Italo Calvino, il ‘fantastico’ e la letteratura per ragazzi
laura.detti@tiscali.it
Abstract
Italo Calvino è un caposaldo della letteratura italiana e internazionale del Novecento, riuscendo al contempo a essere uno degli scrittori più amati dai giovani lettori. Partendo dall’analisi di alcuni dei suoi scritti, l’articolo espone le ragioni che hanno garantito questo successo, pur non essendo un destino che lo scrittore aveva immaginato.
English abstract
Italo Calvino is a cornerstone of twentieth-century Italian and international literature and one of the most beloved writers among young readers. Starting with an analysis of some of his writings, the article highlights the reasons that ensured this success, although it is not a destiny the writer had envisioned.
Quali sono le ragioni che hanno portato Italo Calvino, uno degli autori principali della letteratura del Novecento, a divenire uno scrittore amato dai giovani lettori? Diciamo subito che questo è un destino che lo scrittore non aveva immaginato. Dalle riflessioni contenute nella sua produzione saggistica si evince infatti che egli non aveva mai ipotizzato di scrivere per una particolare fascia d’età. Anche la critica e chi lo aveva conosciuto conferma questo aspetto. Giulio Bollati scrive di lui: «Calvino non amava essere definito in modo preciso, con etichette che fissano un uomo a un ruolo. Era un marginale, un eccentrico per natura e per partito preso. Calvino era dappertutto, ma non era mai dove credevi di trovarlo» [Bollati, 1993, p. 1].
Quale pubblico?
Nell’articolo Per chi si scrive? (Lo scaffale ipotetico) l’autore scrive: «L’operazione di uno scrittore è tanto più importante quanto più lo scaffale ideale in cui vorrebbe situarsi è uno scaffale ancora improbabile» [Calvino, 1995f, p. 194]. Il pubblico per Calvino è quindi indeterminato, anzi deve essere indeterminato affinché la letteratura possa avere un ruolo. Il punto di vista viene ribadito in un articolo pubblicato sul L’Espresso nel settembre del 1974, in cui Calvino interviene in una polemica aperta da Angelo Guglielmi su Paese sera a proposito dei romanzi di successo, in particolare ci si riferiva al grande successo di pubblico del La Storia di Elsa Morante. Qui emerge con chiarezza l’idea di pubblico di Calvino. Parlando dell’ultimo canto dell’Orlando furioso, in cui Ariosto rappresenta i lettori del suo poema, «lettori ideali all’interno del mondo dei lettori potenziali» [Calvino, 1995g, p. 336], ci dice:
Così nell’intenzione che ogni scrittore mette nel suo progetto d’opera, è implicito un progetto di pubblico […]. Il progetto di successo dello scrittore che conta implica l’enucleazione di una società di lettori che si distingue in qualche modo dalla società quale essa è; mentre lo scrittore dozzinale ha in mente solo la società quale essa è e la sua risposta immediata [Calvino, 1995g, p. 336-337].
Qui l’autore sostiene che un’opera letteraria per essere tale deve rivolgersi a un pubblico ipotetico, non a un pubblico già esistente. Chiaramente qui egli si riferisce al fatto che un’opera di qualità non dovrebbe rincorrere i gusti dei lettori per assicurarsi il successo. Questo intervento ci fa però comprendere che Calvino non solo non aveva in mente i gusti dei suoi lettori, ma neanche pensava a un pubblico specifico per fascia d’età. Ciò rafforzerebbe l’idea che le sue opere, anche quelle più diffuse tra il pubblico giovanile (pensiamo alla trilogia de I nostri antenati o a Marcovaldo), non nacquero come opere per ragazzi.
Le riflessioni di Calvino sul pubblico, sul lettore ideale, ci portano a un altro importante tema, caro all’autore: il rapporto tra l’io che scrive e il lettore all’interno dell’opera, ovvero il tema dell’interpretazione, della metaletteratura. Cosa intende infatti Calvino per lettore ideale? In due interessanti scritti, La penna in prima persona (Per i disegni di Saul Steinberg) e soprattutto il noto I livelli della realtà in letteratura, Calvino intreccia la questione del pubblico con il tema della metaletteratura, ovvero del disvelamento ai lettori dei ‘trucchi’ della narrazione.
Nel primo scritto, dedicato al disegnatore Saul Steinberg, emerge il modo in cui Calvino intendeva il rapporto tra il fruitore e l’opera. Calvino coglie un aspetto fondamentale dell’arte di Steinberg: nei suoi disegni, sostiene, è la penna a essere il «soggetto dell’azione grafica» [Calvino, 1995e, p. 356]. «Che cosa ci sia dietro la mano, – prosegue – è questione controversa: l’io disegnante finisce per identificarsi nell’io disegnato, non soggetto ma oggetto del disegnare» [Calvino, 1995e, p. 359]. Su come l’artista sia visibile all’interno delle proprie opere, Calvino si sofferma in un passo successivo dello stesso saggio. Parlando di Michelangelo sostiene:
Anziché il mondo come oggetto rappresentabile dall’arte e l’arte come rappresentazione del mondo, ci si apre un nuovo orizzonte in cui il mondo vissuto è visto come opera d’arte al secondo grado o semplicemente come parte dell’opera complessiva. […] Il mondo, marcato dalla presenza dell’uomo in ogni sua parte, non è più natura, è prodotto delle nostre mani. S’annuncia una nuova antropologia in cui ogni attività e produzione dell’uomo vale in quanto comunicazione visiva nei suoi aspetti linguistici ed estetici [Calvino, 1995e, p. 359].
E più avanti: «L’arte sarà riflessione sulle forme, ipotesi di formalizzazioni visive d’un mondo virtuale; e sarà anche riflessione sul mondo dato come oggetto visuale, critica dell’esposizione permanente del mondo in cui siamo coinvolti nel triplo ruolo d’espositori, d’esposti e di pubblico» [Calvino, 1995e, p. 359]. Qui Calvino sembra far riferimento alla sua idea di letteratura. Riportando infatti il discorso sul piano letterario, il fatto di porre l’io scrivo, ovvero l’autore, come parte visibile e attiva all’interno dell’opera vuol dire necessariamente pensare a un pubblico ideale a cui comunicare gli strumenti della scrittura. Per Calvino in quest’epoca non si può fare letteratura senza portare all’interno dell’opera il rapporto tra l’autore, il pubblico e i personaggi creati. E il pubblico nasce all’interno di questo rapporto paradossale, circolare ma virtuale, tra io scrivo e opera scritta.
Nel saggio I livelli della realtà in letteratura la questione si chiarisce maggiormente. Calvino qui sostiene che la soggettività interna di un testo letterario, ovvero quella rappresentata dai personaggi che si muovono come fossero figure autonome rispetto a chi le ha create, è solo uno dei livelli di realtà del testo letterario. Un altro di questi livelli è quello dell’‘io’ che scrive. La vita autonoma dei personaggi di un racconto non prevede infatti, dice l’autore, la negazione di un io narrante, del soggetto scrivente. L’‘io scrivo’, dice Calvino, svanisce nella soggettività interna del racconto quando il lettore legge, ma è anche vero che gli stessi personaggi del racconto svaniscono nel momento in cui, in modo implicito o esplicito, emerge l’io narrante. Secondo Calvino, lo scrittore nella sua opera deve mostrare questa circolarità. Calvino conclude così la sua relazione:
Il tracciato che abbiamo seguito, i livelli di realtà che la scrittura suscita, la successione di veli e di schermi forse s’allontana all’infinito, forse s’affaccia sul nulla. Come abbiamo visto svanire l’io, il primo soggetto dello scrivere, così ce ne sfugge l’ultimo oggetto. Forse è nel campo di tensione che si stabilisce tra un vuoto e un vuoto che la letteratura moltiplica gli spessori di una realtà inesauribile di forme e significati. […] Il punto fondamentale della mia relazione forse è proprio questo: la letteratura non conosce la realtà ma solo livelli [Calvino, 1995c, p. 390].
Calvino sperimenta nelle sue stesse opere ciò che poi sostiene in ambito saggistico. Oltre a Se una notte d’inverno un viaggiatore, romanzo esemplare rispetto al tema scrittore-lettore, l’autore porta la questione anche all’interno dei suoi primi racconti. Ciò testimonia che questo è stato da sempre un tema caro allo scrittore. Nel Barone rampante, ad esempio, è il fratello di Cosimo a consegnare la storia del protagonista a un quaderno. Qui Calvino utilizza le ultime pagine del romanzo per parlare del suo rapporto con la scrittura. Il Barone rampante si chiude con questa straordinaria immagine, costruita dalle parole del fratello di Cosimo:
Ombrosa non c’è più. Guardando il cielo sgombro, mi domando se davvero è esistita. Quel frastaglio di rami e foglie, biforcazioni, lobi, spiumii, minuto e senza fine, e il cielo solo a sprazzi irregolari e ritagli, forse c’era solo perché ci passasse mio fratello col suo leggero passo di codibugnolo, era un ricamo fatto sul nulla che assomiglia a questo filo d’inchiostro, come l’ho lasciato correre per pagine e pagine, zeppo di cancellature, di rimandi, di sgorbi nervosi, di macchie, di lacune, che a momenti si sgrana in grossi acini chiari, a momenti si infittisce in segni minuscoli come semi puntiformi, ora si ritorce su se stesso, ora si biforca, ora collega grumi di frasi con contorni di foglie o di nuvole, e poi s’intoppa, e poi ripiglia a attorcigliarsi, e corre e corre e si sdipana e avvolge un ultimo grappolo insensato di parole idee sogni ed è finito [Calvino, 1957, p. 262-263].
A parlare qui è un personaggio, è il narratore, ma è anche il Calvino scrittore, è il Calvino in carne e ossa. La storia è il dispiegarsi dell’inchiostro, è la forma di tratti di inchiostro che danno vita ad alberi, foglie, contorni di nuvole.
Proprio per la concezione che lo scrittore aveva del suo pubblico e del pubblico in generale, è difficile immaginare che egli abbia pensato a un pubblico reale di bambini o a una fascia d’età a cui rivolgere le sue opere. La questione del pubblico è però importante per comprendere l’idea di letteratura di Calvino. È attraverso l’intreccio tra io che scrive, personaggi-icone e pubblico ideale che infatti Calvino inventerà quello ‘stile fantastico’, capace di essere accolto e amato anche dal pubblico dei bambini e dei ragazzi.
L’interesse nei confronti dei classici della ‘letteratura fantastica’: dalla letteratura per ragazzi alla letteratura popolare
La questione del pubblico si intreccia con le riflessioni sul tema del ‘fantastico’. Calvino, come è noto, si è occupato in varie occasioni del territorio del ‘fantastico’, tentando di delinearne i confini. In alcuni saggi ha affrontato la questione andando a incontrare alcune opere che nel tempo sono divenute classici della letteratura per ragazzi. Nella vasta produzione saggistica di Calvino, legata anche all’attività di redattore all’interno della casa editrice Einaudi, si rintraccia infatti un grande interesse nei confronti di alcuni classici per l’infanzia. Parlando delle sue letture d’infanzia e raccontando come queste letture hanno influenzato il suo modo di immaginare, Calvino si riferisce ad autori come Stevenson, Defoe, Kipling, Collodi. Scrive ad esempio a proposito di Pinocchio: «Si tratta d’uno dei libri più famosi della letteratura italiana, un libro famoso in tutto il mondo, forse il libro che più ha influenzato il mio mondo immaginario e il mio stile, perché – e la stessa cosa credo possano dire la maggior parte dei miei compatrioti – è il primo libro che ho letto (anzi è il libro che già conoscevo capitolo per capitolo prima di imparare a leggere)» [Calvino, 2002a, p. 230]. Di Kipling invece ci dice: «Il primo vero piacere della lettura d’un vero libro lo provai abbastanza tardi: avevo già dodici o tredici anni, e fu con Kipling, il primo e (soprattutto) il secondo libro della Giungla. Non ricordo se ci arrivai attraverso una biblioteca scolastica o perché lo ebbi in regalo. Da allora in poi avevo qualcosa da cercare nei libri: vedere se si ripeteva quel piacere della lettura provato con Kipling» [Calvino, 1991, p. LXV].
In altri interventi Calvino afferma la necessità di ridare dignità a questi autori. «Il posto che in cent’anni Pinocchio s’è conquistato nella nostra storia letteraria – scrive – è sì quella d’un classico, ma d’un classico minore. Mentre è ora di dire che va considerato tra i grandi libri della letteratura italiana, di cui alcune componenti necessarie, senza Pinocchio, verrebbero a mancare» [Calvino, 1995d, p. 801]. E riguardo a Stevenson, uno dei suoi autori più amati, dice: «Chi con più leggerezza coniuga la raffinatezza del letterato di qualità e lo slancio del narratore popolare (tra i suoi autori preferiti citava sempre Dumas) è Robert Louis Stevenson» [Calvino, 1995d, p. 801]. Infanzia, piacere delle letture infantili, letteratura popolare: Calvino ci confessa che sono questi gli elementi che lo portano ad apprezzare questi classici della letteratura.
Autori popolari, autori per l’infanzia e autori del ‘fantastico’. Perché scrittori come Collodi, Stevenson, Defoe rientrano all’interno del territorio letterario del fantastico? Parlando di Collodi Calvino sottolinea innanzitutto la ‘forza visiva’ delle immagini. In Pinocchio, ci dice, «ogni apparizione si presenta […] con una forza visiva tale da non poter essere più dimenticata» [Calvino, 1995d, p. 802]. «La casina che biancheggia nella notte con alla finestra la fanciulla come un’immagine di cera che incrocia le braccia sul petto» [Calvino, 1995d, p. 802], «l’Omino di burro che guida nella notte il carro silenzioso, dalle ruote fasciate di stoppa e di cenci, tirato da dodici pariglie di ciuchini calzati di stivaletti» [Calvino, 1995d, p. 802] hanno secondo Calvino un forte impatto visivo, sono ‘iconicamente’ inconfondibili. Collodi, ci dice Calvino, ha l’«istinto di non lasciar mai cadere una frase che sia grigia o senza concretezza o senza guizzo» [Calvino, 1995d, p. 803].
Non solo. Secondo lo scrittore Pinocchio è un’opera che invita il lettore a essere parte attiva della storia. Pinocchio, scrive Calvino, ha la caratteristica «d’offrirsi alla perpetua collaborazione del lettore per essere analizzato e chiosato e smontato e rimontato» [Calvino, 1995d, p. 804]. Ecco che Calvino giunge al lettore, a quel lettore ‘indeterminato’ e presente come soggetto attivo all’interno dell’opera. Il lettore si può appropriare di Pinocchio, lo può raccontare per parti, lo può raccontare a suo piacimento, così come fosse una fiaba popolare. Il racconto di Collodi si presta a essere memorizzato, a essere tramandato oralmente, mandato «a memoria parola per parola, come fosse un poema in versi» [Calvino, 1995d, p. 802]. Ovvero, Pinocchio, ci dice Calvino, ha le caratteristiche di quei capolavori senza tempo e senza storia, e quindi ‘senza autore’, ovvero ‘classici’. Calvino chiude infatti così il suo saggio: «Ma non è questa poi la condizione dei capolavori, o almeno di molti? Di attraversare un autore come fosse un mero canale o strumento per imporre la propria autonoma presenza o necessità indipendentemente da lui» [Calvino, 1995d, p. 806].
L’analisi di Pinocchio è esemplare per comprendere l’idea di fantastico in Calvino. La visibilità, la concretezza della lingua, il ritmo, il rapporto tra io scrivo, personaggi e pubblico sono tutti elementi che secondo Calvino costituiscono il territorio del fantastico.
La concretezza e la visibilità sono ingredienti che Calvino ritrova anche in Defoe. In uno scritto su Robinson Crusoe dice: «la prosa di Defoe è nuda e nello stesso tempo dettagliata fino allo scrupolo» [Calvino, 1995a, p. 833]. La cura per il dettaglio, per la descrizione minuziosa, è un’altra delle tecniche narrative su cui Calvino si soffermerà più volte nelle sue analisi.
Nel caso dei romanzi di Robert Louis Stevenson, Calvino si sofferma sulla presenza dell’elemento dell’infanzia. Parlando dell’Isola del tesoro, ci dice: «Ed era quello, per un uomo del suo tempo, l’unico modo di concepire l’avventura senza farne la parodia, senza distruggerla: vederla attraverso gli occhi di un ragazzo, mettere tra sé e quel mondo lo schermo d’una tensione fantastica infantile» [Calvino, 1995b, p. 968]. Lo sguardo di un ragazzo rappresenta quindi in Stevenson una lente privilegiata per guidare il lettore [Mengaldo, 1991]. Ma quella lente, quella ‘tensione fantastica infantile’ di cosa è costituita secondo Calvino? Egli prosegue così: «In Stevenson l’infanzia non è ancora morbida evasione decadente: è un mondo in cui ancora si può credere al bene: è limpidezza, è salute, è volontà di fare, che egli esprime nel segno della sua coscienza politica e morale: il suo stile attentissimo e miracolosamente semplice e pulito». Quella lente è quindi «limpidezza», «volontà di fare» che si concretizza in uno stile «semplice e pulito». E la chiarezza, la semplicità dello stile, il ritmo scattante sono secondo Calvino ingredienti fondamentali della letteratura fantastica.
Lo stile Calvino
Vedremo ora come quelle caratteristiche stilistiche su cui Calvino ha riflettuto nei suoi saggi critici si ritrovino nei suoi romanzi e racconti. Prenderemo in esame in particolare alcune delle opere che hanno avuto più diffusione tra il pubblico dei giovani lettori, opere appartenenti al decennio che va dagli anni Cinquanta agli anni Sessanta [Calvino, 1952; Calvino, 1957; Calvino, 1959], ovvero i racconti che furono poi raccolti nella famosa trilogia I nostri antenati [Calvino, 1960].
«La vera sfida per uno scrittore – scrive Calvino nella conferenza Mondo scritto mondo non scritto tenuta alla New York University nel 1983 – è parlare dell’intricato groviglio della nostra situazione usando un linguaggio che sembri tanto trasparente da creare un senso d’allucinazione, come è riuscito a fare Kafka» [Calvino, 2002b, p. 122]. Nella conferenza l’autore presenta una trattazione – che poi si ritrova in modo ampliato e approfondito in [Calvino, 1988], in particolare nella lezione dedicata alla ‘esattezza’ – dello strumento della ‘descrizione’. Una descrizione minuziosa, dice Calvino, che rende il nostro linguaggio così trasparente, ‘allucinatorio’, capace di mostrare cose, oggetti provenienti dal mondo reale come qualcosa di lontano «da ogni immagine umana».
L’amore per il dettaglio, la descrizione minuziosa li ritroviamo nei racconti stessi di Calvino. Partiamo dal Visconte dimezzato, cronologicamente il primo dei tre racconti a cui Calvino si è dedicato. Le situazioni e i personaggi che Calvino descrive sono eccessivi, impossibili, ma l’autore riesce a renderli concreti, visibili, grazie alla sua capacità di descriverli nel dettaglio. Ad esempio, all’inizio del racconto Calvino presenta i turchi contro cui combatte il Visconte in questo modo: «Coi cavalli intabarrati, il piccolo scudo tondo, di cuoio, la veste a righe nere e zafferano. E il turbante, la faccia color ocra e i baffi, come uno che a Terralba era chiamato “Miché il turco”. […] Le facce erano cotte e cocciute come contadini» [Calvino, 1952, p. 14]. Nel pieno della battaglia, lo scrittore ci tiene a dire che i turchi avevano una veste a righe nere e zafferano – non gialla, o giallo scuro, ma zafferano – e un piccolo scudo, di cuoio nello specifico. Qui, come le ‘figure’ di Collodi, i turchi diventano delle icone.
O ancora quando ci descrive l’immagine dell’ospedale di campo:
In terra c’era una lunga fila delle barelle con dentro quegli sventurati, e tutt’intorno imperversavano i dottori, strappandosi di mano pinze, seghe, aghi, arti amputati e gomitoli di spago. Morto per morto a ogni cadavere facevan di tutto per farlo tornar vivo. Sega qui, cuci là, tampona falle, rovesciavano le vene come guanti, e le rimettevano al suo posto, con dentro più spago che sangue, ma rattoppate e chiuse. Quando un paziente moriva, tutto quello che aveva di buono serviva a racconciare le membra di un altro, e così via. La cosa che imbrogliava di più erano gli intestini: una volta srotolati non si sapeva più come rimetterli [Calvino, 1952, p. 17].
Ciò che colpisce è la cura del dettaglio, che ovviamente in un contesto del genere rende la situazione paradossale e comica. L’immagine degli intestini che, srotolati, non si sa come rinfilarli è esilarante. Il visconte dimezzato è forse l’opera in cui maggiormente Calvino ha sperimentato la tecnica narrativa della descrizione. Non è un caso che di lì a poco venga definito il progetto delle Fiabe italiane, in cui Calvino ha ampiamente dato spazio alla visibilità e alla concretezza della scrittura [Calvino, 1956]. E Il visconte dimezzato è probabilmente, proprio per queste caratteristiche, il racconto più vicino, tra le opere dell’autore, al genere della fiaba.
Nel Barone rampante, che vede la luce nel 1957, continua a emergere l’attenzione per il dettaglio e comincia a prendere piede quella scrittura trasparente, quasi ‘allucinatoria’, di cui Calvino parla nei suoi saggi. Seguiamo questo passo del racconto:
Venne l’inverno. Cosimo si fece un giubbotto di pelliccia. Lo cucì da sé con pezzi di pelli di varie bestie da lui cacciate: lepri, volpi, martore e furetti. In testa portava sempre quel berretto di gatto selvatico. Si fece anche delle brache, di pelo di capra col fondo e le ginocchia di cuoio. In quanto a scarpe, capì finalmente che per gli alberi la cosa migliore erano le pantofole, e se ne fece un paio non so con che pelle, forse tasso. […] Per la notte Cosimo aveva trovato il sistema dell’otre di pelo; non più tende o capanne: un otre col pelo dalla parte di dentro, appeso a un ramo. Ci si calava dentro, ci spariva tutto e s’addormentava rannicchiato come un bambino [Calvino, 1957, p. 86].
L’abbigliamento di Cosimo è descritto dettagliatamente. Così come il ‘giaciglio’ notturno: un otre appeso a un ramo con il pelo di dentro. Calvino ci descrive in modo preciso qualcosa di ‘incredibile’, impossibile nella realtà. Si realizza cioè il binomio incredibile-concreto che porta alla «suspension of disbelief», alla sospensione dell’incredulità, espressione utilizzata da Coleridge e ricordata in [Calvino, 1995c]. Ad esempio, l’otre appeso a un ramo in cui Cosimo di notte ci sparisce dentro ha dell’incredibile. Grazie al binomio incredibile-concreto l’immagine diventa però ‘iconicamente inconfondibile’, la possiamo vedere, tanto da portare la mente a un nido di uccelli penzolante o al ventre materno.
Disegnata nel dettaglio è anche la visione del mondo che si apre agli occhi di Cosimo quando prende a vivere tra le piante:
Cosimo guardava il mondo dall’albero: ogni cosa vista di lassù, era diversa, e questo era già un divertimento. Il viale aveva tutt’un’altra prospettiva, e le aiole, le ortensie, le camelie, il tavolino di ferro per prendere il caffè in giardino. Più in là le chiome degli alberi si sfittivano e l’ortaglia digradava in piccoli campi a scala, sostenuti da muri di pietre; il dosso era scuro di oliveti, e, dietro, l’abitato di Ombrosa sporgeva i suoi tetti di mattone sbiadito e ardesia, e ne spuntavano pennoni di bastimenti, là dove sotto c’era il porto. In fondo si stendeva il mare, alto d’orizzonte, ed un lento veliero vi passava [Calvino, 1957, p. 16].
Quando giungiamo al Cavaliere inesistente l’esattezza sembra esser diventata l’‘oggetto’ del racconto: parliamo dell’esattezza, della precisione della figura del cavaliere, che proprio perché non esiste non possiede imprecisioni.
Calvino ci descrive così il cavaliere inesistente:
Il re era giunto di fronte a un cavaliere dall’armatura tutta bianca; solo una righina nera correva torno torno ai bordi; per il resto era candida, ben tenuta, senza un graffio, ben rifinita in ogni giunto, sormontata sull’elmo da un pennacchio di chissà che razza orientale di gallo, cangiante d’ogni colore dell’iride. Sullo scudo c’era disegnato uno stemma tra due lembi d’un ampio manto drappeggiato, e dentro lo stemma s’aprivano altri due lembi di manto con in mezzo uno stemma più piccolo, che conteneva un altro stemma ammantato più piccolo ancora [Calvino, 1959, p. 5].
La luminosità dell’armatura spicca nel paesaggio di guerra polveroso. Ci sembra di vederla, vera e concreta, pur essendo mossa dal nulla.
Un’altra immagine del cavaliere carica di visibilità è quella del momento in cui egli, dopo aver dato prova della sua precisione nel tiro con l’arco a Bradamante, a Rambaldo e agli altri paladini, si allontana:
Stringeva nelle mani di ferro l’arco ancora tremante; poi lo lasciava cadere; si raccoglieva dentro il mantello, tenendolo chiuso con i pugni sul pettorale della corazza; e così si allontanava. […] Agilulfo era già lontano e non si voltava; il cimiero iridescente era piegato avanti come camminasse chino, a pugni stretti sul pettorale, trascinando il nero mantello [Calvino, 1959, p. 59].
La cura del dettaglio si esprime nella descrizione di ogni movimento del cavaliere. La descrizione precisa dell’autore si unisce ai gesti precisi e netti del personaggio.
Un altro aspetto dello stile di Italo Calvino che contribuisce alla qualità letteraria della visibilità è l’uso frequente della similitudine. L’uso della similitudine riesce, insieme alla descrizione, a dare visibilità e concretezza alla lingua. Torniamo al Cavaliere inesistente. «Attorno all’imperatore – si legge nel racconto – facevano gruppo i paladini, frenando per il morso gli impetuosi cavalli; e in quel caracollare e dar di gomito i loro argentei scudi s’alzavano e s’abbassavano come branchie d’un pesce. A un lungo pesce tutte scaglie somigliava l’esercito: a un’anguilla» [Calvino, 1959, p. 22, corsivo nostro]. Oppure: «La tromba suonò il segnale del «rompete le righe». Ci fu il solito sbandarsi di cavalli, e il gran bosco delle lance si piegò, si mosse a onde come un campo di grano quando passa il vento» [Calvino, 1959, p. 7, corsivo nostro]. Ancora, quando Calvino descrive l’aspetto dei paladini sotto l’armatura, leggiamo: «Le gambe, sotto a quel torace d’acciaio, parevano più sottili, come zampe di grillo; e il modo che essi avevano di muovere, parlando, le teste rotonde e senz’occhi, e anche di tener ripiegate le braccia ingombre di cubitiere e paramani era da grillo o da formica; e così tutto il loro affaccendarsi pareva un indistinto zampettio d’insetti» [Calvino, 1959, p. 18, corsivo nostro]. Guerrieri come insetti.
Indimenticabile è anche l’immagine di Gurdulù che dorme, satollo di zuppa: «Steso nell’erba, russava a bocca aperta, e petto stomaco e ventre s’alzavano e abbassavano come il mantice d’un fabbro» [Calvino, 1959, p. 29, corsivo nostro]. Il mantice non poteva essere l’immagine migliore per rappresentare il respiro profondo di Gurdulù.
Anche nel Visconte dimezzato l’uso della similitudine ha la funzione di conferire forza alle immagini. Scrive Calvino: «Il mantello di mio zio ondeggiò, e il vento lo gonfiava come una vela e si sarebbe detto che gli attraversasse il corpo, anzi, che questo corpo non ci fosse affatto, e il mantello fosse vuoto come quello d’un fantasma» [Calvino, 1952, p. 22, corsivo nostro]. Un’immagine fortissima è anche quella di Aiolfo, padre del Visconte, che muore in compagnia dei suoi uccelli: «La mattina dopo, la balia, affacciandosi all’uccelliera, vide che il visconte Aiolfo era morto. Gli uccelli erano posati sul suo letto, come su un tronco galleggiante in mezzo al mare» [Calvino, 1952, p. 25, corsivo nostro]. Più avanti per ‘far vedere’ l’agilità del cavallo del Visconte cattivo Calvino ci dice «che saltava per le rocce come fosse un figlio di capra» [Calvino, 1952, p. 37, corsivo nostro]. Infine, forse la similitudine più bella inserita dallo scrittore in questo racconto. Quando descrive l’attesa del duello tra le due metà del Visconte, quella buona e quella cattiva, e ci dice che la natura si rivolge tutta contro sé stessa, così come l’uomo s’avventa contro di sé, usa un’espressione che ci mostra tutta la tensione del momento: «Il lebbroso soffiò il corno: era il segnale; il cielo vibrò come una membrana tesa» [Calvino, 1952, p. 107, corsivo nostro].