N.2 2018 - Collezioni e biblioteche nel XXI secolo

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Lo sviluppo delle collezioni tra bibliometria e nuovi scenari dell’editoria scientifica

Rossana Morriello

Servizio qualità e valutazione, Politecnico di Torino; rossana.morriello@polito.it

Per tutti i siti web l’ultima consultazione è stata effettuata il 9 novembre 2018.

Abstract

La ricerca accademica, e di conseguenza il mondo dell’editoria scientifica, stanno attraversando una fase di notevoli cambiamenti. Le biblioteche accademiche sono chiamate a seguire le tendenze della ricerca e le evoluzioni dell’editoria ai fini di fornire servizi che rispondano alle esigenze della ricerca. Le raccolte delle biblioteche accademiche rappresentano le fondamenta sulle quali costruire molti di questi servizi. Dagli anni Novanta le raccolte delle biblioteche delle università si sono progressivamente digitalizzate, affiancando al materiale bibliografico a stampa quantità sempre maggiori di periodici elettronici, e-book, banche dati, anche come conseguenza dei modelli di acquisizione delle risorse elettroniche dominanti, come il big deal. Negli ultimi anni i grossi editori commerciali hanno sviluppato una serie di nuovi servizi a supporto di tutte le fasi della produzione e disseminazione della ricerca scientifica e si parla di un “nuovo” big deal. La bibliometria ha avuto un impatto importante nella ricerca scientifica in virtù dell’uso estensivo che se ne fa in ambito di valutazione della ricerca, ed è stata usata come strumento di politica documentaria dalle biblioteche, contribuendo a ridefinire lo scenario della ricerca nelle forme in cui viene disseminata e comunicata. Originariamente però il concetto di bibliometria aveva risvolti differenti. Il paradigma culturale che si rifà all’accesso aperto e alla scienza aperta si è andato sviluppando anche come reazione ai mutamenti in atto.

English abstract

Academic research, and consequently the world of scientific publishing, are substantially changing. Academic libraries are asked to recognize trends in research and developments in publishing in order to be able to answer through their services to the requirements of researchers. Library collections are the basis for construction of these services. Since the Nineties library collections have been increasing the amount of digital materials, e-journals, e-books, databases, also as a consequence of some acquisitions models like the “big deal”. In the last years, major publishers have been developing new services to support all stages of the production and dissemination of scientific research and we are talking about a “new big deal”. Bibliometrics has a great impact on scientific research, mainly for its large use in evaluation of research, and it’s also used as a tool for collection management in libraries, so contributing to redefine the research scenario in all the forms in which it is disseminated and communicated. Originally bibliometrics was conceived in a quite different way as compared to today though. The cultural paradigm referring to open access and open science is developing also as a reaction to ongoing changes.

La trasformazione dell’editoria digitale e il nuovo big deal

Nel suo annuale rapporto sulle tendenze in atto nelle biblioteche accademiche l’Association of College & Research Libraries (ACRL), una sezione dell’American Library Association, si sofferma su alcune trasformazioni in corso nel mondo dell’editoria scientifica e accademica che riguardano principalmente i grossi colossi editoriali, i quali ormai esercitano un’influenza notevole sul mondo della ricerca scientifica. Nell’agosto del 2017, Elsevier ha comprato Bepress, una piattaforma per la condivisione di materiale di ricerca che promette a chi inserisce i contenuti la massima visibilità nei motori di ricerca e all’interno della piattaforma, favorendo il contatto tra ricercatori tramite l’organizzazione dei materiali in base alla disciplina, al pubblico e al tipo di istituzione, sulla base di un algoritmo da loro creato che «va oltre le raccomandazioni di COUNTER». Lo stesso colosso olandese ha comprato anche SSRN, un’altra piattaforma per la condivisione di pubblicazioni scientifiche, e PlumX, lo strumento precedentemente in mano a Ebsco per la gestione delle metriche tradizionali e alternative. Il principale concorrente di Elsevier è ora diventato Clarivate Analytics, che ha recentemente acquisito l’altro strumento in uso per il calcolo delle citazioni, ben prima della nascita di Scopus di Elsevier, che è Web of Science, evoluzione odierna delle banche dati citazionali dell’ISI (Institute for Scientific Information) nate negli anni Sessanta. Clarivate Analytics è il produttore anche di EndNote, strumento per la gestione dei riferimenti bibliografici e delle citazioni, di Publons, piattaforma per la peer review, e di Kopernio, aggregatore di pubblicazioni e dati da Web of Science, Google scholar, PubMed e altre banche dati. Digital Science, la società che gestisce il sito Altmetric, da cui si possono trarre metriche alternative e social, ha rilasciato un nuovo strumento per la gestione non solo delle pubblicazioni scientifiche e delle citazioni, ma anche di premi, brevetti, trial clinici e altri prodotti della ricerca, chiamato Dimensions.

In sostanza, i grossi editori e produttori stanno spostando la loro attenzione dalla funzione editoriale – e poi di aggregatori e distributori di servizi di accesso ai contenuti scientifici – all’intera «infrastruttura di pubblicazione e agli elementi della comunicazione scientifica», ovvero stanno diventando «fornitori di servizi completi per supportare tutti gli aspetti del flusso della pubblicazione dei ricercatori dalla scoperta alla disseminazione», in un’offerta di servizi che include gli aspetti economici e di finanziamento della ricerca, la raccolta e l’analisi dei dati, la promozione della collaborazione tra istituzioni anche a livello internazionale, la scrittura, la pubblicazione e la promozione del paper o libro o altro prodotto. Poiché il modo in cui i ricercatori trovano e usano l’informazione ha naturalmente un impatto sul mercato, ci si comincia a chiedere se questa non sia la nuova versione del big deal.

Si tratta di un ulteriore grosso cambiamento nel modo in cui il mercato dell’editoria scientifica si pone e con il quale le università e i sistemi bibliotecari che si occupano dell’acquisizione dei prodotti dell’editoria scientifica devono fare i conti. Fino agli anni Novanta il flusso delle acquisizioni era relativamente semplice poiché la biblioteca comprava il libro o la rivista in versione cartacea da un editore o da un distributore. Dalla metà degli anni Novanta la progressiva diffusione dell’editoria digitale ha generato un cambiamento di paradigma significativo, dal possesso all’accesso, dal quale non si è più tornati indietro, inducendo una sostanziale modifica del concetto stesso di “acquisto”. I grossi editori e fornitori di prodotti digitali hanno aggregato le pubblicazioni su piattaforme di loro proprietà, situate sui loro server, e hanno cominciato a vendere alle biblioteche il diritto di “accesso” ai loro prodotti tramite una licenza d’uso. Il possesso “fisico” delle risorse online, ovvero dei file, è stato oggetto di contrattazioni ulteriori e normalmente di pagamenti aggiuntivi ai fornitori. Le biblioteche sono state quindi private del possesso del materiale acquistato e anche della possibilità di costruire un certo tipo di servizi su questo materiale. Reference, disseminazione, discovery, personalizzazione, sono tutti servizi che le piattaforme digitali offrono, senza particolare necessità di coinvolgere i bibliotecari. Si è parlato, a ragione, di disintermediazione. L’ultimo atto di questo processo è quello in corso che vede i grossi editori espandere la loro attività verso tutti gli ambiti della ricerca scientifica, fino a coprire l’intero flusso del lavoro dei ricercatori, dall’idea di base alla disseminazione e comunicazione del risultato finale, e persino la successiva fase di valutazione, un tema divenuto centrale nella vita accademica. Il circolo vizioso della ricerca pubblica è ormai ben noto. La ricerca viene finanziata con fondi pubblici e tra le diverse tipologie di output che produce vi è la pubblicazione scientifica. Tale output viene pubblicato in riviste o altro genere di contenitore (a volte a fronte di un ulteriore pagamento da parte dei singoli ricercatori o dei dipartimenti), che sono di proprietà dei grossi editori commerciali, i quali poi rivendono l’accesso a tali pubblicazioni alle biblioteche delle università, di quelle università pubbliche in cui la ricerca è stata prodotta con fondi pubblici. Certo quello che si paga non è solo l’accesso al contenuto scientifico ma anche tutta una serie di servizi attivabili a partire dalla rivista online (alerting, personalizzazione e servizi push vari), ma in ogni caso i due aspetti non sono scindibili, non è possibile acquisire l’accesso alla rivista senza i servizi a corollario. Uno di questi servizi aggiuntivi è il conteggio delle citazioni e la produzione di indici bibliometrici sui quali si basa oggi la valutazione della ricerca, condotta in Italia dall’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca (Anvur), perlomeno per quanto riguarda i settori delle scienze dure, i cosiddetti “settori bibliometrici” che sono ampiamente inclusi nelle banche dati usate per la valutazione. L’aver stabilito con atto di legge che la valutazione di questi settori “bibliometrici” si debba basare sulle banche dati Scopus e Web of Science non lascia molta scelta ai singoli atenei, costretti ad acquistare queste banche dati per i propri ricercatori. Dunque, ricapitolando, la ricerca pubblica nata nelle università finisce in riviste, libri, banche dati, piattaforme gestiti da editori commerciali che rivendono i contenuti alle università, ma non solo: quegli stessi editori producono anche gli indici usati per valutare la ricerca e vendono alle università le banche dati usate per valutare la ricerca. Basterebbe questo a evidenziare l’anomalia e le distorsioni che si stanno creando nel sistema.

La bibliometria, una scienza per la biblioteca

Eppure la bibliometria è nata in ambito bibliotecario e utilizzata, fin dagli anni Cinquanta, come strumento statistico per raccogliere i dati necessari alla costruzione di una politica di sviluppo delle collezioni e a supportare le altre attività della biblioteca. Il termine “bibliometria” è stato usato per la prima volta nel 1969 da Alan Pritchard con il significato molto ampio di «applicazione di metodi matematici e statistici ai libri e ad altri mezzi di comunicazione». Otto anni dopo, Dieter Schmidmaier specificava i parametri allora correnti che fondavano il concetto di bibliometria sul quale basare la misurazione del “potenziale scientifico” all’interno delle singole discipline:

  1. articoli pubblicati e numero degli autori degli articoli;
  2. citazioni ricevute dagli articoli pubblicati;
  3. impegno di tempo;
  4. numero di persone dello staff coinvolte e grandezza e composizione del gruppo;
  5. fondi concessi o spesi, edifici, dispositivi, impianti e macchinari utilizzati;
  6. andamento visibile e tendenze importanti per lo sviluppo futuro.

E aggiungeva le fonti dalle quali attingere indicazioni per la valutazione bibliometrica:

  1. lavori pubblicati, principalmente in forma di articoli originali, citazioni, compilazioni letterarie e libri di consultazione generale;
  2. rilevazione dell’uso fatto dei lavori pubblicati;
  3. le persone e il risultato del loro lavoro, principalmente in termini di analisi dei tempi impiegati;
  4. interviste a singoli o gruppi di persone;
  5. altre fonti quali registrazioni, compilazioni e liste contenenti i lavori pubblicati.

L’autore parla di “potenziale scientifico” e non di “valore scientifico”, né tantomeno di “valutazione scientifica”, nella consapevolezza che una classificazione dei metodi e delle fonti della bibliometria non possa essere esaustiva perché «si tratta di una disciplina giovane che ogni anno si arricchisce di nuove esperienze» e che altresì non ci possa essere una concezione e un’applicazione uniforme per tutte le discipline poiché la bibliometria è una scienza complessa. Peraltro, continuando il suo discorso sulle specificità delle università tecniche, Schmidmaier sottolinea come prodotti quali i brevetti, i rapporti tecnici, le pubblicazioni aziendali debbano essere tenute in appropriata considerazione per determinare le tendenze e gli sviluppi futuri.

Non si può fare a meno di notare come a quarant’anni di distanza da queste valide osservazioni la situazione sia mutata in maniera sostanziale e abbia avuto delle evoluzioni che di certo a quei tempi erano inimmaginabili. Per esempio, la valutazione bibliometrica ministeriale, come condotta oggi in Italia, poco considera alcune delle suddette tipologie di output della ricerca che già negli anni Settanta apparivano importanti, proprio come lo sono oggi, soprattutto per un’università tecnica, quali i brevetti e i rapporti tecnici. Certamente una ragione primaria della loro minore considerazione è che le banche dati commerciali sulle quali si basa la valutazione non includono in maniera estensiva tali prodotti nei loro conteggi. Inoltre, non si può fare a meno di riflettere su come si possa essere passati da una tale articolata concezione della bibliometria, a considerarla oggi una scienza condensata e appiattita nel significato di una serie di indici forniti da banche dati commerciali, prevalentemente per una sola tipologia di pubblicazione, l’articolo su rivista (in quanto le altre tipologie sono meno presenti nelle banche dati), e basati su un solo parametro, il numero di citazioni. Un’ulteriore considerazione riguarda invece il legame tra la bibliometria e le biblioteche, in particolare nella specifica applicazione della bibliometria all’attività di gestione delle collezioni. Nella misurazione bibliometrica, come definita da Schmidmaier, il parametro del “tempo impiegato” contempla il tempo speso dal ricercatore per produrre un certo articolo, incluso il tempo passato in biblioteca per lo studio e la consultazione delle fonti e dunque ha una grande rilevanza per le biblioteche come indicatore utile a individuare e delineare i bisogni e le abitudini di ricerca. Come risultato dell’analisi bibliometrica, la biblioteca dovrebbe poter agevolmente rilevare le tipologie di materiale bibliografico necessarie a sviluppare raccolte che supportino le tendenze di ricerca in atto e siano in grado di anticipare le esigenze future, in modo da permettere una stratificazione delle collezioni rispetto alle priorità definite. Per esempio, si ragionerà su tipologie come i manuali didattici e i libri di testo, rivolti al sostegno della didattica e non della ricerca, sui brevetti (e le pubblicazioni a essi collegati) o sui rapporti tecnici, per verificare quale spazio e consistenza debbano avere nella raccolte di una biblioteca accademica, sulla base dell’analisi bibliometrica compiuta.

In sostanza, l’analisi bibliometrica, così come originariamente concepita, è uno strumento per la biblioteca per misurare il modo in cui la ricerca scientifica viene registrata e comunicata e si affianca ad altre analisi statistiche per la creazione e lo sviluppo di raccolte aggiornate e in linea con le tendenze di ricerca in atto e gli sviluppi futuri prefigurati. A seconda della finalità specifica perseguita, all’analisi delle citazioni dovranno essere affiancati altri dati:

  1. per l’acquisizione di libri e di periodici: l’analisi dell’uso della biblioteca, l’analisi delle citazioni da letteratura primaria e secondaria, l’analisi delle recensioni, l’analisi dei prestiti interbibliotecari;
  2. per l’uso di libri e periodici: l’analisi delle citazioni da letteratura primaria e secondaria, l’analisi degli accessi alla biblioteca;
  3. per calcolare il rapporto tra acquisizioni e prestiti: l’analisi delle citazioni da letteratura primaria e secondaria;
  4. per un’analisi della permanenza del materiale nelle raccolte e per indicazioni sull’acquisizione di libri usati: l’analisi delle citazioni da letteratura primaria e secondaria, il calcolo dell’emivita (half-life).

L’emivita (half-life) di una pubblicazione misura il numero di anni, a partire dall’anno corrente e andando indietro nel tempo, nei quali è stata pubblicata la metà del totale delle fonti di informazione in una disciplina che sono utilizzabili nell’anno corrente. Un calcolo simile è alla base di uno degli indici bibliometrici sviluppati dalle banche dati ISI (oggi Web of Science) e basati sulle citazioni, in cui però il conteggio non riguarda le fonti della disciplina ma le citazioni ricevute da una pubblicazione, ed è chiamato Cited half-life index. Alla data dell’articolo di Schmidmaier, il nucleo originario che porterà alla nascita delle banche dati ISI era già stato sviluppato da Eugene Garfield, con la creazione nel 1963 della prima versione del suo Science citation index, in cui le citazioni venivano registrate su schede perforate e poi trasferite su nastri magnetici. Schmidmaier vi fa riferimento nel suo articolo ma non si esime dall’elencare alcune criticità di questo genere di analisi quantitative, esponendo una serie di considerazioni davvero lungimiranti, che sarebbero poi state ripetute da numerosi autori nei decenni a venire fino ai nostri giorni, e che evidentemente erano già chiare a quei tempi. L’autore avverte che la crescita quantitativa porta inevitabilmente a cambiamenti qualitativi ed evidenzia alcuni elementi da tenere presente come variabili nell’analisi bibliometrica, quali la variegata distribuzione linguistica delle pubblicazioni, il tempo necessario per valutare l’informazione contenuta nelle pubblicazioni, differente a seconda del tipo di disciplina e dell’argomento, poi la variabile dei tempi di pubblicazione, molto diversi tra il libro e l’articolo su rivista, e il numero degli autori coinvolti in una pubblicazione.

Dopo Schmidmaier, di questi e di altri limiti degli strumenti bibliometrici, soprattutto quando usati in maniera impropria, si è parlato e scritto in abbondanza, e si continua a farlo, soprattutto per quanto riguarda le distorsioni che possono portare nella valutazione della ricerca per la quale sono attualmente ampiamente utilizzati, almeno nel nostro paese, ma non è certo questa la sede per approfondire tali aspetti, per i quali si rimanda quindi all’ampia letteratura disponibile.

La bibliometria in biblioteca

Non solo Dieter Schmidmaier elabora il suo discorso sulla bibliometria a partire dall’uso in biblioteca, ma lo stesso Eugene Garfield nella presentazione del suo Science citation index, come abbiamo detto precursore delle banche dati dell’Institute for Scientific Information (ISI), ha in mente le biblioteche e la costruzione delle loro raccolte e vede l’indice come uno strumento utile per ovviare in maniera efficace alle dinamiche della legge di Bradford o del principio di Pareto. Secondo tali modelli distributivi, una percentuale corrispondente a non più di un terzo delle raccolte bibliotecarie è sufficiente a coprire la parte importante e rappresentativa della scienza pubblicata (normalmente il 20% contro l’80% e dunque il modello viene citato anche come 80/20). Secondo Garfield, le citazioni e i citation index consentono di individuare le pubblicazioni più rilevanti, poiché più citate, che quindi saranno con molta probabilità anche quelle più consultate in biblioteca, e permettono così di definire la core collection della biblioteca.

Da allora la bibliometria è stata usata ampiamente nelle biblioteche accademiche, soprattutto dopo la rivoluzione digitale e dopo la nascita delle banche dati citazionali che agevolano notevolmente il reperimento degli indici costruiti sulle citazioni, e integrata con altri indicatori quali le statistiche d’uso del materiale bibliografico, come strumento per supportare con i dati le decisioni relative alla gestione delle raccolte e quindi in attività quali:

  • individuare le pubblicazioni che costituiscono la core collection di una disciplina;
  • decidere quali riviste, libri, banche dati acquisire e quali no;
  • identificare e sanare le lacune nelle collezioni;
  • cancellare la sottoscrizione a riviste, collane, banche dati;
  • revisionare le raccolte e scartare materiale.

Gli indicatori di tipo bibliometrico utilizzati per tali attività sono diversi, come per esempio:

  • il numero delle citazioni in riferimento alla tipologia di pubblicazione (periodico, libro ecc.);
  • la distribuzione cronologia delle citazioni nel corso degli anni;
  • l’anzianità media delle citazioni;
  • le tendenze della distribuzione delle citazioni nel corso degli anni.

A tali indicatori bibliometrici vengono sovente affiancati altri criteri per supportare le decisioni di politica documentaria, quali:

  • la disponibilità di una pubblicazione ad accesso aperto;
  • la disponibilità o possibilità di accesso alla pubblicazione attraverso altri canali (acquisizioni consortili, banche dati ecc.);
  • il costo della pubblicazione o dell’abbonamento alla rivista o alla banca dati.

Naturalmente l’analisi bibliometrica non può essere applicata a certe tipologie di collezioni come le raccolte di storia locale, le collezioni di supporto diretto alla didattica, le aree cosiddette “non bibliometriche”, ovvero le scienze umane e sociali, per le quali è più difficile rilevare le citazioni, e a particolari tipi di pubblicazioni per le quali non sono disponibili dati bibliometrici, per esempio la letteratura grigia. Le analisi compiute rispetto all’uso delle citazioni ai fini dello sviluppo delle raccolte dimostrano come la legge di Bradford sia, nella maggior parte dei casi, applicabile anche alle citazioni, ovvero dimostrano che poche riviste raccolgono la maggior parte delle citazioni all’interno di un settore disciplinare, ma questa distribuzione presenta una certa irregolarità e non sempre la legge viene soddisfatta.

È comprensibile come nelle biblioteche sia essenziale trovare strumenti apparentemente oggettivi a supporto delle decisioni di politica documentaria ma, com’è ovvio, i numerosi problemi ampiamente sviscerati e discussi da Schmidmaier in avanti relativamente alle banche dati citazionali si trasferiscono totalmente sul processo di gestione delle raccolte (come la differente copertura delle banche dati citazioni per lingue diverse, tipologie di pubblicazioni diverse, editori diversi ecc.), a cominciare dalla quantità non indifferente di errori che sono presenti nelle principali banche dati, rendendo nel complesso un indice bibliometrico non utilizzabile con leggerezza come indicatore di qualità. Nel caso della valutazione ai fini dello sviluppo delle raccolte bisognerà anche tenere in considerazione che la disponibilità in biblioteca di una rivista o altra pubblicazione renderà di certo più facile che questa venga citata dai ricercatori di quell’ateneo. Considerare la citazione come un indicatore dell’uso di una pubblicazione (poiché di fatto di questo si tratta) ai fini dello sviluppo delle raccolte, non fa altro che contribuire ulteriormente alle distorsioni in atto nel mondo della ricerca e della comunicazione scientifica. Distorsioni accentuate dai sistemi di valutazione dei ricercatori e delle università in uso che portano a comportamenti forzati. Per esempio, la necessità di essere citati (per poter essere valutati) in un arco temporale definito induce, soprattutto i giovani ricercatori che devono avanzare nella carriera, a scegliere di pubblicare di preferenza su certe riviste che hanno indicatori bibliometrici più significativi o che rientrano in una classificazione di riviste scientifiche e di optare per la pubblicazione di un articolo (che ha tempi più brevi) piuttosto che di una monografia, al limite pubblicando diversi articoli con i contenuti che potrebbero andare a formare una monografia, anche nelle discipline umanistiche e nelle scienze sociali dove la monografia ha sempre avuto un peso importante. Ma se il numero di ricercatori che pubblica su riviste crescerà rispetto a quanti pubblicano su monografie, allora è certo che anche il numero di articoli di riviste contenuti nelle banche dati citazionali crescerà, a scapito di altre tipologie di prodotti della ricerca, alimentando un ulteriore circolo vizioso. Un discorso analogo si può fare per gli atti di convegni. La loro minore presenza nelle banche dati citazionali – e dunque la difficoltà nell’ottenere gli indicatori bibliometrici – ridefinirà le abitudini rispetto a tali attività. Gli atti di convegno sono spesso pubblicati da piccoli editori locali o da associazioni scientifiche o professionali, di solito nella lingua del paese in cui si tengono (non sempre in inglese dunque), e anche quando sono disponibili in versione digitale risulta difficile trovarle per il fatto che per il digitale non c’è un controllo bibliografico universale. Il convegno rischia quindi di diventare un’attività scientifica secondaria perché non produce indicatori bibliometrici, laddove invece anche per alcune discipline cosiddette bibliometriche i convegni hanno un ruolo centrale e i paper pubblicati negli atti sono a volte più importanti degli articoli pubblicati sulle riviste scientifiche. Si tratta ovviamente di rischi e tendenze da approfondire nelle loro implicazioni presenti e future ma con le quali senz’altro le biblioteche accademiche devono cominciare a confrontarsi nelle loro politiche di sviluppo delle collezioni, soprattutto per avere un ruolo attivo nel porre dei correttivi a tali comportamenti indotti. Peraltro l’apparente agilità dei rilevamenti compiuti tramite gli indici bibliometrici disponibili nella banche dati sta cominciando a far sperimentare la loro applicazione, oltre che nelle biblioteche accademiche, anche nelle biblioteche di pubblica lettura, come strumento per individuare le riviste più lette e gli scrittori più autorevoli in ambito scientifico.

Bibliometria, Open Access e sviluppo delle raccolte

Com’è ben noto, una delle alternative che il mondo accademico, in particolare in ambito bibliotecario, sta tentando di sviluppare per ovviare almeno in parte a tali tendenze che prefigurano un controllo completo da parte dei grossi editori e distributori commerciali di tutte le fasi del flusso della ricerca, oltre a quello già ampiamente esercitato da tempo sui costi e sui modelli di acquisizione delle risorse digitali, è l’Open Access. Nonostante la percezione, per lo meno per quanto avviene nel nostro paese, che si tratti di un movimento strettamente legato al flusso della ricerca di interesse solo per alcuni appassionati bibliotecari, il tema dell’Open Access, oltre ad avere grosse implicazioni culturali generali, riguarda direttamente tutta la biblioteca e in particolare una delle attività di base come la gestione delle collezioni. Ben sappiamo che in Italia non è facile creare delle policy per lo sviluppo delle raccolte nelle biblioteche accademiche in quanto spesso le linee per le acquisizioni vengono dettate dai docenti, ovvero dagli stessi soggetti coinvolti nei meccanismi sopra descritti, non sempre consapevolmente. E proprio l’intersecarsi di tutte le questioni di cui si è finora discusso, bibliometria, raccolte, Open Access, potrebbe rappresentare un punto di convergenza ideale per aprire ampi spazi di collaborazione e condivisione tra la biblioteca, gli altri servizi degli atenei e in generale con la comunità accademica. Nel dibattito internazionale la questione di come inserire l’Open Access nella politica di sviluppo delle collezioni è aperta e vivace. La policy della biblioteca o del sistema bibliotecario viene posta in stretta relazione con i contenuti disponibili negli archivi istituzionali della ricerca, di cui di norma gli atenei sono dotati. I bibliotecari, oltre a selezionare, per quanto possibile, contenuti ad accesso aperto da rendere disponibili tramite i propri cataloghi arricchiti o i propri portali, e a lavorare per introdurre clausole a sostegno dell’accesso aperto nelle contrattazioni con gli editori, come già accade da tempo, dovrebbero farsi parte attiva nei confronti del mondo dell’editoria diventando essi stessi creatori di prodotti editoriali, per esempio con lo sviluppo e la gestione di piattaforme sulle quali pubblicare riviste ad accesso aperto delle quali l’ateneo è editore o collaboratore tramite i suoi docenti, eventualmente in collaborazione con alcuni editori, e sostenendo le open university press. Un’altra strada per sostenere l’accesso aperto nelle politiche documentarie è destinarvi una parte del budget per le acquisizioni, sia analizzando le possibilità di dismissione di riviste a pagamento a favore di riviste open access sia contribuendo al pagamento delle quote di APC (article processing charge, ovvero il costo richiesto dagli editori agli autori o alle istituzioni per pubblicare articoli ad accesso aperto). Le biblioteche devono insomma riacquisire un ruolo centrale nel flusso della produzione e disseminazione della ricerca scientifica cominciando a investire, non solo economicamente, su aspetti che possono sembrare marginali o secondari poiché al di fuori delle attività tradizionali di una biblioteca e di non immediato beneficio per la biblioteca stessa, ma che rappresentano l’unico modo per cambiare «il sistema disfunzionale che abbiamo in questo momento a favore di un sistema che funzioni al meglio». A tal fine, David Lewis dell’Indiana University ha proposto in un recente contributo di destinare il 2,5% del budget delle biblioteche accademiche a supportare la nascita e lo sviluppo di un’infrastruttura per l’accesso aperto e la scienza aperta, un obiettivo raggiungibile però soltanto attraverso la cooperazione tra biblioteche e atenei, e poi con le istituzioni non commerciali a sostegno della scienza aperta. Ma ci sono realtà universitarie in cui la questione dell’Open Access è entrata a pieno titolo nella policy di sviluppo delle collezioni, come nel caso della University of North Texas, che dispone dal 2013 di una Carta delle collezioni per l’Open Access e le risorse nate digitali, strutturata in sezioni che definiscono obiettivi e finalità, criteri di selezione, responsabilità, modalità di accesso, copyright, relazioni con altri servizi quali la sezione biblioteca digitale, insomma una carta che richiama in pieno la struttura canonica della carta delle collezioni.

Naturalmente, è già stato evidenziato come in Italia in realtà le dinamiche relative allo sviluppo delle collezioni nelle biblioteche accademiche seguano altri percorsi. Non sono molte le biblioteche e i sistemi bibliotecari universitari che si sono dotati di una carta delle collezioni. Le acquisizioni non sempre sono un’attività direttamente in mano ai bibliotecari e dunque è difficile proporre e imporre documenti di policy. Tanto più che il tema dell’Open Access attualmente contrasta fortemente con le procedure di valutazione ministeriali che in nessun modo valorizzano e sostengono la scienza aperta, a differenza di quanto avviene in altri paesi, e il tema dunque è spinoso. Molti atenei si sono però dotati di policy per l’Open Access nelle quali è possibile e auspicabile inserire specificamente gli aspetti legati alla gestione delle raccolte. Se le carte delle collezioni delle biblioteche, quando ci sono, non possono includere indicazioni sull’Open Access, possono essere le carte sull’accesso aperto a includere indicazioni sulle raccolte. Di fatto quello che serve innanzitutto è una collaborazione all’interno degli atenei tra i sistemi bibliotecari, gli uffici ricerca, gli uffici comunicazione e gli organi istituzionali dell’ateneo. Ma prima ancora è necessario diffondere la cultura dell’accesso aperto, le motivazioni, le implicazioni, all’interno dei sistemi bibliotecari, tra i bibliotecari, in modo che pervada tutte le funzioni della biblioteca e non rimanga in capo a pochi battaglieri sostenitori.

Solo in questo modo, rafforzando il ruolo del sistema bibliotecario di ateneo tramite la collaborazione interna, e poi esterna con altri atenei, associazioni, istituzioni che già sostengono l’accesso aperto, si potrà cercare di compiere un primo passo per ridefinire le tendenze in atto nel mondo dell’editoria scientifica. Non v’è dubbio che poi un ripensamento degli strumenti e dei metodi per la valutazione della ricerca in Italia contribuirebbe in maniera decisiva a riconfigurare lo scenario della ricerca scientifica.