N.2 2018 - Collezioni e biblioteche nel XXI secolo

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Le collezioni delle biblioteche al tempo delle shadow library, dei predatory journal e dei Big Five

Francesco Giuseppe Meliti

Biblioteca universitaria di Lugano, Università della Svizzera italiana; f.giuseppe.meliti@gmail.com

Per tutti i siti web l’ultima consultazione è stata effettuata il 28 ottobre 2018.

Abstract

Articolo a cura di Francesco Giuseppe Meliti

Premessa

Le collezioni delle biblioteche di cui si tratta in questo articolo sono costituite dai libri, sia in formato cartaceo che elettronico, e dai periodici elettronici.

I tre argomenti principali trattati in relazione a queste collezioni sono: i big deal (licenze d’uso “a pacchetto” dei periodici elettronici), i predatory journal con i predatory publisher (“periodici predatori” ed “editoria predatoria”) e le shadows library (le “biblioteche ombra” o “pirata”, in particolare Sci-Hub e LibGen). Il tutto con un focus sulle biblioteche accademiche in ambito nordamericano e sui loro “comportamenti di acquisto”, anche in relazione ai corrispondenti “dati d’uso”, ma cercando di cogliere e descrivere l’evoluzione in atto nell’ecosistema della conoscenza e nel book trade.

Questa evoluzione si riflette necessariamente sulle collezioni delle biblioteche, con elementi  sia di continuità, a volte imprevisti, sia di cambiamenti, a volte immediati e altre volte invece sbandierati, ma lenti a imporsi.

L’obiettivo della descrizione di questi fenomeni, che stanno cambiando l’ecosistema della conoscenza, è quello di non farci sorprendere, in primis per quanto riguarda le biblioteche accademiche, di fronte alle eventuali conseguenze di questa evoluzione, ma senza la pretesa di voler dimostrare “qualcosa di definitivo” oppure di “chiudere il dibattito”, anzi per (ri)avviare una discussione e una riflessione, anche in ambito italiano, ispirandosi, eventualmente, ai nuovi “modelli relazionali”, proposti di recente dall’IFLA.

Le shadow library, i Big Five e un modello di “accesso dal basso”

Le collezioni delle biblioteche devono affrontare nuove sfide, legate non solo alle risorse elettroniche, ma anche ai “nuovi” ecosistemi di diffusione della conoscenza. Questi ecosistemi non sono solo i canali standard e convenzionali della circolazione e della messa a disposizione della conoscenza, costituiti dal tradizionale mercato editoriale mondiale (book trade), ma anche da canali “non convenzionali”, aree “grigie” e “sotterranee”, costituite dalle shadow library, come ad esempio per i libri Library Genesis (LibGen) e per i periodici accademici Scientific Hub (Sci-Hub), su cui getta finalmente luce un recentissimo volume.

Queste “biblioteche ombra” sono alimentate in particolare dal mondo del web sotterraneo e parallelo (deep web), donde fanno capolino, emergendo anche agli onori della cronaca nel web “ufficiale”, la “criptovaluta” bitcoin e il sistema di interscambio blockchain per la registrazione delle relative transazioni.

Le shadow library costituiscono una nuova prospettiva anche per le collezioni delle stesse biblioteche “tradizionali”: devono essere tenute comunque in considerazione, in quanto sono ormai entrate nella pratica di ricerca della comunità accademica, come dimostra, in controluce, anche la “contrattazione” tra l’editore Elsevier e il consorzio che raggruppa le università tedesche (DEAL): il problema è costituto dai sempre più onerosi big deal relativi all’editoria accademica, imposti in particolare da un “oligopolio” commerciale, costituito dai Big Five (Reed-Elsevier, Springer, Wiley-Blackwell, Taylor & Francis, Sage), che da soli pubblicano più della metà della ricerca scientifica mondiale, percentuale che sale al 70% se consideriamo soltanto le social sciences.

Forse le università tedesche intanto possono chiedere migliori condizioni, arrivando anche alle estreme conseguenze della rottura della trattativa con l’attuazione da parte di Elsevier del tanto minacciato taglio degli accessi alle risorse elettroniche, in quanto è possibile comunque utilizzare queste risorse tramite le shadow library: infatti la Germania è all’ottavo posto tra le nazioni che scaricano, tanto per fare un esempio, da LibGen, preceduta al top five da Russia, Indonesia, Stati Uniti, India, Iran, e inoltre solo di poco preceduta da Egitto e Cina e seguita in ordine da Regno Unito, Ucraina, Turchia, Francia, Polonia, Italia, la quale occupa il quattordicesimo posto in questa speciale classifica.

Anche le università svedesi (la Svezia è al diciassettesimo posto della classifica, immediatamente preceduta al quindicesimo dal Canada e al sedicesimo dalla Spagna) hanno scelto la stessa strategia di rottura.

Negli Stati Uniti, secondo uno studio presentato nel 2017 all’ultimo congresso biennale dell’Association of College & Research Libraries dell’American Library Associations sugli effetti delle shadows library relativamente al servizio di interlibrary loan, il download di articoli scientifici da Sci-Hub trova una motivazione non solo nel prezzo degli abbonamenti, ma anche nella facilità d’uso della piattaforma, con pochi o nessun competitore “tradizionale”, permettendo in un’unica piattaforma lo scarico, sebbene considerato “pirata”, dai principali editori di periodici accademici.

Access from Below è il titolo di un significativo paragrafo del volume Shadow libraries, indicando appunto la modifica del paradigma di accesso, che passerebbe dal modello top-down a un modello di accesso “dal basso”.

Tutto questo sicuramente rappresenta un “nuovo”, rapido e immediato cambiamento nell’ecosistema della conoscenza, i cui effetti dovranno essere presi in considerazione dalla comunità dei bibliotecari e valutati anche sulle collezioni delle biblioteche: le shadows library non possono di certo essere definite biblioteche vere e proprie, seppur “pirata”, soltanto per il fatto che possiedano un “catalogo”, ma comunque esprimono un bisogno di libero accesso alla conoscenza.

In definitiva, bisogna cercare di dare una risposta a questi e similari fenomeni, anche controversi, come sono le shadow library, alla cui base c’è una volontà di libero accesso alle conoscenze, che stanno “esplodendo” a livello mondiale come boom di pubblicazioni e con un sempre maggior numero di uomini e donne che desiderano finalmente partecipare al “banchetto della conoscenza”.

Gli studenti universitari, le pubblicazioni e il budget delle biblioteche

È in corso a livello mondiale un’ampia digitalizzazione dei materiali e delle relative infrastrutture, ma non ancora una più ampia digitalizzazione dell’ecosistema dell’insegnamento, dell’apprendimento e della ricerca, senza una stabilizzazione dei modelli e dei contesti legislativi, che possano stare al passo con la crescita dell’educazione superiore.

Infatti gli studenti impegnati nell’educazione terziaria/universitaria sono cresciuti di molto: erano 191 milioni nel 2011 e 216 milioni nel 2016 come da dati Unesco. Ben un terzo della popolazione mondiale tra i 18 e i 24 anni risulta impegnato in studi universitari, con un aumento previsto, dal 2015 ed entro il 2025, a 262 milioni: in questo aumento gli studenti appartenenti alle economie emergenti peseranno per circa 63 milioni, la metà dalla Cina e dall’India.

Non solo nei paesi “emergenti”, ma anche, sebbene in minor misura, nei paesi sviluppati dell’OECD assistiamo a un tale fenomeno: tra il 2000 e il 2016 la percentuale dei giovani tra i 20 e i 24 anni ancora in percorsi di educazione terziaria è incrementata del 10%, simmetricamente a un 9% di decremento degli occupati in quella fascia d’età.

L’Italia purtroppo si distingue in negativo, con uno dei più bassi indici di adulti (tra i 25 e i 64 anni) che hanno completato l’istruzione universitaria (solo il 18% rispetto a una media OECD del 37%), forse dovuto al più basso ritorno economico degli stipendi dei laureati con tasso di spesa pubblica per l’istruzione a tutti i livelli pari al 7,1%, il più basso tra i paesi OECD e partner.

Nei “paesi sviluppati” e in questo contesto di crescita della popolazione universitaria, le biblioteche devono continuare a fronteggiare l’aumento dei costi per le acquisizioni, dai database specialistici agli e-journal, dalle monografie ai textbook, i cui due ultimi acquisti sono stati comunque “cannibalizzati” da quelli per i database e gli e-journal. Negli Stati Uniti l’aumento dei costi per tutte queste risorse documentarie dal 1993 al 2015 è stato ogni anno tra il 5% al 7%, con un incremento ancora più alto per le risorse elettroniche, mentre i bilanci delle biblioteche sono rimasti sostanzialmente uguali.

L’incremento del numero di studenti porta inevitabilmente non solo a un incremento dei ricercatori, ma anche del numero delle pubblicazioni, con una maggiore aspettativa di accesso globale a queste.

Il numero degli articoli di ambito scientifico (comprese le social sciences e con l’esclusione di quelli classificati humanities) a livello mondiale è cresciuto del 23% tra il 2008 e il 2014, passando da 1.030.000 a 1.271.000 unità. Gli USA hanno la percentuale più alta (25%), seguiti dalla Cina (20%), dalla Germania e dal Regno Unito (7% ciascuno). Se invece consideriamo globalmente l’Unione europea, questa detiene il primato mondiale con il 34% di queste pubblicazioni nel 2014, in incremento del 13,8% rispetto al dato del 2008: tuttavia gli incrementi relativi maggiori si registrano per i paesi africani (60,1%) e arabi (109,6%).

L’aumento delle pubblicazioni è dovuto anche a un paradigma che pervade ormai l’editoria accademica, sintetizzato nel seguente motto: Publish or perish (POP).

Le università esercitano pressioni sui propri ricercatori e docenti perché pubblichino al fine di attrarre visibilità sulle rispettive istituzioni, in modo da assicurarsi, ad esempio, la continuità dei fondi per la ricerca. Questo sistema è sostenuto dai meccanismi del journal ranking, dai programmi di valutazione della ricerca, oltre che da discutibili pratiche di referee. I rischi, e a volte le conseguenze, sono non solo la distrazione dei docenti dalle attività di insegnamento, ma anche il continuo inseguimento della quantità, con la realizzazione di pubblicazioni non sempre di alta qualità scientifica.

Se l’esplosione delle pubblicazioni a livello mondiale è un fenomeno ormai in corso da anni e sta erodendo costantemente il budget delle biblioteche anche a causa degli oligopoli del mercato editoriale relativamente alle risorse elettroniche, quest’evoluzione sarà ancora più intensa nei prossimi anni, con l’aumento esponenziale di pubblicazioni dovuto non solo al paradigma POP, ma anche all’aumento del numero di ricercatori. Questo è un cambiamento immediato nell’ecosistema della conoscenza, con rapidi effetti sulle collezioni delle biblioteche.

O il budget per le acquisizioni aumenterà nel tentativo di seguire quest’aumento esponenziale oppure, per evitare un depauperamento e indebolimento delle collezioni, dovrà in qualche modo cambiare negli obiettivi di spesa, riqualificandosi, per esempio evitando di “comprare tutti le stesse cose” o meglio pagando gli “acquisti comuni” con un prezzo equo per le biblioteche e sostenibile per gli editori. 

L’Open Access, i predatory publisher e la “falsa scienza”

Un ruolo importante le biblioteche devono giocarlo anche sul fronte dell’Open Access, favorendo questo movimento e battendosi per un’Open Science.

Secondo un recente volume, la gold road (la pubblicazione diretta degli articoli in periodici ad accesso gratuito) e non la green road (il deposito dell’articolo da parte del suo autore in archivi istituzionali o disciplinari “aperti”) sarebbe il “modello naturale di business” per la pubblicazione di opere accademiche, a patto che siano sostenuti i costi di pubblicazione.

Se l’attività di pubblicazione mira non tanto al guadagno materiale, quanto piuttosto all’aumento di reputazione del suo autore all’interno della comunità scientifica, non avrebbe molto senso far pagare i lettori per questo scopo. La copertura dei costi editoriali per la pubblicazione dell’articolo (APC, article-processing charge) potrebbe avvenire riallocando i fondi istituzionali esistenti, dai costi per la sottoscrizione dei periodici ai “costi per la pubblicazione” dell’articolo.

Lo studio conclude che in un sistema di periodici OA ben progettato, in cui gli editori si limitino a chiedere soltanto un “equo” compenso per la pubblicazione, il punto cruciale è stabilire un meccanismo affidabile di controllo della qualità degli articoli OA, segnalando, tra l’altro, agli autori la qualità dei periodici OA e ai lettori la qualità, percepita dalla comunità accademica, degli articoli pubblicati. In questo modo si ridurrebbe notevolmente il costo sociale derivante dall’esclusione inefficiente di chi non può pagare per l’accesso ai periodici (il famoso paywall, per così dire “il muro del pagamento”, termine divenuto “iconico” e titolo di un recente e relativo documentario), senza distruggere l’incentivo alla creazione di lavori accademici di alta qualità.

Tuttavia uno spettro si aggira intorno all’OA, minandone l’attendibilità: si tratta dei predatory publisher e dei predatory journal.

Questi periodici, che si spacciano per scientifici e referenziati, pubblicano articoli anche di emeriti sconosciuti su qualsiasi argomento venga proposto, senza alcun controllo del contenuto per quanto riguarda la validità scientifica e disciplinare. Un bibliotecario dell’University of Colorado, Jeffrey Beall, ha creato una lista di questi editori (circa 1.100) e di altri periodici singoli (circa 1.300) sul suo blog «Scholarly open access» in base ad alcuni criteri, come ad esempio: politiche non chiare rispetto ai costi per la pubblicazione (gli autori non sono a conoscenza delle tariffe applicate per l’APC); elencazione di periodici senza alcun articolo pubblicato e senza alcun comitato per la revisione; mancata disponibilità di un archivio di numeri arretrati; dettagli incompleti e non chiari relativi alla peer review; dubbia qualità della ricerca pubblicata in precedenza; assenza nei principali database citazionali (come Scopus o Web of Science); invio di frequenti e-mail ai ricercatori sollecitandoli a presentare il proprio lavoro oppure anche a partecipare a conferenze prive di alcun valore scientifico, il cui reale scopo era solo quello di far pagare una tassa d’iscrizione o per la presentazione di una relazione.

Il 15 gennaio 2017 l’intero contenuto di «Scholarly open access» è stato rimosso (esistono tuttora sul web “copie d’archivio”): l’University of Colorado ha dichiarato che si è trattato, comunque, di una scelta di Beall dovuta a motivi personali. Tuttavia una lista così scomoda (per certi versi non perfetta, ma sicuramente utile) è naturale che sia finita “sotto il mirino”, con continui attacchi e qualche azione legale, andata comunque a vuoto, che hanno portato, infine, alla sua rimozione.

Infatti questa pratica di pubblicazione costituisce un evidente vantaggio economico per questi editori, sfruttando il bisogno di pubblicazione dei ricercatori con un business model predatorio, e forse è vantaggiosa anche per qualche società o organizzazione privata interessata a farsi pubblicare “studi compiacenti”, ma costituisce un danno per la credibilità del sapere scientifico e, più in generale, per il progresso della conoscenza.

Sono soprattutto i ricercatori giovani e all’inizio della carriera, che hanno bisogno di pubblicare, le vittime di questa pratica, attuata da parte di questo tipo di periodici ed editori localizzati formalmente in UK o in USA, ma in realtà con “sede operativa” in Asia o Africa. Tuttavia anche ricercatori senior e docenti confermati sono vittime, più o meno consapevoli, di questa pratica di pubblicazione, utile comunque, finché resta “nascosta”, ad aumentare il “prestigio accademico” e conseguentemente anche l’erogazione dei fondi per la ricerca.

Il numero di editori predatori è previsto in aumento, passando dai circa 2.500 del 2017 a circa 7.500 nel 2022, con un’esplosione esponenziale dei periodici predatori dagli oltre 8.000 (fortunatamente quasi nessuno di questi attualmente presente nei pacchetti commerciali dei Big Five) a oltre 37.000.

Da qui l’attualità del fenomeno, assurto anche agli onori della cronaca giornalistica, e la necessità per i bibliotecari di nuovi strumenti per valutare e individuare i periodici predatori, in modo non solo da salvaguardare l’attendibilità delle collezioni delle biblioteche, ma anche per combattere la “falsa scienza” e tutti i suoi derivati.

Si tratta in definitiva di un fenomeno nuovo e di una certa consistenza secondo gli studi sopra citati, con possibili rapidi cambiamenti nell’ecosistema della conoscenza e altrettanto rapide conseguenze, se non riconosciuto e individuato anche se di “piccolo flusso e portata”, in termini di attendibilità pure sulle collezioni delle biblioteche.

La selezione e gli acquisti in biblioteca, l’uso dei libri e degli e-journal, gli strumenti di analisi

Il tradizionale rapporto delle biblioteche con i fornitori di risorse sta cambiando, ma nei fatti molto lentamente per quanto riguarda la risorsa libraria, con l’emergere anche di nuovi attori. Inaspettatamente sembra prevalere, in un gruppo di biblioteche universitarie nordamericane, un comportamento d’acquisto rivolto non solo verso le risorse librarie cartacee, che costituiscono ben il 96% degli acquisti nell’anno fiscale 2017 contro il 4% di e-book, ma anche verso la modalità di acquisto “tradizionale” del firm order (adoperato al 95%), nonostante l’esistenza di strumenti, anche elaborati e complessi, di approval plan (adoperati per poco più del 3%, percentuale che sale all’11% relativamente agli e-book). Il tutto all’interno di un book trade in cui emerge un “nuovo” fornitore per questo campione di biblioteche, Amazon, con una quota di mercato del 25%.

Inoltre uno studio, in corso di pubblicazione evidenzia che il modello costituito dalla selezione effettuata dai bibliotecari di University of Nebraska-Lincoln Libraries è, per di numero di citazioni su Google scholar, più efficace del modello basato su approval plan. Il modello patron-driven acquisition risulta ancora più efficace a livello di risultati nel sistema citazionale di Google scholar: questo studio consiglierebbe di adottarlo per almeno il 5% del budget delle acquisizioni, in modo da venire incontro alle esigenze correnti degli utenti, che forse corrisponderanno, conclude lo studio, alle future esigenze.

La realtà nordamericana è evidentemente diversa rispetto alla realtà italiana: quindi quel richiamo a soddisfare le richieste per un minimo del 5% del budget risulta forse per certe realtà europee e italiane ampiamente sottostimato.

Tuttavia non bisogna nemmeno cadere nell’eccesso opposto di pensare al ruolo di una biblioteca dell’università, una biblioteca per lo studio e la ricerca, come quello di un mero deposito delle correnti e presenti attività di insegnamento, studio e di ricerca della propria istituzione di riferimento.

Esiste infatti un ruolo non solo “passivo” delle collezioni delle biblioteche, ma un ruolo “proattivo”, tanto più se trattasi di biblioteche destinate a supportare lo studio e la ricerca, nell’offrire il panorama, a un livello stabilito di ampiezza e approfondimento possibile, per un determinato ambito disciplinare e per il supporto degli studi interdisciplinari. E infatti, tanto per citare un illustre esempio, il sistema bibliotecario dell’Harvard University è collocato a pieno titolo tra le strutture e le risorse per la ricerca dell’università stessa.

Il fatto poi che le collezioni ben selezionate non vengano comunque adoperate è lungi dal vero; come non è vero che la selezione applicata alle risorse elettroniche non serva a nulla. E infatti uno studio del 2015 evidenzia come gli e-book acquisiti tramite firm order (quindi con la selezione del bibliotecario) hanno il maggior tasso d’uso (52%) rispetto a quelli “acquisiti a pacchetto” (package), seppur con il maggior costo per uso ($22,21). L’acquisto a pacchetto ha un tasso di uso inferiore, seppur di poco (50%), anche se, conseguentemente alla quantità dei titoli, presenta il minor costo per uso ($3,39): ma, come si evidenzia in questo studio, è sconcertante che l’altra metà dei titoli a pacchetto sia a zero uso. D’altronde è risaputo che la stessa cosa succede, e ancor più drammaticamente, con i pacchetti di e-journal. Infine gli acquisti di e-book tramite il patron-driven acquisistion hanno comunque un tasso medio di uso per titolo del 13,9% e conseguentemente un relativamente basso costo per uso ($8,88).

Un altro e più recente studio del 2017 dimostra che i libri cartacei acquistati sempre tramite firm order vanno più frequentemente in prestito, per quasi tutte le discipline, rispetto a quelli acquistati tramite approval plan.

Un ulteriore problema che complica i meccanismi automatici o semiautomatici dell’approval plan è la scelta del “supporto” per il libro, tra il cartaceo e l’elettronico. In questo caso bisogna considerare le preferenze delle diverse tipologie di utenti e i particolari usi; considerando il fatto che gli studenti, per la preparazione degli esami, preferiscono ancora il cartaceo, mentre per la consultazione di specifiche parti o l’accesso diretto a un punto specifico si predilige la copia elettronica.

Se è vero che la selezione effettuata dal bibliotecario è più costosa e faticosa in termini di risorse umane, è altrettanto vero che essa assicura migliori risultati, considerando tutte le varianti nelle scelte, difficilmente predefinibili, e infine riducendo al minimo la casualità dell’acquisizione.

Per questi dati di fatto, non bisognerebbe più definire questo modello come “acquisizioni just in case” contrapposto al “superiore” modello just in time: la differenza la fanno soltanto la competenza, la professionalità e l’esperienza del bibliotecario, dotato degli appositi strumenti per la selezione del mercato editoriale, con una visione completa delle collezioni e con un’adeguata programmazione economica e biblioteconomica del futuro sviluppo delle stesse.

Infatti non c’è nulla di più intempestivo e inappropriato (altro che in time!) di acquistare pubblicazioni scientific, technical and medical (STM) o social sciences and humanities (SSH) a grandi stock “di tutto un poco”, oppure di un acquisto fatto per soddisfare le esigenze di un singolo utente, senza alcuna corrispondenza con il resto della collezione di una biblioteca.

Questa certamente sarebbe una collezione “stocastica”, costruita, appunto, “a caso”. E se per un momento guardiamo con “volo d’uccello” ai pacchetti di e-journal in abbonamento tramite singoli e non confrontabili e misurabili contratti di licenza d’uso, che presentano una miriade di titoli con la stragrande maggioranza a zero uso (licenze quindi si potrebbe dire di “non uso”, ma che si è costretti a rinnovare di anno in anno), potremmo trovare una qualche “strana” similitudine.

Uno studio, appena pubblicato, incentrato sulle università nordamericane, evidenzia come i ricercatori citino soltanto una frazione dei periodici acquisiti dalle loro biblioteche tramite i pacchetti dei big deal: questa frazione è in costante diminuzione, mentre i prezzi per le sottoscrizioni ai pacchetti sono sempre in aumento, determinando un aumento del numero complessivo dei periodici, una diminuzione forse del costo medio per singolo periodico, ma un’evidente riduzione del ritorno degli investimenti effettuati dalle biblioteche, in termini di “costo per periodico citato”.

Lo studio lamenta inoltre la mancata pubblicità dei dati relativi ai download degli e-journal: in particolare nel caso di molti editori le università non possono condividere e comunicare questi dati, probabilmente a causa di particolari clausole contrattuali presenti nelle licenze stipulate. Se questo può essere ammissibile in istituzioni private, crea forse qualche problema in istituzioni finanziate, in prevalenza, da fondi pubblici, ove dovrebbe vigere il principio della trasparenza sull’uso delle risorse.

Tuttavia anche negli USA, ove le principali università sono private, uno studio, pubblicato sul periodico della National Accademy of Science nel 2014, si è posto il problema del costo dei pacchetti. Solo appellandosi al Freedom of Information Act gli studiosi sono riusciti a ottenere i dati, raggruppati in base alla Carnegie classification rispettivamente per 151 università di ricerca dottorale estensiva R1, per 105 università di ricerca dottorale intensiva R2 e infine per 591 istituzioni dotate di almeno 50 programmi di master ma con non meno di 20 programmi dottorali (M1, M2, M3), relativamente ai prezzi in dollari dei pacchetti in big deal.

In particolare i soliti cinque editori commerciali (Big Five) si distinguono sempre comunque per il maggiore “costo a citazione”, basato su Journal citation reports e diviso sempre per R1, R2, M1-M3: Elsevier (2,24 - 0,71 - 0,17), Springer (3,08 - 1,48 - 0,45), Wiley (5,19 - 1,48 - 0,48), Emerald (6,94 - 2,05 - 1,89), Sage (7,24 - 3,90 - 1,69), Taylor & Francis (10,94 - 2,65 - n.a.).

Gli editori no-profit, invece, presentano un costo per citazione più basso, con una media di 1,02 (per R1) 0,83 (per R2) 0,71 (per M1-M3). Solo per fare alcuni esempi: American Chemical Society (0,50 - 0,34 - 0,18), Oxford University Press (1,27 - 0,58 - 0,20), Cambridge University Press (4,06 - 2,14 - 1,04), MIT Press (1,16 - 1,04 - 0,93), University of Chicago Press (2,36 - 1,64 - 1,64), American Psychological Association (2,87 - 2,11 - 1,60).

Per le università “Carnegie R1” Elsevier ha un costo di citazione pari a tre volte quello dei no-profit, Emerald, Sage, Taylor & Francis hanno un costo per citazione pari a circa dieci volte rispetto ai no-profit. Lo studio sostiene che gli editori commerciali, stabilendo i prezzi in base alla disponibilità a pagare da parte delle biblioteche, hanno realizzato il massimo del profitto, attuando “discriminazioni di prezzo di primo grado” e realizzando una politica di sconti o di riduzione dei prezzi solo eventualmente in presenza di una forte contrattazione. Tuttavia, conclude questo studio del 2014, la mancata conoscenza delle condizioni contrattuali praticate alle altre biblioteche e dei relativi costi e benefici determina risultati di contrattazione non sufficientemente efficaci, e, confrontando lo stesso pacchetto tra varie università, con l’applicazione di prezzi non giustificati né dal numero di studenti né dal numero degli addottorati: ecco forse il motivo, chiosa lo studio, per cui agli editori conviene tenere confidenziali i contratti di licenza.

Si tratta di un modello e di una strategia di vendita e di business da parte degli editori, finalizzati a trarre il massimo profitto dalle acquisizioni nelle biblioteche: un modello forse non più sostenibile, anche dal punto di vista economico e di return of investment.

In tale ecosistema della conoscenza, complesso e continuamente in evoluzione, risulta, quindi, sempre più indispensabile dotarsi dei necessari strumenti e piattaforme per l’analisi dell’universo delle pubblicazioni e per l’analisi e la valutazione delle collezioni delle biblioteche.

Nel 2016 è stata effettuata dalla Association of Research Libraries (ARL), un’indagine sulle “pratiche” relative al collection assessment presso le biblioteche accademiche e di ricerca nordamericane.

In quest’indagine si evidenzia, tra l’altro, l’utilizzo principalmente di tre tool commerciali per l’analisi delle collezioni, che costituiscono oltre il 70% del mercato. Quello più usato in assoluto (43%) è YBP Gobi: infatti il servizio YBP è dal 2015 di proprietà Ebsco e ora è noto anche con il nome di Gobi, piattaforma finalizzata anche all’acquisto dei documenti. Al 16% di utilizzo si trova Intota Assessment di ProQuest, prodotto che presenta, al pari di Gobi, un’alta percentuale (29%) di chi sarebbe interessato a utilizzarlo. Immediatamente di seguito (13%) c’è OCLC WorldShare collection evaluation. Inoltre OCLC ha acquisito un apposito servizio per l’analisi e la gestione condivisa delle risorse cartacee, comprendente anche GreenGlass, denominato Sustainable collection services.

Inoltre a livello di data management & visualization tool quest’indagine segnala la presenza, in ordine decrescente d’uso, rispettivamente di: Access, SQL Server, LibAnalytics e SPSS, questi ultimi due anche con una buona percentuale di interessati ad adoperarli.

Di fronte all’esplosione delle pubblicazioni e al complesso mercato editoriale bisogna, quindi, dotarsi anche di efficaci strumenti di conoscenza del mercato editoriale e di analisi delle collezioni delle biblioteche, uniti alla specifica competenza professionale del bibliotecario.

In definitiva emerge un elemento di continuità, forse imprevista, per le collezioni delle biblioteche: l’acquisto dei libri in formato cartaceo rispetto a quello elettronico, formato che sembra restare una “novità” ancora minoritaria rispetto a quanto viene in genere sbandierato o pubblicizzato. Un’altra continuità, forse altrettanto imprevista, è che l’acquisto dei libri, in particolare cartacei, viene effettuato per la stragrande maggioranza dei titoli con una selezione titolo per titolo che, inoltre, secondo qualche recente studio, risulterebbe anche più efficace in termini di uso rispetto all’approval plan, sebbene più dispendiosa in termini di impiego di risorse umane e di costi di acquisto dei documenti; con l’emergere, forse in modo inaspettato, di Amazon come fornitore nel library market. Il PDA (o DDA) dal canto suo si conferma ancora più efficace in termini di uso, anche per gli e-book e la cosa non sorprende: comunque gli studi anglofoni sconsigliano un uso estensivo ed esclusivo di questo metodo, ma caldeggiano un’applicazione “in aggiunta”, onde evitare di sviluppare collezioni basate sulla temporaneità e casualità della domanda.

Invece per i periodici elettronici si conferma il dispendioso modello di business “a pacchetto”, che tuttavia rivela ormai tutti i suoi limiti in termini di costi, statistiche d’uso e soprattutto ritorno degli investimenti con, forse, un imprevisto outlook negativo per i grandi editori commerciali, dovuto a forti cambiamenti che abbiamo visto in corso nell’ecosistema della conoscenza. Cambiamenti alcuni catalizzati “dall’alto” (consorzi di biblioteche, ora anche europee, che non rinnovano i big deal; il movimento Open Access, tuttavia ancora lento ad affermarsi e con qualche rischio di “attendibilità”, ma con possibilità di nuovi sviluppi anche grazie all’impulso dell’Unione europea tramite, ad esempio, il “piano S”); e altri cambiamenti, forse ben più dirompenti e immediati, che spingono “dal basso”, offrendo a tutti un libero e gratuito accesso ai contenuti finora a pagamento, tramite servizi “ombra” e pirata (shadows library).

Un’idea “relazionale” e “cooperativa” per le collezioni

Potremmo dire che il cambiamento dell’idea stessa di collezione è dovuto ai cambiamenti dell’ecosistema di diffusione della conoscenza, con il quale le collezioni della biblioteca sono in relazione diretta. Inoltre le collezioni si trovano anche in relazione con gli utenti.

Quindi non sarebbe infondato sostenere una sorta di idea “relazionale” delle collezioni delle biblioteche: preferisco “relazionale” all’aggettivo “partecipativa”, usato per la biblioteconomia da David Lankes, il quale inoltre “sfuma” le collezioni nelle “conversazioni” dei bibliotecari con la “comunità”. Un’identificazione affascinante questa, ma in cui bisogna tuttavia ripristinare quel “tradizionale” ruolo di mediazione con le risorse informative, appunto di relazione, svolto dal bibliotecario, ruolo in cui forse si reincarna, di volta in volta, quell’immutabile spirit of the library, di cui parla Ranganathan.

Per svolgere questo ruolo di relazione e in primis di selezione, il bibliotecario deve essere in relazione con la propria collezione, fisicamente posseduta oppure accessibile, deve conoscerla sia nel suo complesso (conspectus) e nelle sue parti quantitativamente/qualitativamente, sia nella relazione “interna” fra queste parti (collection analysis), sia nella relazione con le biblioteche dell’eventuale area di cooperazione (benchmarking), sia nella relazione con le eventuali biblioteche di riferimento disciplinare (collection evaluation), spingendosi idealmente fino all’universo delle pubblicazioni esistenti.

E l’universo delle pubblicazioni, come abbiamo visto, è in costante mutamento ed espansione, ma non per questo i bibliotecari devono rinunciare a individuarle, osservarle e conoscerle: dalle shadow library, ai predatory journal, all’Open Access, alle dinamiche del mercato editoriale.

Infatti la selezione, conseguente alla conoscenza, delle risorse documentarie dovrebbe essere sempre più collaborativa e cooperativa, non solo realizzando quindi le famose “economie di scala”, che inoltre riducono attività “routinarie” e time-consuming, ma anche favorendo un continuo e reciproco arricchimento professionale. Quindi è opportuno costruire reti sempre più forti di cooperazione e collaborazione, tra le biblioteche e tra i bibliotecari, per lo sviluppo delle collezioni: in definitiva, e ancora una volta, “relazioni”.

Un’idea in qualche modo “relazionale”, che anche l’IFLA ha iniziato a utilizzare, tracciando, nel corso del 2017, un quadro di riferimento, non solo per quanto riguarda le informazioni bibliografiche relative ai seriali e alle altre risorse in continuazione, tramite il modello PRESSoo, ma anche per quanto riguarda i dati bibliografici complessivi, tramite il modello LRM. Quest’ultimo è in definitiva un modello relazionale per le entità bibliografiche, che consolida tre modelli concettuali sviluppati in precedenza e separatamente (FRBR per i “record bibliografici”, FRAD per i “dati di autorità”, FRSAD per i “dati di autorità per soggetto”), il tutto anche in vista di RDA e nell’ottica dei linked data.

Definire le relazioni all’interno dei metadati bibliografici e anche le relazioni tra le “sezioni bibliografiche” o ambiti disciplinari che costituiscono la collezione di una biblioteca e poi le relazioni di queste con quelle di altre biblioteche dell’area di cooperazione o di riferimento disciplinare, fino alle relazioni con l’universo, sempre in espansione, delle pubblicazioni disciplinari costituisce una necessità di conoscenza professionale.

Conoscenza professionale indispensabile non solo per “curare” tutte le tipologie di collezioni, integrando la biblioteca digitale nella biblioteca tout court e attuando un matrimonio tra le nuove tecnologie e le tradizioni bibliotecarie, in una considerazione unitaria di tutti i vari tipi di collezioni, comprese quelle sempre più necessariamente cooperative e condivise.

Indispensabile anche per cercare di guidare e gestire le collezioni del XXI secolo, utilizzando un sapiente mix, in base ai contesti e agli ambiti disciplinari (oppure anche una altrettanto sapiente “ibridazione”), degli strumenti di selezione e di acquisizione a nostra disposizione (approval plan, PDA, firm order), sviluppando raccolte non “(foto)copia l’una dell’altra” ma collaborative, diversificate, per certi versi “uniche” e “di nicchia”, senza farci trascinare dai fattori “esterni” del mercato editoriale o farci sorprendere, per così dire, dalla presenza in mare di “pirati della conoscenza”. Ma tutto questo rientra, ancora una volta e pienamente, in una chiara formulazione della politica di sviluppo delle collezioni (collection development policy), tematica molto sentita e ampiamente affrontata nella biblioteconomia anglo-americana.

Una conclusione “relazionale”, anzi… un “nuovo” inizio: il ruolo del bibliotecario

Infine, la stessa relazione di cui parla Ranganathan nella seconda e terza legge della biblioteconomia tra ogni lettore e ogni libro, e viceversa, è in sostanza una complessa relazione “n:n”, nel senso che un singolo lettore può essere un potenziale lettore, oggi oppure in futuro, di n libri (da 0 a n), ma ogni libro può essere letto da un numero n di lettori (da 0 a n), oggi o in futuro o meglio in un istante x di contemporanea esistenza per entrambi (libro e lettore).

Anche le biblioteche con le loro collezioni entrano in questa relazione all’intero dell’ecosistema della conoscenza dentro un continuum temporale. Tuttavia tocca a noi bibliotecari, in quanto “professionisti esperti”, saper agevolare queste relazioni complesse, rappresentabili certamente nel modello Entity-Relationship, utilizzato, come abbiamo visto, pure dall’IFLA per un alto livello di rappresentazione dei dati bibliografici, ma al contempo facendole “crescere” e sviluppando, in questo modo, “nuova” conoscenza.

E forse possiamo concludere o meglio (ri)cominciare da una “continuità” forse “imprevista”, il ruolo del bibliotecario come selettore “indispensabile” in quanto mediatore “non standardizzabile” tra i lettori e i libri, sempre più numerosi e declinati su varie forme e supporti, in definitiva, ancora una volta, un ruolo di “professionista esperto”, così come veniva sostenuto già in quel contributo monografico italiano del 2007:

ancora una volta di fronte a tanta complessità ci si sorprende in caso che qualcuno possa mettere in dubbio il ruolo fondamentale del bibliotecario. E se questo accade è certo un brutto segno. Segno che ancora non è del tutto percorsa la strada di un pieno riconoscimento del valore culturale e sociale della nostra professione. Ma anche segno indubitabile che di bibliotecari e di biblioteche c’è ancor più bisogno di prima.