N.2 2020 - La biblioteca nel mondo che verrà

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Dopo la pandemia: progettare gli spazi delle biblioteche che verranno

Marco Muscogiuri

Dipartimento di Architettura ingegneria delle costruzioni e ambiente costruito, Politecnico di Milano; muscogiuri@alterstudiopartners.com

Per tutti i siti web la data di ultima consultazione è il 1 novembre 2020.

Abstract

L’articolo affronta il tema della progettazione degli spazi delle biblioteche a seguito dei cambiamenti e delle sfide indotte dalla pandemia Covid-19 del 2020. Dopo aver esaminato i vari modi con cui le biblioteche hanno affrontato il lockdown del marzo-aprile 2020, l’articolo prova a ipotizzare quali possano essere le ricadute sulle modalità di erogazione dei servizi e, soprattutto, sulla progettazione degli spazi, a partire dalla disamina dei cambiamenti indotti dalla pandemia nell’ambito del lavoro e della vita quotidiana: dall’uso esponenziale delle nuove tecnologie alla crescita dell’e-commerce, dalla riduzione degli spostamenti urbani al distanziamento sociale, fino alle trasformazioni imposte nei modi di vivere la città stessa e gli spazi pubblici.

 

English abstract

The article addresses the theme of the design of library spaces due to the changes and challenges induced by the 2020 Covid-19 pandemic. After examining the different ways in which libraries have dealt with the lockdown of March-April 2020, the article makes some hypotheses about the possible repercussions on providing library services and, above all, on the design of library spaces. Examinating the changes induced by the pandemic in the field of work and daily life: from the exponential use of new technologies, to the growth of e-commerce, from the reduction of urban movements to social distancing, up to the transformations imposed in the ways of living the city itself and the public spaces.

Il 23 febbraio 2020 un decreto-legge del Consiglio dei ministri impose la quarantena di oltre 50mila persone, in un territorio che raggruppava 11 diversi comuni del Nord Italia, al fine a cercare di contenere la diffusione del contagio del nuovo virus SARS-CoV-2, di cui pochi giorni prima si erano riscontrati i primi casi anche in Italia, nel Lodigiano. Era trascorso esattamente un mese da quando, il 23 gennaio 2020, il governo centrale cinese aveva imposto il blocco della città di Wuhan, di circa 11 milioni di abitanti, per tentare – purtroppo molto tardivamente – di isolare i focolai di diffusione del virus. Il 9 marzo l’Italia intera è la prima nazione a imporre una drastica chiusura generale, seguita nelle settimane successive, con misure più o meno restrittive, da tutti gli altri stati europei e in seguito dalle diverse nazioni del mondo, dagli Stati Uniti all’America del Sud, all’Asia.

Un fatto inedito nella storia dell’umanità

Nel mese di aprile 2020, dunque, si è verificato un fatto del tutto inedito nella storia dell’umanità: circa quattro miliardi di persone, più della metà della popolazione mondiale, si trovava confinata in casa, con forti limitazioni e vincoli alla libertà fisica di spostamento. Ciascuno isolato, ma al contempo connesso agli altri mediante la rete e le nuove tecnologie. Mai una quarantena aveva coinvolto un tal numero di persone, città, territori e nazioni, pressoché contemporaneamente.

La pandemia da SARS-CoV-2 – causa della malattia conosciuta col termine Covid-19 – si è diffusa velocemente in più di duecento paesi in tutto il mondo: alla fine di ottobre 2020 risulta avere infettato circa 46 milioni di persone, uccidendone oltre 1,2 milioni. L’economia mondiale ha subito un danno che nel mese di agosto 2020 si calcolava intorno a 5mila miliardi di euro. Alla fine del 2020 si calcola che l’economia europea avrà subito una contrazione di circa l’8,3% e l’Italia di circa l’11%. Quando il mondo uscirà dalla pandemia con tutta probabilità si dovrà affrontare una profonda e lunga crisi economica.

Prima o poi, forse nel 2021, forse in seguito, anche questo virus sarà debellato. Non si possono prevedere quali danni umani, sociali ed economici lascerà, ma di certo prima o poi sarà vinto, così come è stato per le tante epidemie che ci sono state nella storia. Come non pensare all’influenza spagnola che un secolo fa, tra il 1918 e il 1919, uccise da 50 a 100 milioni di persone in tutto il mondo, infettandone 500 milioni.

Il virus potrà essere debellato grazie a tutti i protocolli igienico-sanitari che saranno messi in atto, a eventuali nuove restrizioni che potrebbero essere imposte a vari livelli, nonché, auspicabilmente, grazie alla scoperta e alla distribuzione dei vaccini, per i quali sono stati stanziati finanziamenti enormi (nei soli Stati Uniti sono stati investiti più di 10 miliardi di dollari, mentre la Banca mondiale ha approvato finanziamenti per 12 miliardi di dollari).

Che cosa accadrà quando dunque il virus sarà stato debellato, e quando saremo “fuori pericolo”? Soprattutto, come impatterà tutto questo sulla vita quotidiana e sulla società nei suoi molteplici aspetti? Dal lavoro alla scuola, dalla produzione industriale al commercio, dal turismo alle attività culturali, dallo sport alle attività sociali e di aggregazione ecc. Come impatterà sulle modalità d’uso (e di progetto) della città in generale, degli spazi urbani e degli edifici pubblici in particolare?

Le risposte che oggi si prova a ipotizzare oscillano tra due posizioni opposte. Da un lato si staglia una previsione apocalittica, che vede questa pandemia come un evento destinato a mutare radicalmente i modi di vita, l’organizzazione della produzione e del consumo, la mobilità, gli assetti insediativi, le forme d’uso (e di progettazione) dello spazio a tutti i livelli. C’è chi ha ipotizzato persino una sorta di contro-urbanizzazione, un parziale abbandono delle città con la riconquista dei borghi abbandonati, anche alla luce delle nuove modalità di lavoro a distanza che la quarantena ha imposto, consentito e incentivato.

Sul fronte opposto, vi è invece chi crede – o forse spera – che l’emergenza sanitaria, una volta finita, non lascerà troppe tracce, come è stato anche per altre epidemie della storia, che i modelli di vita e i paradigmi insediativi non muteranno in modo significativo, che tutto tornerà più o meno come prima, salvo l’eventuale crisi economica, che però, per quanto impattante o devastante, non potrà sovvertire modelli sociali e urbanistici consolidati di lungo periodo: business as usual.

Sappiamo che, storicamente, questi fenomeni hanno provocato dei cambiamenti significativi: al di là del tragico costo pagato in termini di morti, a seguito di epidemie, spesso le città hanno goduto di notevoli miglioramenti delle infrastrutture sanitarie, di canalizzazioni, di fognature, di applicazione di norme igieniche, in alcuni casi anche di opere di riqualificazione urbana significative. Dalla seconda metà dell’Ottocento, è emerso con sempre maggiore evidenza il nesso tra urbanistica, igiene ed epidemiologia. L’architettura moderna e l’urbanistica hanno poi contribuito in modo decisivo allo sviluppo di un’immagine di un’Europa “igienica” nella prima metà del XX secolo, con la riduzione della densità di occupazione degli spazi abitativi, la definizione delle distanze tra gli edifici ecc.

È dunque assai probabile che, quando sarà finita, la pandemia da SARS-CoV-2 avrà comunque un impatto di medio e lungo periodo su diversi fronti, incidendo su diversi aspetti della nostra società e delle nostre città, su alcuni comportamenti, norme, stili di vita, modi d’uso. D’altronde sarebbe davvero insensato se così non fosse, in quanto gli scienziati concordano che questa non sarà l’ultima epidemia globale. Al contrario, numerose avvisaglie preannunciavano quello che sarebbe accaduto e in meno di vent’anni il mondo ha visto il succedersi di quattro diverse pandemie associate a infezioni respiratorie: da quella del virus SARS-CoV apparsa nel 2002 in Cina e durata un anno, con circa 8.000 casi e un tasso di mortalità del 10%; alla cosiddetta influenza suina, dovuta a un virus H1N1, che dal Messico si è diffusa in tutto il mondo e in particolare nel continente americano, causando oltre 1,6 milioni di contagi e circa 18.500 morti; fino alla pandemia da coronavirus MERS-CoV, diffusasi in Medio Oriente nel 2012, con un numero limitato di casi (circa un migliaio), ma una letalità del 34%. La pandemia del 2020 ci ha trovati impreparati non perché non avessimo avuto sufficienti avvertimenti o informazioni, ma perché le abbiamo sottovalutate, concentrati su altre priorità.

Difficilmente si potrà però ignorare la probabilità che altre malattie virali possano diffondersi in futuro, e che dunque dovremo essere pronti ad affrontarle. Allo stesso modo in cui, dopo l’11 settembre 2001 e dopo gli attentati terroristici che negli anni si sono succeduti in varie città del mondo, si è dovuto fare i conti con i temi della sicurezza, e con quanto ne è conseguito: dalla militarizzazione di parte degli spazi pubblici nelle grandi città, all’accelerazione e proliferazione dei mezzi di controllo (dalle telecamere al controllo dei dati personali).

Da più parti, dunque si parla di un new normal, un nuovo (incerto) equilibrio da raggiungere, che ci consenta di riprendere la vita dove l’avevamo lasciata, ma ricalibrandone modi, comportamenti, modalità di spostamento, abitudini, procedure, protocolli, nonché requisiti di progetto, di gestione e d’uso di spazi pubblici e privati: della casa, della scuola, dei luoghi di lavoro, degli edifici pubblici e degli spazi urbani.

Le crisi non portano soluzioni e spesso neanche nuove idee, ma ci costringono a stravolgere le priorità, ad accelerare processi in atto, talvolta rivelando fragilità e tendenze latenti nella società.

Biblioteche ai tempi del Covid-19

Ai tempi del cosiddetto lockdown la maggior parte delle istituzioni culturali è rimasta chiusa e inaccessibile: musei, spazi espositivi, teatri e auditorium. Diverse istituzioni museali e gallerie d’arte italiane e internazionali hanno portato avanti, per quanto possibile, i propri programmi sfruttando le tecnologie digitali, con mostre virtuali, incontri e conferenze in streaming. Le biblioteche, per la peculiarità dei loro servizi, hanno potuto mostrare – in parte – una maggiore resilienza e adattabilità, e molte di esse pur mantenendo fisicamente chiusi gli edifici, sono rimaste aperte e hanno lavorato intensamente come e più di prima.

Molti bibliotecari hanno potuto dedicarsi a quel lavoro di back office che, nella quotidianità, non si riesce a fare (bonifica del catalogo, catalogazione del pregresso, predisposizione degli acquisti, aggiornamento di statistiche e relazioni, partecipazione a corsi di formazione), ma una gran parte delle biblioteche hanno cercato anche di inventare modi nuovi e diversi per continuare a offrire servizi e soprattutto per mantenere il contatto con i cittadini: predisponendo tutorial per l’uso delle risorse digitali; proponendo video-letture per bambini e gruppi di lettura per adulti su Facebook; servizi di reference online (mediante telefono, e-mail, chat o videochiamata); predisponendo corsi di information literacy in modalità e-learning; partecipando a campagne di raccolta fondi o di altre iniziative online, come quelle promosse dal Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo; utilizzando il sito web e i social network per comunicare con gli utenti; traslando incontri, conferenze e seminari sulle varie piattaforme di videoconferenza. È stato inoltre implementato moltissimo il catalogo di e-book, di musica, di riviste e giornali online, e le biblioteche si sono trasformate – ancora di più – in piattaforme multimediali, approfittando del libero accesso consentito da molti editori e fornitori di servizi online.

Non solo negli altri paesi europei, ma anche in Italia, la risposta è stata estremamente positiva e variegata, pur in quadro, ovviamente, molto disomogeneo e diverso a seconda della città e dell’area geografica. Ad esempio, le biblioteche di Milano hanno offerto un servizio di “SOS digitale” per sostenere le famiglie nei percorsi di apprendimento delle nuove tecnologie. Le bibliotecarie e i bibliotecari del Sistema CSBNO hanno effettuato 16mila telefonate ai propri utenti iscritti per restare in contatto con loro e promuovere l’utilizzo di nuovi servizi come quello della biblioteca digitale. La Biblioteca San Giorgio di Pistoia ha lanciato l’iniziativa “La San Giorgio a porte chiuse”, con un calendario fittissimo di incontri con autori, traduttori, editori. Molte biblioteche, per esempio il Multiplo di Cavriago, si sono messe a disposizione come primo punto dove reperire informazioni sull’emergenza sanitaria, anche contro il dilagare delle fake news. Alcune biblioteche hanno svolto la funzione di piattaforme per la promozione di attività culturali online: corsi di vario genere, spettacoli, ma anche selezione di visite virtuali a musei e gallerie.

L’accesso alle risorse digitali ha prodotto un record di utilizzo impensabile, non soltanto nelle biblioteche universitarie (alcune delle quali da tempo praticano l’accesso remoto alle collezioni), ma anche e soprattutto nelle biblioteche pubbliche. La domanda, che ha visto un aumento esponenziale sia a livello qualitativo sia a livello quantitativo, ha riguardato non solo gli e-book, ma anche gli audiolibri, i video, la musica, i quotidiani e le riviste online, i corsi online di autoformazione. In Italia, ad esempio, la piattaforma MLOL (Media library online), di cui si servono molte biblioteche, nel periodo del lockdown ha registrato un incremento di 3 milioni fra consultazioni e prestiti rispetto all’anno precedente (+111%). In pratica, durante quel periodo di forzata clausura, molti italiani hanno scoperto per la prima volta che biblioteche pubbliche, universitarie e di conservazione offrono un servizio che pur avendo già 1,4 milioni di utenti registrati in 6.500 biblioteche, era per molti del tutto sconosciuto: l’essere un canale digitale di accesso per consultare documenti ed eventualmente prenderli a prestito gratuitamente, 24 ore su 24, 7 giorni su 7.

Al momento della riapertura, le biblioteche hanno riavviato i servizi di prestito di libri e documenti fisici, in modo disomogeneo per città e aree geografiche, applicando i protocolli di sicurezza raccomandati dalle varie linee guida elaborate a livello regionale o territoriale, sulla scorta delle indicazioni date dall’AIB e dall’IFLA. Le sale studio e gli spazi al pubblico sono stati solo parzialmente riaperti, con affluenza ridotta e ad accesso contingentato, per evitare affollamento e promiscuità nei locali chiusi.

Resta da capire e da valutare che cosa resterà delle varie attività e sperimentazioni fatte in fase di lockdown, quali ricadute si potranno avere sulla gestione e la progettazione dei servizi e degli spazi delle biblioteche del futuro prossimo e, più in generale, quale sarà l’impatto di tutti i cambiamenti, grandi e piccoli, che la pandemia, una volta passata, comunque lascerà.

Appunti per la progettazione delle biblioteche che verranno

È possibile ipotizzare che il lascito di questa pandemia agirà a vari livelli, e – come abbiamo detto – impatterà sulla società in modi diversi, al momento non tutti prevedibili.

Qui si proverà a immaginare quali possano essere le ricadute nello specifico mondo delle biblioteche, sulle modalità di erogazione dei servizi e, soprattutto, sulla progettazione degli spazi. Sempre che le biblioteche – e i soggetti da cui dipendono – siano in grado di recepirle e attuarle adeguatamente.

Nell’ambito del mondo del lavoro, la pandemia avrà certamente un lascito significativo. L’emergenza sanitaria ha accelerato pratiche lavorative che, fino a poco tempo fa, erano di pertinenza di poche categorie, e applicate soprattutto in aziende più all’avanguardia. Il cosiddetto smart working, o “lavoro agile” o, ancora, “telelavoro”, è diventata una pratica utilizzata da una fetta estremamente ampia della popolazione. Molte grandi aziende, private ma anche pubbliche, stanno seriamente valutando (e alcune si stanno già riorganizzando in tal senso) di promuovere il telelavoro per uno o più giorni a settimana, al fine di ottimizzare le risorse in termini di spazi d’ufficio – con postazioni di lavoro condivise, utilizzate a rotazione – e, al contempo, venire anche incontro alle esigenze di una buona parte dei lavoratori che non disdegnerebbe affatto la possibilità di poter lavorare da casa alcuni giorni al mese o alla settimana. Le ricadute positive di queste scelte potranno essere molteplici, ad esempio a livello di riduzione della mobilità e dunque dell’inquinamento automobilistico e dell’affollamento dei mezzi pubblici. Al contempo vi potranno essere delle ricadute negative per altri soggetti, pensiamo alle molte attività commerciali e di ristoro che gravitano intorno all’utenza degli uffici e che vedranno diminuire la clientela, e diversi edifici terziari potrebbero restare sfitti, in quanto non più necessari.

Su tutt’altro versante, come abbiamo detto, la pandemia lascerà come pesantissimo strascico una crisi economica, forse senza precedenti: molti potranno perdere il lavoro, tante aziende falliranno, molti dovranno reinventare la loro attività per poter sopravvivere alla crisi.

Quale contributo potrebbero dare le biblioteche rispetto a tali cambiamenti nel mondo del lavoro? Utili indicazioni sono già individuabili nel documento IFLA Libraries can drive progress across the entire UN 2030 Agenda, che sintetizza il contributo che le biblioteche potrebbe dare per il perseguimento di ciascuno dei 17 Obiettivi nell’attuazione della risoluzione ONU denominata Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile.

In tempi di crisi economica, come già accaduto dopo il 2008, le biblioteche potranno svolgere una funzione importante di supporto e di servizio pubblico, fornendo servizi di consulenza e strumenti per orientarsi alla ricerca di un nuovo lavoro, redigere un curriculum, frequentare corsi di formazione o programmi di reinserimento, o anche dare spazio a veri e propri “sportelli lavoro” e servizi di consulenza specifici svolti da altri soggetti e associazioni sul territorio. Potrebbero persino avviare sperimentazioni con aziende locali, enti pubblici e privati, università, per ospitare veri e propri “incubatori d’impresa”, per attività lavorative compatibili, soprattutto se incentrate sull’innovazione e sulla creatività. In questo, l’esperienza dei fab lab e dei maker lab, che si trovano ormai in molte biblioteche pubbliche e universitarie in tutto il mondo, potrebbe essere estremamente utile.

In tempi di smart working, essendo un servizio di prossimità, le biblioteche potrebbero fornire agli utenti spazi attrezzati di co-working per svolgere attività di telelavoro, con dotazioni differenti a seconda delle esigenze, da semplici postazioni dove svolgere attività al computer portatile, a cubicoli insonorizzati dove poter fare telefonate e videochiamate in tranquillità. L’offerta di tali servizi è già presente da anni in diverse biblioteche all’estero, soprattutto negli Stati Uniti, e potrebbe essere un’esperienza da applicare anche nel contesto italiano. Potrebbe anche essere valutata la possibilità di offrire tali spazi in affitto, con modalità differenti a seconda dei casi, incluse eventuali convenzioni con aziende del territorio.

La pandemia ha provocato una notevole spinta alla diffusione delle nuove tecnologie digitali e di comunicazione, all’erogazione e l’utilizzo di servizi ad accesso remoto, dalla diffusione capillare in ogni ambito della quotidianità degli strumenti di videoconferenza, alla didattica a distanza in scuole e università, dai servizi di streaming di musica e video, all’aumento della circolazione degli e-book, fino alla crescita esponenziale del commercio online con consegna a casa.

Il principale lascito di tutto questo sarà probabilmente il fatto che molti hanno dovuto imparare (e probabilmente continueranno a utilizzare) tecnologie di cui prima non facevano uso. In pochi mesi, la didattica a distanza è diventata parte integrante della gran parte delle università italiane, molte delle quali hanno fatto cospicui investimenti che resteranno anche a pandemia finita, consentendo la cosiddetta didattica blended (sia in presenza sia online), registrazione delle lezioni e una forte spinta sulla “didattica innovativa”. Anche le scuole hanno investito in digitalizzazione, dotandosi di piattaforme online che potranno consentire di innovare le modalità di insegnamento e apprendimento.

È però anche vero che proprio la pandemia ha messo ancora più in evidenza le enormi diseguaglianze tra ceti sociali e tra aree geografiche differenti. L’accesso alle tecnologie digitali non è stato uguale per tutti, così come la capacità di accesso e la velocità di connessione delle reti.

In tutto questo le biblioteche potranno anch’esse avere un ruolo importante: nel fornire non solo gli strumenti per l’accesso alla rete e alle nuove tecnologie (wi-fi ad alta velocità, postazioni attrezzate con computer, ma anche prestito di tablet e di altri device), ma anche e soprattutto per fornire il know-how e le competenze indispensabili per accedervi, in particolare per quelle fasce più deboli e fragili.

I siti web di molte biblioteche hanno avuto un numero di accessi inusitato, diventando vere e proprie piattaforme per usufruire di contenuti online (riviste e giornali digitali, musica, film, video, audiolibri, e-book, corsi per l’auto-apprendimento ecc.). La possibilità di continuare a erogare servizi di questo genere dipenderà da molti fattori, primo tra tutti gli accordi commerciali tra editori e biblioteche, le cui condizioni contrattuali sono state, di comune accordo, temporaneamente modificate in fase di lockdown per lenire il disagio di un più ampio numero di persone.

Al contempo, le riduzioni di risorse e finanziamenti che molto probabilmente in futuro anche le biblioteche dovranno fronteggiare, porteranno a dover scegliere se investire nei servizi digitali ad accesso remoto o in quelli più “tradizionali”, con la conseguenza che le biblioteche potrebbero facilmente perdere terreno e risultare sempre meno attrattive su questo versante, considerando anche la sempre maggiore diffusione che avranno le piattaforme online di distribuzione di musica e video a pagamento, a prezzi che risultano essere molto più abbordabili di un tempo. Politiche di partenariato pubblico-privato e azioni di advocacy potrebbero costituire un importante strumento per raccogliere risorse, ma potrebbero non essere sufficienti.

In proposito, nel documento A European library agenda for the post-Covid 19 age, redatto da Eblida, viene anche avanzata un’interessante proposta, secondo cui le biblioteche pubbliche potrebbero avviare delle forme di partenariato a livello locale con i soggetti del settore dello spettacolo, della musica dal vivo e del teatro, i quali potrebbero utilizzare le biblioteche per la distribuzione di eventi di post-produzione realizzati sugli spettacoli dal vivo, da svolgersi sia online sia negli spazi stessi delle biblioteche, anche con l’ausilio di strumenti di realtà aumentata e realtà virtuale, sia per attività di promozione, sia per catturare e mantenere viva l’attenzione del pubblico. In questo modo le biblioteche pubbliche potrebbero ulteriormente integrarsi in un ecosistema culturale più ampio, rilanciando il loro ruolo di distributore non commerciale di contenuti culturali, di presidio socioculturale territoriale e di piattaforma multimediale.

Come accennato, il lockdown ha impresso un’accelerazione senza precedenti alla diffusione del cosiddetto e-commerce in Italia. Secondo Ipsos, durante la quarantena, il commercio online è stato adottato da 3 italiani su 4, rientrando in breve tempo fra le nuove e più frequenti abitudini della quotidianità, con un aumento del 31,2% rispetto all’anno precedente. Anche questo aspetto potrebbe interessare il mondo delle biblioteche, in quanto il commercio online è destinato a consolidarsi tra le pratiche usali anche nel futuro post-pandemia.

Poiché una delle maggiori criticità riscontrate nell’e-commerce è quella relativa alla consegna a domicilio, si stanno diffondendo, soprattutto nelle grandi città, dei punti di consegna con locker automatizzati, armadietti metallici apribili mediante codice o QR code che il cliente riceve via e-mail dal venditore. Tali locker, in prevalenza di proprietà di Amazon, ma anche di altri soggetti quali Poste italiane, si trovano in luoghi solitamente presidiati, spesso ospitati all’ingresso dei supermercati o, più di recente, anche in negozi di vicinato, quali edicole o cartolerie.

Alla luce di quanto detto, si potrebbero valutare alcuni elementi che potrebbero interessare anche le biblioteche: ad esempio si potrebbero collocare dei locker di e-commerce in prossimità dell’ingresso delle biblioteche, sia per offrire un servizio aggiuntivo (non gestito dalla biblioteca stessa), sia per attirare nuovi utenti; si potrebbero installare locker dove ritirare libri e documenti prenotati per il prestito, posizionandoli sia all’esterno degli edifici bibliotecari sia in altre collocazioni, in supermercati, stazioni degli autobus o della metropolitana ecc. eventualmente anche stabilendo degli accordi e convenzioni con le aziende private di e-commerce per poter usufruire dei loro locker come punto di prestito. Soluzioni di questo genere, oltre a venire incontro alle esigenze degli utenti, che non sempre riescono ad accedere alla biblioteca negli orari di apertura e che avrebbero la possibilità di ritirare i volumi prestati anche in altri punti della città, risponderebbe anche pienamente alle esigenze igienico-sanitarie di “distanziamento” imposte dall’emergenza Covid-19, e potrebbe dunque consentire di realizzare questo genere di interventi utilizzando i finanziamenti previsti per fronteggiare tale calamità.

Un fenomeno provocato dalla pandemia, connesso allo smart working da un lato e al “distanziamento sociale” dall’altro, è stato quello della riduzione degli spostamenti nel territorio e nelle città e della diffusione di forme di mobilità alternativa (bicicletta, monopattini elettrici, scooter elettrici ecc.), incentivata anche da finanziamenti statali e realizzazione di piste ciclabili e percorsi riservati, con l’ulteriore inaspettata ricaduta di un rilancio delle attività commerciali di vicinato poste nei quartieri residenziali e nelle periferie, a scapito delle attività commerciali e di ristoro situate nel centro storico, parzialmente svuotato a causa del telelavoro e della minore disponibilità e spostarsi. Anche in questo caso, però, la pandemia conferma e accelera due tendenze già in atto: da un lato la diffusione di attività commerciali di vicinato – sia pur, spesso, facenti parte di grandi catene di distribuzione – a scapito del grande centro commerciale; dall’altro l’incremento di mezzi di mobilità alternativa, finalizzata alla riduzione del traffico cittadino e dell’inquinamento.

Anche tali questioni possono interessare il mondo delle biblioteche. Nella progettazione di nuove biblioteche e centri socioculturali, andrà infatti considerata la necessità, sempre più pressante, di consolidare e ampliare una rete di servizi di vicinato, e non soltanto sedi centrali di grande rilievo. La funzione di presidio sociale, in particolare nelle periferie, si confermerà essere elemento essenziale e dirimente per la scelta della localizzazione di nuove biblioteche decentrate, soprattutto nelle grandi città. Da questo punto di vista, l’esperienza delle biblioteche di condominio, in alcune grandi città, è degna di rilievo e potrebbe offrire spunti interessanti per avviare attività di collaborazione co-progettazione con i cittadini, a partire dal basso, per creare una rete di punti prestito e gangli socioculturali diffusi, soprattutto in contesti urbani più disagiati.

Infine, per incentivare e venire incontro alle esigenze della mobilità alternativa, gli edifici bibliotecari dovrebbero non soltanto essere dotati di adeguati spazi per il parcheggio di biciclette e monopattini, ospitando anche sharing point di questi mezzi di trasporto.

Sebbene il riferimento allo sviluppo sostenibile sia oggi centrale anche in relazione al panorama bibliotecario, si dovrà necessariamente anche ragionare sulla sostenibilità della professione in questi nuovi “assetti” e lavorare di conseguenza sulla consapevolezza/preparazione dei bibliotecari in tal senso.

Uno degli aspetti su cui la pandemia ha maggiormente inciso è quello del cosiddetto “distanziamento sociale”: il distanziamento fisico di almeno un metro imposto tra una persona e l’altra. Uno dei principali modi per cercare di scongiurare il contagio è infatti quello di mantenere le distanze e di evitare affollamento, contingentando l’accesso ai locali pubblici. Il Covid-19, in questo modo, ha inferto un colpo durissimo alla socialità, all’utilizzo degli spazi e degli edifici pubblici, che si sono svuotati e ancora stentano a riempirsi, dati i vincoli imposti dal perdurare dell’emergenza sanitaria.

Il distanziamento fisico, il divieto di assembramento, le limitazioni di affollamento e l’accesso contingentato ai luoghi pubblici impongono forme di comportamento che confliggono fortemente con il bisogno umano di connessione e di legami sociali e rischiano, a lungo andare, di diventare effettivamente distanziamento “sociale”. Questi protocolli, inevitabili per il contenimento del virus, minano uno degli aspetti fondamentali e caratterizzanti della biblioteca: quello di essere un “luogo terzo”, di aggregazione sociale, di inclusione e condivisione.

Una delle affermazioni più belle ed efficaci di David Lankes è che «le biblioteche sono conversazioni» e che «le cattive biblioteche costruiscono soltanto raccolte, le buone biblioteche costruiscono servizi, le biblioteche migliori costruiscono comunità». L’emergenza sanitaria mina proprio questa capacità della biblioteca pubblica di essere un luogo in grado di accogliere e costruire una comunità, consolidandone il “capitale sociale”. L’accessibilità stessa della biblioteca, prerequisito di base, viene infatti fortemente compromessa, così che i servizi bibliotecari rischiano di finire per concentrarsi solo sulla fornitura di servizi quali il prestito libri e l’erogazione di servizi online, riducendo drasticamente tutte quelle attività di tipo socioculturale e aggregative che sono diventate uno degli elementi caratterizzanti delle biblioteche più innovative degli ultimi vent’anni.

Fintanto che la pandemia non sarà superata, le biblioteche dovranno necessariamente consentire soltanto un accesso contingentato e limitato ai propri spazi, riducendo il numero di posti a sedere disponibili e limitando l’affollamento, come tutti i locali pubblici di aggregazione.  

La progettazione degli spazi delle biblioteche post-pandemia

La domanda da porsi è quale potrà essere, se ci sarà, il lascito di lungo periodo sulla modalità di progettazione degli spazi, visto che, come abbiamo visto, il pericolo di una nuova pandemia sarà comunque presente e da non sottovalutare.

Molto è stato scritto, da architetti e designer, sull’impatto che la pandemia potrà avere nella progettazione dei luoghi della casa, dell’ufficio, degli spazi pubblici della città. Assai meno, invece, sulla progettazione di spazi come biblioteche, teatri, centri culturali, musei.

In generale, l’idea di fondo è che si dovrebbe fare in modo che gli edifici pubblici possano essere in grado, se necessario, di adattarsi velocemente al mutare delle esigenze e – all’occorrenza – di fronteggiare nuove emergenze sanitarie. Non a caso, i due termini che maggiormente ricorrono sono “resilienza” e “flessibilità”. L’architettura riguarda sempre sia il modo con cui gli spazi vengono progettati e costruiti, sia quello con cui vengono utilizzati, spesso non previsto dagli architetti. Nel paragrafo precedente di questo testo sono state avanzate alcune ipotesi riguardo all’impronta che le nuove esigenze e i cambiamenti indotti dalla pandemia potrebbero lasciare sul modo con cui gli spazi vengono progettati e utilizzati: dall’impatto delle nuove tecnologie di comunicazione a distanza all’incremento dell’automazione dei servizi; dalla necessità di spazi condivisi e flessibili per svolgere diverse attività all’esigenza di garantire il distanziamento fisico in più ampi spazi; dalla forte spinta all’innovazione digitale in tutti i campi allo sviluppo di sistemi di controllo sempre più sofisticati. Di seguito, invece, si proverà a ipotizzare delle soluzioni pratiche più specifiche, utili per la progettazione delle biblioteche del prossimo futuro.

Sarebbe anzitutto necessario avere spazi molto più ampi, in modo da poter gestire al meglio eventuali emergenze, garantendo tutte le necessarie procedure di sicurezza. Questo è sostanzialmente impossibile, in quanto le biblioteche sono solitamente già di per sé sottodimensionate, anche fortemente, e difficilmente le cose potranno cambiare in futuro, anche alla luce di possibili diminuzioni delle risorse e dei finanziamenti. Sarà dunque indispensabile anzitutto progettare e realizzare spazi flessibili. È importante che la biblioteca continui a essere percepita come uno spazio “sicuro” e per questa ragione è essenziale che i suoi spazi siano adattabili alle esigenze e alle eventuali emergenze che dovessero nuovamente esserci.

Espositori e scaffali dovrebbero essere su ruote, soprattutto nelle aree di ingresso, in modo da poter essere spostati facilmente, se richiesto, per lasciare più spazio e consentire di accogliere un adeguato numero di persone, pur mantenendone il distanziamento.

Dove possibile, dovrà essere progettata sin da subito una distribuzione funzionale interna che consenta percorsi semplici, univoci e chiari. Questo non vuol dire realizzare spazi banali, simili a corsie di un supermercato, ma fare in modo che, con pochi aggiustamenti ed espedienti, sia possibile riorganizzare gli spazi, dividendo i percorsi degli utenti in entrata e uscita, e organizzarli internamente per evitare promiscuità.

Il bancone di accoglienza, da realizzare evitando “alzatine” e barriere fisiche e psicologiche tra l’utente e il personale, dovrebbe tuttavia poter essere agevolmente attrezzato, all’occorrenza, con schermi in plexiglas rimovibili, da posizionare solo in caso di nuova emergenza sanitaria, e da rimuovere al cessare del problema.

Dovrebbe essere incentivata la diffusione di dispositivi automatizzati di autoprestito e autorestituzione, con stazioni di self-check, con locker esterni alla biblioteca non solo per la restituzione ma anche per il prestito prenotato, per limitare, all’occorrenza, il contatto fisico tra le persone. Al contempo l’utilizzo di tali strumenti contribuisce anche a rendere l’utente più autonomo e a sgravare il personale bibliotecario da mansioni ripetitive e poco utili, consentendogli di concentrarsi sulla progettazione e gestione degli altri servizi e di seguire meglio gli utenti stessi. Si tratta di dispositivi già in uso in molte biblioteche ma che dovrebbero diventare di uso generalizzato.

In mancanza di separazioni tra i posti ai tavoli di studio, pannelli divisori mobili in plexiglas o in altri materiali plastici potrebbero essere utilizzati come separatori tra le postazioni delle sale studio (in particolare tra quelle contrapposte), per evitare di dover ridurre il numero di sedute disponibili.

Allo stesso modo, si potrebbero utilizzare pannelli separatori mobili, su piedini o su ruote, per dividere tra loro le sedute informali in caso di nuova emergenza sanitaria, mentre in situazione di normalità potrebbero essere utilizzati come espositori, oppure avere funzione di mitigazione del rumore, se realizzati in materiali fonoassorbenti, ovviamente igienizzabili.

Avere un adeguato livello di sicurezza “percepita” dipende anche dall’utilizzo di determinati materiali, facilmente lavabili. Da questo punto di vista le moquette e le poltrone in tessuto possono presentare dei problemi, benché si tratti più di un problema di percezione che un fatto reale, dato che possono facilmente essere disinfettate con getti di vapore o altri appositi strumenti di sanificazione. Certamente poltrone in polipropilene o in ecopelle possono garantire modalità più semplici di pulizia, così come superfici resilienti quali gomma, linoleum o altri rivestimenti, quali il parquet o il cemento lisciato.

Un tema, infine, tutt’altro che secondario è quello degli impianti aeraulici, e più in particolare del ricambio dell’aria, che dovrebbe essere potenziato laddove non vi fosse la possibilità di aprire le finestre, realizzando inoltre impianti che possano, all’occorrenza, essere impostati per un totale ricambio dell’aria, evitando la parziale re-immissione di aria esausta (e potenzialmente infetta) negli ambienti interni.

Infine, non ultimo, le biblioteche di domani dovranno trovare il modo di declinare i temi della sostenibilità. Da più parti è stato confermato che questa e altre pandemie che verranno, legate a specie animali portatrici di zoonosi, sono anch’esse legate all’alterazione degli ecosistemi naturali a opera dell’uomo. La deforestazione, l’agricoltura e l’allevamento intensivi, l’urbanizzazione minacciano specie sensibili e favoriscono la diffusione di malattie. Le biblioteche possono anche in questo caso dare il loro contributo, sia promuovendo temi e politiche di sostenibilità ambientale, sia utilizzando edifici a basso consumo, energeticamente efficienti e con un’impronta ecologica il più possibile contenuta. La sostenibilità è intrinsecamente resilienza, competitività e riduzione del rischio: fattori di cui avremo bisogno per uscire dalla crisi economica scatenata dalla pandemia.

Più di tutto, però, nel prossimo futuro le biblioteche dovranno – nonostante tutto – continuare a essere luoghi di inclusione, condivisione e socialità culturale a tutto tondo, essere luoghi di apprendimento, accesso alla conoscenza e alle informazioni, di acquisizione degli strumenti interpretativi e delle competenze utili per vivere nella società che ci aspetta, per affrontarne le incertezze e le inquietudini.