Vol. 4 n°2 - Collezioni e biblioteche nel XXI secolo

Editoriale

Esistono ancora le collezioni?

Scelta del libro, politica degli acquisti, sviluppo delle collezioni, gestione delle collezioni… sono espressioni che hanno fatto parte per decenni del lessico bibliotecario e sotto queste etichette si sono andati stratificando nel tempo tanti importanti contributi della nostra letteratura scientifica e professionale.

A questi concetti si ricorreva spesso per descrivere la fisionomia di una biblioteca, per definirne la qualità, per valutarne la capacità di offerta. Gran parte dell’attrattività di una biblioteca era determinata da ciò che essa riusciva a mettere a disposizione dei suoi utenti: distinguevamo tra biblioteche più o meno ricche, più o meno aggiornate, più o meno centrate sulle esigenze di un determinato bacino d’utenza.

Non solo perché le collezioni erano l’elemento caratterizzante, l’hardware di un istituto bibliotecario, ma anche perché – almeno nel nostro paese – gli aspetti patrimoniali hanno sempre prevalso sui flussi di attività, sugli aspetti che, per proseguire con la stessa metafora, potremmo definire software. Indubbiamente, ciò era dovuto anche al fatto che in un’era pre-telematica il luogo di conservazione e il luogo di consultazione dei documenti dovevano necessariamente coincidere, e quindi una biblioteca era “quella biblioteca lì”, con la sua sede, i suoi libri, i suoi bibliotecari, il suo regolamento, i suoi utenti. Poi vennero le reti (come infrastruttura di collegamento e come metodo di lavoro), la cooperazione, i cataloghi collettivi, lo sviluppo coordinato delle raccolte, il prestito interbibliotecario. Le biblioteche cominciarono a configurarsi come sportello di accesso a un più vasto universo di offerta, ma i connotati distintivi dei singoli istituti non ne furono annacquati.

Oggi è lecito chiedersi se esiste ancora una politica degli acquisti o una politica delle collezioni, e non è un caso se tali domande riecheggiano in molti dei contributi ospitati in questo fascicolo della rivista. E non sorprende neppure se in alcuni articoli si avanza il sospetto che le biblioteche non scelgano più i libri – uso questo termine per semplicità, ma ovviamente il discorso vale per le riviste, le banche dati e ogni altro tipo di documentazione – e posseggano “tutte le stesse cose”. Le università aderiscono a consorzi e contrattano collettivamente gli abbonamenti a riviste e risorse elettroniche, per cui acquisiscono ciò che serve e ciò che non serve (“tanto costa uguale”, dicono i grandi editori che dominano l’oligopolio internazionale della comunicazione scientifica), anche ciò che non sceglierebbero e che nessuno utilizza; da qualche anno a questa parte la logica degli acquisti “a pacchetto” comincia a penetrare anche nelle biblioteche pubbliche. Tutto ciò arricchisce il potenziale di offerta della singola biblioteca, ma produce anche effetti collaterali che sarebbe sbagliato ignorare.

Viene meno il concetto stesso di “collezione” e, secondo alcuni, perfino l’idea di biblioteca. Sottovaluteremmo la portata della questione se la riducessimo solo a un effetto della transizione dall’analogico al digitale: una biblioteca digitale è pur sempre una collezione di documenti. Ricorrendo ancora una volta a una metafora per cercare di esprimere un concetto non facile da esporre, è come se anche le biblioteche stessero migrando verso lo streaming e il pay per view. Torna di attualità un dilemma che qualche anno fa appassionò i bibliotecari: deve prevalere la logica dell’accesso e non del possesso?

Se è così, cosa distingue una biblioteca dall’altra, se tutte offrono l’accesso a un’unica collezione virtuale e onnicomprensiva? Cosa fa la differenza? Il modo in cui si accede alle collezioni, il modo in cui le diverse tessere del puzzle (collezioni fisiche e collezioni digitali) vengono integrate, il valore aggiunto costituito dalle procedure biblioteconomiche di trattamento dei documenti, il modo in cui le risorse vengono organizzate e descritte in funzione dell’uso, le condizioni e il contesto in cui avviene l’accesso, e quindi anche la componente esperienziale. Ancora una volta, quindi, potremmo dire che la biblioteca è un servizio e non una collezione, se proprio vogliamo dare una risposta alla domanda che ha etichettato il 60. Congresso nazionale dell’AIB (Roma, 22-23 novembre 2018), significativamente intitolato “Che cos’è una biblioteca?”. E, orgogliosamente, potremmo aggiungere che è un servizio pubblico e gratuito di accesso alla conoscenza.

Perfetto. Ma questa potrebbe essere una risposta consolatoria, che rischierebbe di occultare il problema che viene subito dopo. Dobbiamo anche chiederci, infatti, dove porta questa strada. Se la biblioteca diviene “soltanto” un servizio, è lecito domandarsi se essa è la struttura che meglio di tutte potrà offrire anche in futuro l’accesso a una mole crescente di conoscenza registrata nei documenti. La biblioteca riuscirà a reggere la competizione con i padroni della rete, che dispongono di mezzi non paragonabili ai nostri? 

Ma a queste domande cercheremo di rispondere in una prossima occasione. 

Giovanni Solimine