in campo biblioteconomico? Azzardiamo un’ipotesi: manca un punto di sintesi. Infatti, a differenza del mondo anglosassone per il quale sono disponibili monografie recenti che riassumono sul piano teorico i termini del dibattito fornendo al contempo una serie di indicazioni di natura metodologica, da noi si avverte l’assenza di opere di taglio analogo. Dopo la monografia di Pensato nessuno si è fatto carico di un tale onere, imbastendo cioè un lavoro in grado di riunire in una trattazione organica le riflessioni e le esperienze che, a ben vedere, non mancano anche nella nostra letteratura ma che rimangono confinate nella presentazione di casi singoli quando non, a volte, poste in secondo piano rispetto a tagli prospettici volti a porre in luce l’innovatività di specifiche soluzioni tecniche.

Abbiamo quindi colto l’occasione del tema scelto per questo numero monografico della nostra rivista per riattizzare un discorso mai del tutto spento ma di certo un po’ sopito; la formula scelta è quella della tavola rotonda “virtuale” (già sperimentata nel primo numero di Biblioteche oggi Trends) con la quale abbiamo coinvolto alcuni esperti ponendo loro quattro domande che sintetizzano quattro tematiche cruciali per l’argomento in questione, vale a dire il rapporto tra biblioteca e comunità, la proattività della biblioteca come stimolo all’approfondimento degli studi di storia locale, le potenzialità della rete come strumento di valorizzazione e arricchimento delle collezioni locali e, infine, il ruolo della biblioteca nella scelta dei documenti da preservare.

Come leggerete, le esperienze alle quali i nostri interlocutori fanno riferimento sono molto differenti le une dalle altre, a dimostrazione del fatto che, per sua natura, l’argomento si presta ad essere declinato secondo le scelte e le possibilità che caratterizzano ogni specifica realtà, ma soprattutto perché il locale si è ben prestato in passato, e ancora oggi si presta, come laboratorio per sperimentare forme innovative di gestione e valorizzazione documentale.

Hanno accolto il nostro invito, e di questo li ringraziamo, Alessandra Boccone (Università degli studi di Salerno, Centro bibliotecario di Ateneo), Valeria Calabrese e Davide Monge (Biblioteche civiche torinesi, Area Biblioteca musicale, fondi speciali e studi locali), Luigi Catalani (Polo bibliotecario di Potenza), Giovanni Galli (già direttore delle Biblioteche comunali di Parma; presidente dell’Associazione Amici Biblioteca di San Leonardo), Claudio Gamba (già dirigente della Struttura Patrimonio culturale di Regione Lombardia), Maria Carmen Locci (Sardegna Digital Library ), Eusebia Parrotto e Mauro Hausbergher (Biblioteca comunale di Trento).

In un mondo come quello attuale, caratterizzato da dinamiche sociali complesse, che ruolo gioca la documentazione locale nel definire (o ri-definire) il rapporto tra una biblioteca e la sua utenza?

Alessandra Boccone

In molti casi la sezione di documentazione locale funge da nucleo di fusione fra la biblioteca, la sua utenza e il suo territorio: ad esempio, nel caso di una biblioteca accademica multidisciplinare come quella dell’Università degli studi di Salerno, si è avvertita forte l’esigenza di creare una raccolta specializzata, sia per soddisfare le necessità di studio e ricerca dei propri utenti istituzionali, ma anche con l’intento di incrementare e divulgare il patrimonio scientifico e culturale legato al territorio, anche a vantaggio di imprese, istituzioni, studenti non universitari e, più in generale, dell’intera collettività. Questa riflessione ha portato alla nascita del Fondo Studi e ricerche sul territorio, dove sono conservati documenti, monografie e periodici di argomento o produzione campana, e in particolar modo salernitana, molti dei quali digitalizzati e inseriti in Salernum: biblioteca digitale salernitana Salernum: biblioteca digitale salernitana. Data la natura stessa del fondo, molte risorse sono particolarmente rare e legate a luoghi, personaggi e vicende assolutamente peculiari; anche per questo motivo tali materiali vanno ad assumere una rinnovata rilevanza, grazie alla possibilità di diventare oggetto di studio della public history, per lo sviluppo della quale è cruciale il rapporto con il territorio e la documentazione prodotta in quel determinato contesto. Come afferma Alberto Petrucciani, tale combinazione è vera soprattutto in Italia, dove la comunità locale ha un radicamento «visibile e palpabile» nelle proprie tradizioni e nel proprio patrimonio culturale, inteso come patris munus, che conferisce alla raccolta documentale di interesse locale «il senso di un’eredità e un dono da accettare, custodire e tramandare [...per] conciliare il ruolo sociale e di costruzione della cittadinanza (mission, pratiche e servizi) con quello patrimoniale e di conservazione (beni materiali e immateriali)» [Sabba, 2020], secondo le parole di Fiammetta Sabba.

Valeria Calabrese e Davide Monge

L’interesse alla documentazione locale fu uno dei principi ispiratori dell’editore Giuseppe Pomba, propugnatore e fondatore a Torino, nel 1869, della prima moderna biblioteca pubblica italiana, soltanto un ventennio dopo la promulgazione in Inghilterra del Public Libraries Act che aveva favorito la costituzione su tutto il territorio inglese delle local history collection. Non è casuale, quindi, che nel suo programma di “biblioteca per tutti” Pomba ritenesse necessario che il nuovo istituto dovesse comprendere anche «un archivio di memorie relative alla città».

Ancora oggi la Carta dei servizi indica, tra le principali finalità delle Biblioteche civiche torinesi, «favorire la conoscenza della storia, delle tradizioni, dell’ambiente locali, in primo luogo attraverso l’insieme di libri e altre risorse documentarie in cui è sedimentato il patrimonio di sapere e di conoscenza, che la comunità torinese ha saputo esprimere nel corso della sua storia» [Città di Torino, 2019]. In piena armonia, quindi, con la tradizionale definizione di “raccolta locale” di Giuliano Vigini, intesa come «l’insieme organico e ordinato degli studi, dei documenti e dei materiali che concorrono a preservare e trasmettere l’eredità storica e culturale di una determinata comunità e del territorio su cui essa vive» [Vigini, 2015, p. 85].

Ne consegue che la Biblioteca civica di Torino rivolge oggi la propria attenzione non soltanto ai gruppi etnici locali, originari del luogo, ma anche alle culture dei gruppi etnici immigrati sul territorio, in un’ottica di interazione e scambio di conoscenze.

Luigi Catalani

Credo che la documentazione locale rappresenti il cuore di una biblioteca pubblica, la sua parte più caratterizzante, per ragioni che si possono facilmente intuire e che fanno riferimento tanto alla specificità dell’offerta quanto all’identità della raccolta e della comunità con cui essa instaura un dialogo costante. Da un lato, alimentando questa sua collezione, la biblioteca consente l’accesso a un insieme di risorse documentarie, alcune delle quali pubblicate in una quantità limitata di esemplari, che sarebbe difficile consultare tutte insieme altrove. Allo stesso tempo, la cura nello sviluppo di questa raccolta contribuisce a definire la peculiarità dell’istituto e del pubblico di riferimento. Se in altri ambiti la ricerca di elementi identitari può apparire come una forzatura, un fattore strumentale di chiusura se non di contrapposizione, in questo caso costituisce un esercizio di arricchimento sociale e culturale. La comunità cerca questo tipo di documentazione per approfondire la conoscenza di sé, per risalire all’indietro nel tempo nel racconto delle vicende che hanno segnato la storia del proprio microcosmo. La documentazione locale risulta attrattiva anche agli occhi del ricercatore esterno al pubblico di riferimento, ovvero dello studioso, del lettore curioso che cerca collegamenti, conferme, smentite attraverso il confronto tra le pagine, le voci, le cronache dei “mille campanili”. Il rapporto tra una biblioteca e la sua utenza ruota attorno alla sua sezione di storia locale: è in questa raccolta che risiede, anche agli occhi delle amministrazioni più distratte, gran parte di quello che può definirsi il suo valore patrimoniale e al contempo il suo capitale sociale.

Giovanni Galli

Come il lutto si addice a Elettra, così ai pensionati si addicono i ricordi e i cantieri. Dei ricordi dirò poi. Ora vorrei parlarvi di un cantiere, cui tengo molto. Un po’ per caso mi sono trovato coinvolto – finalmente dall’altra parte della barricata – in un progetto di rigenerazione urbana per dir così culture driven, ovverossia l’idea che un quartiere periferico e problematico della mia città – il Quartiere San Leonardo nella zona nord di Parma – possa essere rivitalizzato dall’istituzione di una biblioteca-centro culturale capace di agire come fattore di coesione e integrazione. L’associazione che si è prefissa questo obiettivo, mentre ne discute e cerca di mobilitare l’opinione pubblica e sensibilizzare un Comune renitente, ha ritenuto di dovere contemporaneamente sviluppare quelle attività che il centro culturale, una volta creato, meglio saprebbe realizzare, quasi per preparare un pubblico consapevole e partecipe. Un filone di attività riguarda la ricostruzione dell’identità del quartiere, già stato sede delle principali industrie cittadine ormai migrate da anni verso una più remota ma contigua periferia. Un gruppo di cittadini ha iniziato a raccogliere testimonianze, si è prodotto un film che ricorda un tragico evento bellico e ora si è iniziata la ricerca e la raccolta di documenti, specie audiovisivi, posseduti dai privati, intercettando anche attività documentarie promosse da altri soggetti. Si collabora con un’associazione di veterani di un’industria dismessa che lottano da anni per allestire un museo di civiltà industriale nella vecchia fabbrica abbandonata (il Museo del vetro promosso dal Gruppo Medaglie d’oro Vetreria Bormioli Rocco e figli). Per questa via particolare possiamo immaginare si costruisca una raccolta di documentazione locale che entrerà a far parte delle risorse della futura biblioteca mantenendo un rapporto genetico/generativo con la sua comunità di riferimento.

Claudio Gamba

Le biblioteche non sono, in generale, istituzioni “forti”. In particolare in Italia, dove l’attenzione dei decisori politici e finanziari su di esse è spesso assai scarsa, e dove peraltro la stessa frequentazione da parte dei cittadini è piuttosto bassa. Ma anche in paesi in cui la biblioteca è un’istituzione riconosciuta e utilizzata, nel panorama dell’informazione di oggi (intendendo per “informazione” qualsiasi tipo di contenuto documentario) le biblioteche subiscono un potente “assalto” da mezzi ben più potenti e influenti, fino a determinare una sorta di crisi del loro ruolo di intermediazione informativa, a tutto vantaggio di una disintermediazione spesso approssimativa e addirittura falsa, ma certamente di grande impatto pubblico. E tuttavia le biblioteche dimostrano una grande capacità di resistenza e longevità, attraversando – più di altri istituti culturali – secoli o millenni con la loro storia. Ritengo che questa capacità di resilienza si fondi sulla loro straordinaria diversità e dunque sulla capacità di rispondere a esigenze eterogenee.

In questa “varietà di specie”, la biblioteca che conserva e fa fruire la documentazione locale – in generale, intendendo con questo termine tutto ciò che riguarda un territorio, una comunità e la loro “identità specifica” – può essere un attore importante nel suo proprio contesto, conquistare un pubblico, attenzione, peso sociale.

Il concetto di “identità” peraltro non è scevro di pericoli: chiaramente identifica un limite, un confine all’interno del quale si ritrovano caratteristiche che accomunano chi è dentro questo limite, con il conseguente rischio di escludere chi ne è fuori. Ecco, da questo pericolo la biblioteca – di qualunque tipologia essa sia – dovrebbe guardarsi con la massima attenzione, per il suo carattere, ormai da secoli conquistato, di inclusività e di fruizione allargata e democratica del sapere. Una biblioteca, dunque, che conosce e valorizza le identità spesso plurali presenti nel suo territorio e che le mette a disposizione di tutti senza esclusioni.

Maria Carmen Locci

La complessità richiamata nella domanda ha investito anche le biblioteche con concezioni e modalità innovative. La Sardegna digital library presenta questi aspetti innovativi. Per quanto l’espressione digital library sia correntemente tradotta come biblioteca digitale, la raccolta digitale non ha più necessariamente corrispondenza con una raccolta fisica di supporti, cartacei o digitali, né presenta necessariamente una localizzazione in una sede accessibile al pubblico. Ci sono esempi prestigiosi come la British Library, eccellenza a livello internazionale, in cui alla biblioteca tradizionale si affianca l’attività virtuale, una realtà come la  Sardegna digital library è invece nativa digitale.

L’interazione fra l’utente e i documenti offerti in consultazione non ha quindi uno spazio fisico e non è mediata o regolata da un bibliotecario. In questo la fruizione è esattamente quella di un sito web, in cui l’accesso è libero, senza vincoli di tempo e di quantità e non è prevista la procedura di prestito, neppure digitale. Non esiste un’anagrafica degli utenti, non sono tracciabili le abitudini personali di lettura, neppure anonimizzate; i dati di accesso ai singoli documenti e i percorsi di ricerca sono analizzabili da strumenti statistici legati alla visualizzazione di pagine web e degli eventuali download.

Una modalità che travalica la dimensione areale della raccolta locale: la Sardegna digital library ha già nella sua denominazione l’evidente riferimento alla scala regionale che non è l’unità minima di segmentazione, ma è aggregazione di ulteriori articolazioni locali, dalle regioni storiche (Gallura, Ogliastra, Marmilla ecc.) ai singoli Comuni, realtà culturalmente omogenee con una orgogliosa affermazione della propria comunità di riferimento, declinata nella parlata, nei costumi tradizionali, nella cerchia sociale.

Il riferimento alla scala regionale non prescinde dunque dalle realtà sottordinate che la costituiscono pur restando individue e riconoscibili, ma funge da catalizzatore aggregante nella più ampia comunità isolana.

Eusebia Parrotto e Mauro Hausbergher

La Biblioteca comunale di Trento, fino dalla sua costituzione nei prima anni dell’Ottocento, si è configurata come istituzione culturale attenta alla documentazione e alla storia e cultura locali. La biblioteca divenne così “biblioteca e museo civico” e il modello di biblioteca universale di studio, al quale si ispirava, era intimamente connesso con quello, mutuato dalla Landesbibliothek tedesca, dell’istituzione deputata alla memoria e alla documentazione della cultura del territorio. Il passaggio del Trentino all’Italia nel 1918 non cambiò l’impianto e le finalità originari: la biblioteca rimase l’unico istituto bibliotecario importante della città e si ripropose ancora come strumento per lo studio, ma anche per la memoria del territorio. Acquisizione di documenti (non solo bibliografici), attività di catalogazione, iniziative di ricerca negli ambiti della storia, della cultura e della bibliografia trentina si sono così naturalmente intessuti nelle sue funzioni. Lo stesso regolamento che ne definisce e disciplina l’attività riconosce all’art. 17 “Attività culturali e di valorizzazione” questi compiti come costitutivi, prevedendo nello specifico che «per il perseguimento delle sue finalità la Biblioteca e l’Archivio storico programmano iniziative culturali, sia di livello scientifico che divulgativo, quali esposizioni documentarie e bibliografiche, convegni, presentazioni di opere e di autori, pubblicazioni, iniziative di didattica della biblioteca e dell’archivio, dirette in particolare: [...] alla promozione della conoscenza della produzione editoriale, in particolare attinente al territorio; alla valorizzazione del patrimonio bibliografico e documentario posseduto, con particolare attenzione; alla documentazione riferita al territorio, ai personaggi, alle istituzioni, alla vita intellettuale, artistica [...]»  [Comune di Trento, 2012]. 

In questo senso quindi la sezione locale ha da sempre costituito oggetto di grande interesse e investimento di risorse nella politica bibliotecaria della città. Ora con circa 150.000 documenti bibliografici, più di 6.000 manoscritti e oltre 70 fondi archivistici di interesse locale la Sezione trentina della biblioteca comunale è il punto di riferimento obbligato per chi si occupa o si interessi a qualsiasi livello alla storia e cultura della città, del Trentino e più in generale dell’intero territorio del Tirolo storico. Le raccolte della sezione locale sono oggetto di studi e tesi di laurea, ma anche punto informativo per interessi meno strutturati: le collezioni di periodici, di fotografie, di cartoline incontrano un pubblico meno professionalizzato ma comunque ampio e diversificato.

Quali sono le attività più efficaci attraverso le quali una raccolta locale può fungere da stimolo per valorizzare la storia di un territorio?

Alessandra Boccone

La valorizzazione del patrimonio è parte integrante e universalmente riconosciuta delle attività e dei servizi offerti dalle biblioteche, che molto spesso puntano la loro attenzione sulla raccolta locale per avvicinare un pubblico più ampio rispetto all’utenza abituale e per coinvolgerlo nella salvaguardia delle testimonianze di una cultura avvertita come un bene, che allo stesso momento è comune e individuale, due concetti fra loro antinomici, che però dal mio punto di vista esprimono bene la singolarità delle raccolte e dei beni locali.

Oltre alle proposte tradizionali, come mostre fisiche, seminari, convegni, visite guidate in biblioteca, oggi è possibile avvalersi di tecnologie e iniziative che garantiscono una comunicazione di qualità e duratura nel tempo delle collezioni locali: basti pensare all’implementazione di biblioteche e mostre digitali, all’utilizzo della realtà aumentata, alla creazione di percorsi turistici e laboratori a tema, con un’attenzione continua alla qualità della proposta, in linea con le vocazioni delle singole biblioteche. Inoltre, abbiamo a disposizione una serie di strumenti validissimi e assolutamente sostenibili sotto più punti di vista: mi riferisco ad esempio ai progetti Wikimedia (in primis Wikipedia, Wikisource e Commons) con cui le biblioteche e i bibliotecari si confrontano sempre più spesso, che permettono di valorizzare, nel senso più ampio del termine, a costo zero e in maniera del tutto collaborativa il patrimonio documentale (ma anche i metadati) delle proprie collezioni, soprattutto se rare e specializzate come quelle locali.

Grazie a questa rinnovata sensibilità e a una tale varietà di strumenti a disposizione delle biblioteche e dei loro utenti (o member, per sottolineare un senso di appartenenza all’istituzione, come suggerisce David Lankes), la conoscenza del patrimonio documentale di una comunità diventa il fattore costituente della valorizzazione della comunità stessa.

Valeria Calabrese e Davide Monge

Come diretta applicazione dei princìpi a cui abbiamo fatto cenno, in tutte le sedi del sistema bibliotecario cittadino esiste una sezione di studi locali che offre documenti relativi al Piemonte, a Torino e al quartiere di pertinenza.

In particolare, la valorizzazione della storia locale (che ben presto ha abbracciato quale campo d’interesse l’intero Piemonte) ha dapprima mirato alla completezza della documentazione raccolta, per poi concretizzarsi anche in iniziative di promozione della lettura, organizzate insieme con case editrici e autori.

Oggi lo strumento più efficace è sicuramente rappresentato dalla collaborazione con altre realtà del territorio, con le quali condividere idee, progetti, contributi, strumenti. Dall’anno 2000 l’Ufficio Studi locali si trova al centro di una fitta e feconda trama di rapporti, che coinvolge servizi comunali, enti e istituti cittadini. Ed è soprattutto attraverso il coordinamento e la partecipazione a interventi di digitalizzazione che realizza la tutela e la valorizzazione di documenti d’interesse locale, come dimostrano i casi di MuseoTorino e CoBiS Digital library & archives.

Luigi Catalani

Qui entra in gioco il ruolo dei bibliotecari, senza i quali la raccolta locale rischia di restare una materia inerte. L’accesso a questa documentazione non dovrebbe configurarsi come un’operazione di archeologia culturale. Non si tratta di riesumare lettere morte, di sciogliere le incrostazioni che avvolgono opere dimenticate, di radunarsi attorno al focolare di un piccolo mondo antico attraverso descrizioni e testimonianze valutate a volte con troppa generosità o con eccessiva deferenza. La raccolta va animata, aggiornata, posta in relazione con il resto della collezione, anzi con il resto dell’ecosistema informativo, cartaceo e digitale. Credo che il modo migliore per valorizzare la raccolta sia favorire un approccio che non la consideri come un vicolo cieco ma come uno scrigno di fonti utili per la produzione di nuova conoscenza. Attività che risultano particolarmente efficaci sono quelle che collegano le risorse documentarie all’universo Wikimedia. Negli ultimi anni diverse biblioteche hanno messo in campo progetti basati sulla riscoperta di questa documentazione da parte degli studenti delle scuole, degli operatori volontari di Servizio civile universale, dei tirocinanti delle università, che si accostano a queste raccolte con l’intento di ricavarne voci enciclopediche, e-book, guide turistiche, collezioni fotografiche nel pubblico dominio. Queste attività possono coinvolgere anche il resto della comunità, in particolare i cultori di storia locale, gli operatori culturali, i docenti, le associazioni, in un processo virtuoso di valorizzazione del proprio territorio e del patrimonio culturale materiale e immateriale che trova nella raccolta di storia locale la materia prima e viva per la creazione condivisa di nuovi contenuti informativi.

Giovanni Galli

L’esperienza di San Leonardo è appena iniziata e quindi sarebbe prematuro darne un giudizio conclusivo o trarne conseguenze definitive. Inoltre, conosciamo tutti quanto sia problematico questo rapporto fra una comunità e l’immagine che ha/dà di sé e quanto l’idea stessa di “identità” si carichi di equivoci e produca addirittura forme di distopia, in una parola quanto sia “ideologica”. Per non dire che la stessa nozione di “comunità” dovrebbe essere sottoposta a critica e quantomeno declinata al plurale. Tuttavia, forse proprio questo percorso di ricostruzione documentaria potrebbe fornire una base per affrontare dialetticamente questa contraddizione. In altri termini proprio la modalità, il metodo partecipativo di costruzione della collezione da un lato, e dall’altro l’uso produttivo-creativo che di questi materiali sarà fatto (filmati, mostre ecc.) potrebbero assicurare o almeno favorire l’istaurazione ed il mantenimento di un rapporto “organico” con la comunità di riferimento. In fondo “documentazione” è nozione attiva e passiva ad un tempo, anche se in biblioteca siamo più facilmente propensi a vederne la dimensione passiva (raccolta di documentazione) rispetto a quella attiva (produzione di nuova documentazione).

Claudio Gamba

Come diverso può e deve essere il ruolo della biblioteca nella società, così molto diversificate possono essere le attività che definiscono e sviluppano una “raccolta locale”. Certamente la biblioteca dovrebbe conservare e far fruire quel materiale documentario tipico e specifico di un luogo (libri e periodici di pubblicazione o di argomento locale, documenti archivistici e altre testimonianze materiali della vita di una comunità), senza peraltro cadere nella tentazione della “conservazione a tutti i costi”: intendo dire che altri sono – rispetto a una biblioteca pubblica locale, per esempio – gli istituti regionali e nazionali deputati alla conservazione. Tuttavia, anche la biblioteca locale può giocare il proprio ruolo a patto di una selezione precisa: quindi certamente tutto ciò che potrebbe sfuggire alla conservazione ad altri livelli, come pubblicazioni minori o a diffusione limitata, così come tutto ciò che – a differenza di monografie e periodici – rappresenta un documento unico (documenti archivistici, carteggi, manoscritti, fotografie e altri tipi di documentazione non seriale e ripetibile). Ciò che deve fare una biblioteca per creare e sviluppare una raccolta locale per un verso fa parte della missione specifica della biblioteca, cioè testimoniare con le proprie raccolte il proprio orizzonte di interesse (vale per una biblioteca pubblica come per una biblioteca specialistica). In più, la biblioteca potrebbe coinvolgere attivamente la sua comunità di riferimento nel reperire fonti e documenti che per loro natura sfuggirebbero anche a una attenta gestione della raccolta. Parlo di documenti personali e famigliari, o anche patrimonio di gruppi o associazioni (scritti, fotografie, registrazioni audio e video, reperti di vita sociale e culturale ecc.) che la biblioteca può raccogliere e sistematizzare in sezioni specifiche fisiche o anche digitali.

Maria Carmen Locci

Sicuramente una scelta accurata dei documenti da acquisire, cercando un giusto amalgama di lavori a diverso livello di approfondimento, dalla caratura scientifica al taglio divulgativo. L’attenzione ai contributi degli studiosi locali va a colmare spazi e settori che potrebbero essere non coperti da raccolte generaliste, ma vanno accompagnati da una bibliografia di confronto che ne permetta la contestualizzazione, evitando la tentazione del particolarismo.

La narrazione di un contesto locale è anche integrazione del vissuto quotidiano con la sua vita “pubblica” e in questo senso una raccolta come la Sardegna digital library accoglie contenuti istituzionali, notiziari in lingua locale, eventi di interesse regionale.

Tutto questo accompagnato da una vetrina che periodicamente propone focus tematici, con un appuntamento teso ad interessare e fidelizzare l’utenza. La filosofia è quella di raccogliere e proporre documentazione che offra spunti e tematiche di identificazione positiva con il vissuto della propria comunità e le eccellenze del territorio negli aspetti antropici e naturalistici, utili a stimolare la coscienza collettiva.

Eusebia Parrotto e Mauro Hausbergher

Le linee di principio stabilite dal regolamento della biblioteca si sono concretizzate sia attraverso iniziative di ambito editoriale, promuovendo la pubblicazione di saggi e  strumenti bibliografici, sia per mezzo di studi, attività di ricerca, organizzazione di convegni ed esposizioni e attività didattiche rivolte prevalentemente, ma non esclusivamente, alle scuole. È in questa direzione che si muove anche il progetto di Biblioteca digitale trentina (BDT). La Biblioteca digitale trentina è il sito web dove sono conservati e resi disponibili i documenti digitali della Biblioteca comunale di Trento. Si tratta di riproduzioni fotografiche di materiali bibliografici di cui la Biblioteca conserva gli originali: libri, carte geografiche, cartoline, spartiti ecc. Nasce sostanzialmente dalla necessità, anche amministrativa, di unificare i preesistenti siti che trattavano materiale digitale gestiti dalla biblioteca comunale: Catina: catalogo trentino di immagini e Stabat: stampe antiche delle Biblioteca comunale di Trento. Il primo è il catalogo della collezione iconografica della biblioteca, un fondo di svariate migliaia di unità in cui sono conservate incisioni, disegni, fotografie, carte geografiche e una notevole raccolta di cartoline illustrate di soggetto trentino. Mentre Stabat, nato come progetto che si riproponeva di digitalizzare e rendere disponibili le pubblicazioni uscite sul territorio trentino dalle origini (1475) a tutto il XVII secolo, è man mano diventato il luogo della memoria digitale dei materiali testuali della Sezione di conservazione della biblioteca implementando altri nuclei importanti di documentazione bibliografica quali il fondo di bandi e manifesti (Tridentina manifesta) e il Preserving the World’s rarest books, progetto tuttora in corso che riguarda le edizioni rare (fino a due esemplari sopravvissuti nel mondo) stampate dalle origini fino al 1650. La BDT è stata organizzata in tre collezioni: iconografia, testi a stampa, manoscritti, nell’intento di raggruppare nella stessa base dati le varie tipologie di materiali presenti in biblioteca, ben consapevoli della trasversalità e della fragilità concettuale di queste categorizzazioni. Attualmente la banca dati contiene più di 14.000 oggetti digitali: 8.152 nella collezione iconografia, 4.241 nella collezione testi a stampa e 1.243 nella collezione manoscritti per un totale di circa 100.000 immagini digitali e un peso di 100 GB con un incremento annuo di circa 15 GB. L’eterogeneità dei materiali trattati dalla BDT (cartoline, disegni, testi a stampa, spartiti, codici medievali e recentemente anche i quadri della biblioteca) che scherzosamente può ricordare un bazar di paese dove c’è un po’ di tutto, è in realtà il suo punto di forza confermato anche dai lusinghieri dati statistici che indicano una media di più di 1.000 contatti al mese.

La digitalizzazione dei documenti e la loro disponibilità al pubblico per il riuso libero da vincoli autorizzativi ha indubbiamente aumentato e diversificato la fruizione dei documenti storici, in particolare di quelli iconografici, usati e diffusi ora non soltanto per scopi di studio e ricerca, ma anche per attività divulgative e per la creazione di nuovi contenuti. In questo modo si è ampliato il pubblico che fruisce della documentazione locale, che comprende ora anche persone creative, curiose, esperti di strumenti digitali che sono in grado di raccontare il territorio con nuovi linguaggi e tecnologie. Si offre così una nuova vitalità a ciò che prima era confinato nel passato; si permette al grande pubblico di rielaborare la conoscenza e il senso di appartenenza al territorio. Inoltre, sempre attraverso la digitalizzazione, questi documenti escono dall’interesse della comunità locale in senso stretto, perché possono essere fruiti in qualunque parte del mondo e per qualunque interesse anche non legato strettamente al territorio di riferimento della biblioteca.

In che senso i servizi di rete possono contribuire non solo a far conoscere una raccolta locale ma anche ad arricchirla?

Alessandra Boccone

Nella maggior parte dei casi le biblioteche che possiedono una raccolta locale sono forti di un rapporto consolidato con la cultura e le iniziative del proprio territorio; nel caso del CBA dell’Università degli studi di Salerno, biblioteca accademica ma aperta nei servizi e nell’interesse verso la propria comunità territoriale, il flusso culturale diventa bidirezionale, perché, da un lato, il valore dei documenti di interesse locale si accresce se inseriti nel contesto internazionale tipico delle università e, d’altro canto, le fonti locali offrono agli istituti di ricerca spunti nuovi per costruire un’altra storia, quella delle memorie delle comunità, attraverso le quali il passato si svela nella sua più ampia complessità.

Tutto ciò si realizza ancora più facilmente se questo scambio bidirezionale avviene in rete, con la potenza della tecnologia informativa contemporanea: penso in particolar modo alle possibilità delle biblioteche e archivi digitali di ultima generazione, del web semantico e dei linked open data, grazie ai quali i documenti relativi alla storia locale, ritenuti di secondaria importanza per decenni, riescono a ricollocarsi naturalmente al centro di un ambiente ampio e multisfaccettato come il nuovo ecosistema informativo, all’interno del quale è possibile anche l’integrazione con fonti di soggetto comune dislocate in luoghi e istituzioni differenti, in una visione unitaria che supera la frammentarietà tipica dei luoghi di conservazione della cultura.

Valeria Calabrese e Davide Monge

L’Ufficio Studi locali della Biblioteca civica centrale è coinvolto ogni anno nella partecipazione alle più importanti manifestazioni e ai principali progetti della città, quali il Salone internazionale del libro, Portici di carta, Torino che legge. A queste attività si affiancano, in sinergia con le altre sedi del sistema bibliotecario cittadino, la redazione di bibliografie e l’allestimento di mostre tematiche, mentre in collaborazione con numerose istituzioni culturali presenti sul territorio è sempre più significativa l’attività di digitalizzazione conservativa delle raccolte, con particolare interesse alla documentazione locale. Infine, la ricezione del deposito legale (la Biblioteca civica centrale è l’istituto designato dalla Regione Piemonte per il deposito legale nella Città metropolitana di Torino) agevola una costante e utile interazione con le case editrici in ambito provinciale.

Tra le attività dell’Ufficio Studi locali della Biblioteca civica torinese vi è il coordinamento scientifico della Biblioteca digitale di MuseoTorino, creata con l’obiettivo di mettere a disposizione dell’utenza, in formato digitale, opere su Torino e la sua storia a partire da edizioni antiche e rare e di fornire indicazioni sulla collocazione dei testi citati all’interno delle biblioteche dell’area metropolitana torinese grazie a un metaOPAC appositamente sviluppato. Al coordinamento della biblioteca digitale si affianca la quotidiana attività di normalizzazione catalografica delle notizie bibliografiche che corredano le schede di MuseoTorino.

Luigi Catalani

I progetti basati sulle piattaforme Wikimedia hanno un valore aggiunto, poiché non confinano le risorse documentarie all’interno di compartimenti digitali stagni, ma favoriscono l’incrocio tra questi nuovi contenuti e il resto delle informazioni online. In linea generale, credo vadano privilegiate piattaforme in grado di offrire garanzie relativamente alla persistenza e all’interoperabilità dei contenuti. Quella che Andrea Zanni ha battezzato qualche tempo fa la «filiera dell’open» [Zanni, 2018] mi pare sia un modello che funziona particolarmente bene con la documentazione locale, che più di altre può giovarsi di azioni di digitalizzazione non fini a se stesse, ma finalizzate alla creazione di nuove connessioni. L’adozione sistematica di piattaforme come Internet Archive, Wikimedia Commons, Wikisource, il loro inserimento nel processo di lavoro delle biblioteche, permette di centrare diversi obiettivi, tutti importanti e legati tra loro: la conservazione a lungo termine, la diffusione dei contenuti presso una platea sconfinata, l’apertura a nuovi contributi da parte di soggetti pubblici e privati, istituti della memoria, semplici cittadini. L’applicazione di standard di metadatazione condivisi su larga scala e di licenze d’uso che favoriscono modifiche, integrazioni e forme di riutilizzo creativo (che non escludono lo scopo commerciale), è alla base di un processo collaborativo potenzialmente inesauribile che risponde a una logica bottom-up.

Giovanni Galli

Questo è il momento dei ricordi. Dovete sapere che sui primi anni Novanta (ero allora un bibliotecario già abbastanza navigato: avevo consultato la BNI da un terminale di Italgiure in tribunale – altri canali non ce n’erano – , avevo fatto le mie gite a Chiasso, ovvero a Fiesole a farmi spiegare l’SBN: insomma mi davo da fare) anche qui in provincia si faceva un gran parlare di internet, senza saper bene cosa fosse. Sembrava però che si trattasse di una ricca fonte di informazioni tecnico-scientifiche, il cui uso in una biblioteca pubblica, tuttavia, sembrava, almeno a me, alquanto problematico. Mi sbagliavo, ovviamente, ma tant’è: questo pensavo allora (ero solo avanguardista). E mi chiedevo se non ci fosse un modo per avvicinare questo misterioso tesoro ai bisogni dei nostri utenti. Un paio d’anni prima mi era capitato per le mani Da Memex a Hypertext [Nyce - Kahn, 1992] e mi ero ingenuamente innamorato degli ipertesti. Ne parlavo spesso ma in realtà non sapevo che farne. Quando si cominciò a parlare del web, uno zampillo che di lì a poco sarebbe diventato un’alluvione, mi sembrò che potesse essere la strada buona. Quale poteva essere l’ambito tematico che in una biblioteca pubblica non poteva mancare e di cui nessun altro poteva fornire la copertura? La documentazione locale. Quale forma organizzativa dare agli elementi informativi? Quella ipertestuale come nel web, che sarebbe stato anche il canale di circolazione. Ecco l’idea – allora meno chiara di come la racconto oggi – che prese il nome di Iperloc [Galli, 1996] un progetto che allora ebbe qualche modesta risonanza. Vinse anche un premio della Provincia di Milano nel concorso “La biblioteca desiderata”. È passato molto tempo, ma credo che l’idea di base (un ipertesto dinamico a tematica locale distribuito via web) fosse e sia ancora buona. E l’avranno avuta in tanti autonomamente questa idea, perché quale sito di biblioteca pubblica non ha una sezione locale più o meno fatta così?

Claudio Gamba

Nel punto precedente ho accennato al fatto che la biblioteca potrebbe coinvolgere direttamente la comunità del suo territorio nello sviluppo di una raccolta locale, composta non solo da documenti editi ma anche da testimonianze uniche, personali o famigliari. La Rete, gli strumenti di digitalizzazione e telecomunicazione ormai alla portata di tutti, possono grandemente facilitare questa raccolta. Però occorre molta attenzione, come sempre in fondo quando si va a interagire con i “media” le cui potenzialità – in termini di opportunità ma anche di rischi – sono enormi e poco controllabili. In termini di opportunità, è da rilevare come la rete possa creare una profonda vicinanza tra la biblioteca e i suoi utenti favorendo la comunicazione e dunque anche la raccolta di documenti dispersi (cartacei o digitalizzati) che a pieno titolo possono entrare nella raccolta locale. Ma è subito chiaro che occorre una selezione basata su criteri chiari e pubblici (ad esempio: la rilevanza per la storia di un territorio, la “leggibilità” dei documenti, l’assenza di problematiche di riservatezza, la disponibilità alla libera pubblicazione ecc.) per non intasare le raccolte con documenti di scarso interesse (un po’ come capita con certe donazioni cartacee). E un altro problema, troppo spesso trascurato, è quello del “contenitore finale” di questa documentazione. Fare un sito, un portale, una piattaforma di pubblicazione, è oggi facile ed economico: ma qui si tratta di mantenere saldo, per così dire, uno dei “mestieri primari” della biblioteca, che è quello di garantire la conservazione delle proprie raccolte nel tempo. Dunque non basta un bel progetto (magari finanziato da uno sponsor) che metta in linea, forse anche con un estetica accattivante, una raccolta locale di documenti: qui occorre che si utilizzino degli standard consolidati, che si pensi alla conservazione a lungo termine, che si prevedano le modalità di utilizzo pubblico, che si garantisca una conoscibilità e accessibilità delle risorse anche da livelli catalografici di ampio utilizzo pubblico (catalogo SBN, cataloghi collettivi territoriali, portali di risorse digitali ecc.). Altrimenti avremo l’effetto di un “fuoco di paglia”: qualcosa di grande visibilità immediata, ma a rischio di prematura dispersione con evidente spreco di risorse finanziarie e organizzative, nonché un sicuro effetto boomerang di disaffezione da parte del pubblico.

Per parlare invece di quanto i servizi di rete possano far conoscere una raccolta locale, è certo che le potenzialità sono davvero tante: la digitalizzazione e pubblicazione di documenti locali, poco o per niente reperibili, riesce a dar loro la stessa “dignità” di testimonianze famose e pubblicate, e questo, oltre a valorizzare l’identità dei luoghi, è una chance nuova e potente per lo sviluppo degli studi, ma anche per una più diffusa conoscenza, anche solo per svago o passatempo.

Maria Carmen Locci

I servizi di rete assicurano una più capillare disseminazione della conoscenza; incoraggiare la consultazione dell’esistente porta a un’emulazione positiva e a nuovi spunti di ricerca soprattutto a livello non accademico.

Tramite la rete è possibile accogliere con maggiore facilità i contributi generati dagli utenti, in aggiunta alle pubblicazioni rilasciate con un tradizionale processo di edizione; si coglie l’opportunità di avvalersi della rapidità e gratuità dei contributi spontanei, che possono andare a intercettare momenti e contesti non altrimenti documentati. Questo è tanto più vero in una raccolta multimediale che può accogliere materiali immediatamente fruibili dopo la loro realizzazione anche senza un processo di edizione.

A fronte di un ampio ingresso di nuovo materiale, i servizi di rete rendono possibile un rapido riscontro del pubblico, tramite recensione e feedback sulle nuove accessioni.

Eusebia Parrotto e Mauro Hausbergher

I fondi librari e documentari antichi della biblioteca sono stati alimentati all’inizio più da generosi donatori che dalle casse municipali; ai libri si affiancarono interi archivi (e tra questi anche, dal 1876, lo stesso Archivio storico comunale) o singoli documenti, ma anche oggetti d’arte, collezioni di monete e reperti archeologici, nel tentativo di fare della nascente istituzione il luogo della memoria cittadina. Di particolare rilievo, sia per la consistenza (11.000 volumi a stampa e 1.500 manoscritti), sia per la forte connotazione locale, è il lascito testamentario di Antonio Mazzetti (1841), il quale già nel 1827 aveva manifestato il desiderio di «lasciare la mia biblioteca alla città regia di Trento o al magistrato civico». Ora, negli ultimi anni, forse per la nascita di altri soggetti culturali in città che in parte “occupano” spazi storicamente presidiati dalla biblioteca comunale, o forse per una perdita di appeal degli studi umanistici, il flusso di donazioni si è inaridito, ed è sempre più difficile intercettare donazioni o depositi di materiali bibliografici o archivistici. Negli ultimi tempi però in concomitanza con l’affaccio web della biblioteca sembra di essere in presenza di una timida, ma presente, inversione di tendenza. Recente è la donazione di un cospicuo e interessantissimo fondo di 700 tra cartoline e lastre fotografiche per la gran parte di soggetto trentino e sudtirolese fatta alla Biblioteca comunale di Trento da Filippo e Lorenzo Racioppi nel 2019. Ma non solo. La continua attività di promozione attraverso i canali social della biblioteca dei materiali digitalizzati sembra avere attivato un circolo virtuoso con gli utenti che intervengono spesso, chiedendo informazioni e a volte anche suggerendo e migliorando le schede bibliografiche e le identificazioni di persone e luoghi.

Di fronte all’ipertrofia documentaria contemporanea, quali criteri andranno individuati per scegliere i documenti di interesse locale che andranno preservati in biblioteca?

Alessandra Boccone

Partendo dal presupposto che, dal mio punto di vista, ogni biblioteca dovrebbe avere e seguire la sua carta delle collezioni (e dei servizi) in cui esplicita le politiche e i criteri di selezione, acquisizione e gestione delle proprie risorse, credo che i documenti di interesse locale, per le loro peculiari caratteristiche e specifici interessi, dovrebbero derogare a selezioni particolarmente stringenti. Dal mio punto di vista, quasi tutta la produzione locale va conservata e tutelata in biblioteca (o archivio), indipendentemente dalla qualità intrinseca o dalla rilevanza scientifica, perché il valore di tali raccolte risiede nell’essenza stessa dei singoli documenti, e precisamente nell’essere una testimonianza della vita culturale di una comunità in un determinato periodo storico.

Valeria Calabrese e Davide Monge

La Biblioteca civica centrale di Torino fin dai primi anni della sua istituzione svolge anche un ruolo conservativo. In particolare, cura l’accrescimento, la conservazione e la valorizzazione di alcuni sezioni “speciali”, di cui le principali sono quelle dedicate a Torino e Piemonte, all’Arte, ai Ragazzi e all’Automotive.

Nel caso di queste sezioni non si pone il problema dello scarto, quanto piuttosto quello della selezione. È quindi opportuno che gli acquisti siano affidati a personale preparato, conoscitore delle raccolte, costantemente aggiornato sulla produzione editoriale e informato sulle richieste degli utenti. In un contesto di forte contrazione della possibilità di spesa, inoltre, è necessario mantenere vive le collane e aggiornati i temi di maggior interesse, senza trascurare sviluppi originali e inediti nel campo degli studi locali.

Luigi Catalani

Mi piace pensare che sia ancora possibile ambire a una sorta di completezza per quanto riguarda la raccolta di documentazione locale, anche se con gradi diversi di copertura territoriale. Lo strumento normativo del deposito legale favorisce lo sviluppo e l’aggiornamento di questa collezione documentaria presso gli archivi regionali. Il concetto di preservazione assume in questo caso un valore ulteriore: c’è un vincolo di conservazione più stringente, un obbligo della memoria che orienta anche i criteri dello scarto. E laddove gli esemplari abbondano, è sempre consigliabile distribuirli presso altre biblioteche sul territorio, come ha fatto due anni fa la Biblioteca nazionale di Potenza, la cui dismissione del materiale bibliografico in doppia copia (in vista dell’integrazione funzionale con la Biblioteca provinciale, avvenuta nel 2020) ha dato corpo a un’idea di “biblioteca diffusa” che ha coinvolto decine di enti, biblioteche e associazioni presenti in Basilicata, che hanno ricevuto in dono volumi, periodici e materiale multimediale. C’è poi il problema opposto, quello di riuscire a raccogliere la documentazione di interesse locale nativa digitale, intrinsecamente frammentaria e rapsodica. Sono risorse che spesso sfuggono alle reti della documentazione ufficiale e alla stessa catalogazione: sarebbe utile individuare criteri comuni per la selezione e la conservazione di questa documentazione, allo scopo di garantire l’accessibilità nel tempo ai documenti di interesse locale che rispettano requisiti di qualità, cura editoriale ed attenzione alle “microstorie”.

Giovanni Galli

Costruire una raccolta è già di per sé operare una selezione. Questo vale anche per la documentazione locale, anche se io sarei prudente nell’applicare il principio selettivo a questo campo, che assimilo quasi più alla natura archivistica che a quella libraria. Una politica selettiva dovrebbe, inoltre, ancorarsi a una consapevole divisione del lavoro fra biblioteche, che in Italia mi sembra ancora un obiettivo lontano, nonostante la vasta letteratura sui sistemi, fiorentissima ai miei tempi. Da questa divisione del lavoro dovrebbe derivare per un dato territorio l’individuazione della struttura cui affidare la conservazione definitiva e integrale, che sarà pur sempre solo tendenziale, anche del materiale locale, che non sia localissimo, se mi passate questa espressione. Torno però a guardare all’esperienza del Quartiere San Leonardo, da cui sono partito: qui non vedo ora porsi con forza il problema della selezione. Non solo perché si tratta ancora di uno stato nascente, quando è più importante trovare che scartare. Ma anche per una ragione che può sembrare estranea al registro tecnico della biblioteconomia. Penso alla dimensione affettiva/evocativa che contraddistingue il rapporto fra i cittadini raccoglitori/utenti e i documenti resi disponibili. Questo rapporto mi appare forse il coefficiente più forte che abilita al riuso collettivo del reperto, rimettendolo vivacemente nel circuito della produzione culturale, da cui sembra l’abbia estratto, congelandolo nello stato documentario, la nostra opera di entomologi del sapere. Certo l’emozione non basta, occorre un lavoro sistematico e critico che ricostruisca la storia di un territorio, decostruendo falsi miti e illusioni. Tuttavia, che volete: ognuno ha le sue fisse, ma io quando sento citare con compunto fervore la famosa frase della Yourcenar sulle biblioteche come «granai in vista di un inverno dello spirito» mi verrebbe da dire che dovremmo piuttosto aprire delle panetterie per una nuova primavera.

Claudio Gamba

La selezione dei documenti da digitalizzare è sicuramente uno dei problemi più importanti che la comunità bibliotecaria deve (e dovrà sempre più, e con strumenti sempre più raffinati) affrontare. Non solo perché l’universo digitale odierno è, appunto, assolutamente ipertrofico e tutto ciò che vi si immette incontra una formidabile concorrenza, con il rischio di restare “invisibile”; ma anche perché lo stesso, speculare, universo dei documenti “tradizionali” (cartacei, o comunque su supporti analogici) è un mare magnum: anche limitando il campo di osservazione alla documentazione locale, si pensi ai documenti stampati (monografie e periodici), agli archivi, alle fotografie, alla “letteratura grigia” che spesso è fonte primaria per le ricerche locali. Faccio fatica a pensare dei criteri generali di scelta, sarei dell’idea che non possano nemmeno esistere. Credo che l’unica via percorribile sia quella di un forte coinvolgimento delle biblioteche e dei loro responsabili: sono loro che possono meglio conoscere le caratteristiche di un territorio, le sue risorse, le sue esigenze: e dunque selezionare i materiali da digitalizzare sia partendo da queste precise conoscenze – che non a caso sappiamo da tempo essere assolutamente necessarie nel bagaglio professionale dei bibliotecari – sia dalle richieste di utilizzo che provengono dagli utenti. Posso portare l’esperienza del progetto  Biblioteca digitale lombarda (BDL): in quel caso, avendo a disposizione a livello regionale risorse economiche significative (ad oggi sono stati spesi quasi 4 milioni euro provenienti da fondi strutturali europei POR FSE Regione Lombardia 2007-2013 e 2014-2020) la scelta fin dall’inizio fu quella di rivolgere a tutte le biblioteche lombarde una manifestazione di interesse per candidare una o più delle proprie raccolte all’opera di digitalizzazione (e successiva pubblicazione su portare regionale, e in prospettiva su Internet culturale). Naturalmente non trascurando altri elementi: in primis che si trattasse di materiale (sia librario, che archivistico, che iconografico) già catalogato e presente in cataloghi nazionali o regionali, poi che fosse liberamente e gratuitamente pubblicabile, infine che ci fosse un impegno a creare delle opportunità di valorizzazione di quelle stesse raccolte, tramite presentazioni, percorsi didattici, mostre virtuali o fisiche, attività di educazione al patrimonio ecc. Questo significa anche un cambio radicale di prospettiva nell’approccio professionale: digitalizzare non è solamente un’operazione di archiviazione, come dire… «l’ho fatto e non ci penso più!»; al contrario avere raccolte digitalizzate impegna – forse anche di più che per quelle tradizionali – il bibliotecario alla loro valorizzazione e fruizione. Altrimenti non faremo altro che sostituire la polvere degli scaffali di certe raccolte locali con una ben più costosa “polvere digitale” che man mano si depositerà sulle nostre piattaforme informatiche.

Maria Carmen Locci

Questa domanda va a intercettare gli inconvenienti di una impostazione “social” delineata al punto precedente: la mole anche molto ampia di materiale, necessariamente disomogenea per qualità e interesse, impone una selezione, sia alla fonte in base a requisiti qualitativi minimi, sia dopo averli sottoposti all’utenza.

A fronte di un massiccio apporto di nuove risorse, si può attivare un meccanismo di avvicendamento più rapido, in cui resta fondamentale la funzione dello scarto; necessario in una biblioteca tradizionale dove risponde all’esigenza di liberare spazio fisico, in una raccolta digitale se ne avverte l’esigenza quando le risorse di storage arrivano inesorabilmente a saturazione, con il vantaggio però di poter essere più agevolmente incrementate permettendo l’archiviazione piuttosto che l’eliminazione del materiale obsoleto.

Non si tratta ovviamente di una mera questione di spazio, ma di agevolare l’utente nella ricerca e nel browsing fra le risorse. In questo senso la gestione tecnologica non fa venire meno i criteri consolidati nel cartaceo e che restano utilmente applicabili ai prodotti digitali: esigenze e aspettative degli utenti, aggiornamento sullo stato dell’arte, validità e interesse nel medio e lungo periodo, durabilità e diffusione dei formati.

Eusebia Parrotto e Mauro Hausbergher

Questo è forse lo snodo più critico e la sfida più difficile per la Sezione locale. Se una tradizione ormai consolidata ci consente di intercettare con un buon margine di copertura (all’incirca attorno al 95%) la produzione tradizionale a stampa, contando anche sulla non secondaria circostanza che vede la Biblioteca comunale di Trento destinataria delle copie d’obbligo previste dalla legge sul deposito legale, il discorso per quanto riguarda i supporti non cartacei è estremamente più complesso. Si tratta di materiali che non siamo abituati a trattare, che molto spesso necessitano di strumentazioni tecniche per la loro fruizione, che peraltro hanno un grado di obsolescenza molto accentuato. Collezioni di cassette audio, videocassette, dischi in vinile, floppy disk ecc. pur posseduti dalla biblioteca sono attualmente inconsultabili e il loro riversamento su supporti più aggiornati si rivela così costoso da rendere necessaria una riflessione molto approfondita sulla opportunità di tale intervento. Per quanto riguarda invece i documenti nativi digitali la situazione è anche peggiore. Si devono affrontare non solo difficoltà tecnologiche di gestione e storage, ma anche la stessa “notizia bibliografica” sembra sfuggire a qualsiasi tentativo di controllo lasciandosi dietro la frustrazione e l’impressione di voler vuotare il mare con un secchiello.