N.2 2020 - La biblioteca nel mondo che verrà

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La biblioteca del benessere

Luca Valenza

valenza.lc@gmail.com

Per tutti i siti web l’ultima consultazione è stata effettuata il 22 ottobre 2020.

Abstract

La pandemia ci obbliga a ragionare sul futuro dei luoghi della cultura con più paure e meno certezze, ma al contempo ci richiede di agire fornendo risposte collettive. Approfondirò in questo articolo l’idea di un tipo di cultura collaborativa capace d’intervenire, anche in contesti di criticità, sul benessere delle collettività. Nella prima parte parlerò delle difficoltà degli spazi culturali. Nella seconda verrà sostenuta l’idea di una biblioteca attiva capace di rivendicare un ruolo differente nella costruzione di un pensiero di rete nella contemporaneità. Nella terza e ultima parte dell’articolo mi soffermerò su l’idea di biblioteca come luogo del welfare culturale.

English abstract

The pandemic forces us to think about the future of places of culture with more fears and less certainties, but at the same time it requires us to act collectively in order to provide answers for the community. In this article I will deepen the idea of a collaborative culture able to intervene, even in critical contexts, on the welfare of communities. In the first part I will talk about the difficulties of cultural spaces. In the second part I will support the idea of a proactive library capable of claiming a different role in the construction of a networking mind in the contemporary world. In the third and last part of the article I will focus on the idea of the library as a place of cultural welfare.

 

In questo breve scritto proverò a trattare alcuni concetti non nuovi e non necessariamente propri del lessico biblioteconomico ma tangenziali al variegato cosmo degli spazi culturali e sociali. Concetti che diviene impellente affrontare in un contesto di crisi delle comunità. L’interconnessione stretta fra le persone, il collasso ambientale, gli spazi e le tecnologie ha fatto sì che la pandemia con il suo triste seguito viaggiasse velocemente incidendo sulle nostre quotidianità, esasperando problematicità già in atto, mettendo in rilievo e aggravando drammi sociali noti, soprattutto disparità e disuguaglianze. La biblioteca e i luoghi delle culture devono provare a offrire azioni concrete per contrastare la crisi dilagante dei diritti personali e collettivi. Approfondirò qui temi e istanze differenti per tentare un approccio propositivo e performativo al fine di arginare una rinnovata e dilagante solitudine fisica e conoscitiva. Nella prima parte tratterò la crisi con riferimento alla complessità dei luoghi. Nella seconda verrà sostenuta l’idea di una biblioteca attiva capace di rivendicare un ruolo differente nella costruzione di un pensiero di rete nella società contemporanea. Nella terza e ultima parte dell’articolo mi soffermerò sull’idea di biblioteca come luogo del benessere e del welfare culturale come risposta allo stato d’eccezione pandemico.

La conquista degli spazi culturali

Tali luoghi non esistono, ed è perché non esistono che lo spazio diventa problematico, cessa di essere evidenza, cessa di essere incorporato, cessa di essere appropriato. Lo spazio è un dubbio: devo continuamente individuarlo, designarlo. Non è mai mio, mai mi viene dato, devo conquistarlo.

Da mesi conviviamo con un vuoto. Un buco nero senza fondo e senza forma inghiotte con voracità le nostre quotidianità, il nostro agire e i nostri pensieri. Il lascito della pandemia performa le nostre giornate attraverso la sedimentazione della paura e del rifiuto; paura del virus, paura del contagio, paura dell’altro, paura nel riconoscersi fragili e infine soli. Le biblioteche e in generale i luoghi delle culture possono, e devono, essere determinanti nel contrasto a queste solitudini, nella difesa collettiva e nell’allargamento degli spazi e dei diritti sociali e personali.

La lezione delle biblioteche viene da lontano e si muove come un filo rosso lungo l’intero arco temporale di questa istituzione; un filo rosso, sebbene alle volte sottotraccia e appena accennato, che lega indissolubilmente la conoscenza, la memoria, la tutela, la condivisione del sapere e del saper fare. Una visione che è al contempo tecnica e desiderio di una cultura diffusa, libera, democratica e aperta. Una scelta di campo consapevole che per incidere in maniera attiva sulla contemporaneità deve diventare analisi, ricerca, studio, prassi. Un bisogno di riscatto che deve essere capace di evitare e superare alcuni impedimenti e insidie che ne minano le potenzialità.

Una lunga sequela di ostacoli dovuti a ingerenze più o meno palesi, burocrazie e burocratismi, mancanza d’investimenti economico-sociali, volontarizzazione, precarizzazione del lavoro, scarsità di economie, di mezzi e di prospettive, rendono il compito arduo e complicato. Le pandemie sono, e sono state, come evidenziato da Walter Scheidel, forti acceleratrici di disuguaglianze; oggi come nel corso della storia ogni situazione pandemica esaspera problemi sociali già in atto amplificando gli effetti nefasti con maggiore intensità. Problematiche causate da fattori differenti, concatenati e diffusi, come la crisi dei corpi collettivi, l’atomizzazione delle realtà aggregative, il ricorso ossessivo a parole d’ordine vuote quali meritocrazia, efficienza, produttività, mercificazione, turistificazione del vivere, dell’abitare e della cultura.

Il conflitto sociale si nutre dell’azione collettiva, il merito dell’iniziativa individuale. Il primo persegue scopi comuni che investono la società nel suo complesso, il secondo concepisce il progresso sociale come ricaduta naturale di una somma di successi personali. L’uno prefigura un diverso ordine sociale, l’altro conferma quello esistente.

Un approccio oggettivizzante che tende ad appiattire la conoscenza su tematiche comunicabili, misurabili, personali, smart e in streaming, e che attraverso l’utilizzo di mezzi tecnici e ideologici impoverisce la portata e l’impatto della trasformazione culturale. Una prospettiva incapace di progettare il futuro, attenta solamente all’immanenza, alla rappresentazione e alla riproduzione identica di sé stessa.

Questo approccio miope e utilitaristico di progettazione e di governance del sapere offre lo specchio deformante di una strategia di crescita “pigra”, seguendo il ragionamento di Samuel Stein, che mira a compiacere un pubblico colto, borghese, e standardizzato.

Le biblioteche in tutto questo marasma cercano di resistere offrendo soluzioni differenti e luoghi sicuri in cui rifugiarsi. Le difficoltà da affrontare sono molte, note, stratificate, ma al contempo sono collettive e comuni. Problemi che richiedono una risposta il più possibile condivisa da tutto il comparto culturale, una risposta capace di offrire alternative praticabili e concrete.

Ed è proprio da questa peculiare trasversalità che bisogna ripartire per tentare di mettere in relazione lo studio della contemporaneità, la progettazione culturale, la riaggregazione dei corpi sociali e la polifonia di voci differenti.

La Biblioteca rivendicata

Una nuova cultura. Non più una cultura che consoli nelle differenze, ma una cultura che protegga dalle sofferenze, che le combatta e le elimini. Per un pezzo sarà difficile dire se qualcuno o qualcosa abbia vinto in questa guerra. Ma certo vi è tanto che ha perduto, e che si vede come abbia perduto.

Assistiamo, impediti troppo spesso da burocrazie e bizantinismi, a un progressivo svuotamento di tempo e di senso. Una sorta di apnea pervade le infrastrutture del sapere, beni comuni lasciati soli senza una prospettiva in cui riconoscersi. Corpi sociali dimenticati dal discorso pubblico e politico, non capiti e neppure ascoltati. In questo quadro generale sconfortante, complesso e articolato le biblioteche pubbliche possono rappresentare il punto d’incontro ideale in cui tentare progettare una “nuova cultura” della partecipazione. Un cambio di paradigma in cui creare una rete organizzata, gratuita, alternativa all’oggettivazione e al depauperamento degli spazi sociali. Una rete fondata sulla concezione di cultura gadameriana intesa come ricerca di un bene comune diffuso e virale che anziché diminuire, diviso fra tutti, si moltiplica. Una cultura, bildung, condivisa e implicante la costruzione di un substrato condiviso e partecipato. Oggi il contesto storico in cui siamo inseriti ci interroga su come agire praticamente nel mondo e nella società. Le biblioteche in quanto presidi di democrazia possono rispondere a questo quesito rivendicando il proprio ruolo di collettore delle differenze. Un tipo di azione lontano dalla concezione di cultura spettacolarizzata e standardizzata che anziché agire sulle persone e sui territori svuota di contenuti complessi le proprie proposte.  

Non è certo di questa cultura spettacolarizzata e manipolata che abbiamo bisogno, ma di una cultura critica che sappia guardare al mondo con lucidità e, soprattutto, con l’aspirazione a farsi corpo, azione. Una cultura, o meglio una pluralità di culture, che sappia disintossicarsi dai ricatti e dalle lusinghe del Potere per capire e, di conseguenza, per fare.

Nella costruzione di una nuova politica culturale le biblioteche devono reclamare il loro ruolo di ponte tra mondi complessi e realtà semplici. Una costruzione di senso i cui codici sono quotidianamente trasformati da chi li utilizza. Una trasformazione rivolta alla condivisione, alla creazione di reti di conoscenze e a una maggiore unione tra il lavoro di cura, il cambiamento e la democrazia. Una prospettiva di rottura, disruption, oltre l’impianto fisico, burocratico, di scopo o architettonico per cercare nuovi percorsi capaci di agire attivamente sulle difficoltà.

Troppa attenzione, però, è stata data al riutilizzo di quegli spazi da un punto di vista architettonico e urbanistico a discapito, invece, del software, ovvero dell’oggetto, del contenuto, della vocazione funzionale. Il sovradimensionamento della dimensione spaziale è un fattore molto pericoloso poiché implica il rischio che si diventi tutti delle location, escludendo automaticamente la possibilità di costituire degli agenti di cambiamento.

Nell’immaginario comune questi “luoghi terzi” rispondono a una funzione relativa a un bisogno di protezione e diritti universali, ed è ora di agire consapevolmente in questa direzione. Beni comuni che vengono percepiti nell’immagine esterna (out-group) come spazi del sacro, opifici e luoghi della performatività in cui vengono quotidianamente messe in pratica modalità conoscitive, trasversali, liquide, collaborative.

Ed è proprio su questa peculiare unione tra gratuità, studio e lavoro che si fonda una nuova idea di cultura come bene delle comunità. Molti di questi centri di aggregazione, di conoscenza e conoscenze appaiono troppo spesso, però, simili a non luoghi, spazi di passaggio, d’acquisto, di transito veloce e poco significante.

Luoghi incapaci di reagire alla pandemia e alla crisi sociale in atto e di intervenire sul reale.  

Su un piano ancora più ampio, costruire la cultura collaborativa per gli anni ‘20 vuol dire ritrovare il senso politico del rapporto tra emancipazione individuale e collettiva ed esperienza culturale. Al netto delle considerazioni blasé sul fallimento della promessa della classe creativa, sulle logiche estrattive della gentrificazione e sulla classe disagiata, la cultura resta ancora uno degli strumenti principali di riorganizzazione degli equilibri di potere, di presa di parola e di intervento sul reale.

La pandemia ci obbliga a ragionare sul futuro con più paure e meno certezze di prima, ma al contempo ci richiede di agire fornendo risposte collettive in grado di incidere sulla quotidianità delle persone. Gli spazi culturali e le biblioteche in particolare, per sopravvivere a questi cambiamenti, devono rivendicare il loro essere, anche, uno spazio fisico ed etico, lo spazio per i diritti comuni.

In condizioni difficili, all’interno di una società che non potendo opporsi a essi in maniera esplicita ne ostacola il cammino, si fanno strada diritti che definiscono la civiltà (nella, ma spesso contro la società – per mezzo, ma spesso contro la ‘cultura’). Prima di entrare in un codice formalizzato questi diritti non riconosciuti diventano a poco a poco consuetudinari. Potrebbero cambiare la realtà se diventassero una pratica sociale: diritto al lavoro, all’istruzione, all’educazione, alla salute, all’abitazione, al tempo libero, alla vita.

Per un benessere delle comunità

Dopo decenni di sfrenata espansione abbiamo imparato a fare i conti con un concetto complesso che credevamo superato, quello del limite in rapporto alla spazialità. Concetto tornato nella nostra lingua d’uso attraverso l’utilizzo di parole impattanti quali zona rossa, confine, quarantena, distanziamento e attraverso il ricorso a un differente tipo di prossemica, di mimica e di rapporto con l’altro. La lingua, ma un rapporto di questo tipo non può essere che bidirezionale, detta il passo a un mutato pensiero e a una diversa percezione dello spazio e degli usi collettivi. In contesti di limite vi è la necessità di agire in maniera ambiziosa su questi luoghi del sapere proponendo una risposta comune che agisca attraverso strategie diffuse di benessere. Una necessità di cambiamento che passa attraverso la scoperta, la riscoperta e l’invenzione di pratiche partecipative che includano gli utenti nella progettazione culturale come metodo per il contrasto delle disuguaglianze. Spazi concepiti in una prospettiva sistemica che preservino il loro essere soggetti antimeritocratici, popolari, comunitari, liberi, gratuiti e democratici.

Abbattere i costi del welfare per quella componente, tutt’altro che trascurabile, legata alla povertà esperienziale del malato, producendo allo stesso tempo un notevole miglioramento della qualità della vita percepita: questa dinamica, oltre a configurare un netto aumento del benessere sociale, finirebbe per essere auto-sostenibile, perché potrebbe finanziare gli interventi culturali migliorativi interamente attraverso le economie di costo generate dalla migliore qualità di vita dei malati, producendo verosimilmente ampi margini di risparmio netto.

Il welfare culturale indica un nuovo modello integrato di promozione della salute fisica e mentale degli individui e delle comunità attraverso pratiche di vicinanza partecipative e consapevoli. Una legittimazione della cultura come dimensione del welfare e come fattore rigenerante in situazioni di crisi. Un valore che va oltre l’aspetto produttivo ed economico e diventa parte integrante dei servizi essenziali che garantiscono ai cittadini forme di tutela. Una riscoperta dell’etimologia della parola benessere, “esistere bene”, anche riferita ai lavoratori e intesa come necessità di rivendicare spazi di esistenza degna, sana, equa, un salario dignitoso nuovi diritti, nuovi spazi di possibilità e di sostenibilità.

I lavori massacranti esistono perché i pesi e i compiti non sono equamente distribuiti. Adoro il lavoro, ma detesto la fatica. La fatica che cosa è? La fatica è quel dolore fisico che si oppone alla continuazione del lavoro.

Le biblioteche in quanto organi di prossimità devono svolgere un ruolo di salvaguardia del benessere nella tutela e protezione del tessuto sociale. Un ruolo quanto mai attuale e necessario; il virus rappresenta una sorta di spartiacque tra chi continuerà a operare come ha sempre fatto spegnendosi più o meno lentamente e chi proverà a resistere diventando motore attivo della rete e del cambiamento. Una rete capace di una contaminazione creativa in cui sperimentare ed esigere l’impossibile, uno spazio ponte capace di essere al contempo rifugio e trampolino verso il futuro per uscirne fuori assieme.

Ma non era questo lo scopo del chourmo. Lo scopo era che la gente si incontrasse. Si “immischiasse” come si dice a Marsiglia. Degli affari degli altri e viceversa. Esisteva uno spirito chourmo. Non eri di un quartiere o di una cité. Eri chourmo. Nella stessa galera, a remare! Per uscirne fuori. Insieme.