N.2 2018 - Collezioni e biblioteche nel XXI secolo

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La carta delle collezioni tra principi consolidati e nuovi scenari: qualche riflessione

Sara Dinotola

Biblioteca civica “C. Battisti”, Bolzano; saradinotola@gmail.com

Per tutti i siti web l’ultima consultazione è stata effettuata il 28 ottobre 2018.

 

 

 

 

Abstract

Il contributo si focalizza sulla carta delle collezioni, il documento programmatico che, sulla base di un’attenta analisi esterna (comunità di riferimento e utenza reale) e interna (patrimonio esistente), definisce le linee guida da seguire nell’ambito di una gestione consapevole e coerente delle raccolte di una biblioteca o di un sistema bibliotecario. La prima parte dell’articolo, dopo una breve presentazione delle prime teorizzazioni sulla carta delle collezioni in ambito nordamericano, propone una rassegna degli studi italiani riguardanti le questioni connesse con la gestione documentaria e, più nello specifico, con la carta delle collezioni. Successivamente, vengono illustrati i principali mutamenti che stanno interessando il concetto di collezione e della relativa gestione; in conclusione si propone una riflessione sulla funzione e sui contenuti della carta delle collezioni all’interno del nuovo scenario che si sta delineando.

English abstract

The article focuses on the collection development policy statement, that, on the basis of an external (country and user profile) and of an internal evaluation (stock profile), sets out parameters for collection development and management in a library or in a library system. The first part of the article, after a brief presentation on the first reflections on collection development policy statement in the USA, offers a review of Italian studies on collection management and on the collection development policy statement. Then the paper illustrates the main changes that are involving the concept of library’s collection and of collection development and management; in conclusion it proposes a reflection on the function and contents of the collection development policy statement within the new scenario that is emerging.

Introduzione

Il presente contributo raccoglie alcune delle riflessioni scaturite, oltre che dallo studio dettagliato della letteratura professionale sullo sviluppo delle raccolte propedeutico alla mia ricerca di dottorato, anche da due esperienze che ho avuto modo di condurre di recente. Mi riferisco innanzitutto al lavoro, ancora in corso, finalizzato all’elaborazione della carta delle collezioni della Biblioteca civica di Bolzano presso la quale presto servizio e, in secondo luogo, alla docenza che ho svolto sia in occasione di corsi organizzati da tre sezioni regionali dell’AIB, sia nell’ambito di percorsi formativi intrapresi da alcuni sistemi bibliotecari italiani al fine di arrivare alla stesura di questo importante documento programmatico.

La prima parte dell’articolo, dopo una breve presentazione relativa alle prime teorizzazioni sulla carta delle collezioni in ambito nordamericano, propone una rassegna degli studi italiani riguardanti le questioni connesse con la gestione documentaria e, più nello specifico, con la carta delle collezioni. Successivamente, vengono illustrati i principali mutamenti che stanno interessando il concetto di collezione e della relativa gestione; mentre in conclusione si propone una riflessione sulla funzione e sui contenuti della carta delle collezioni all’interno del nuovo scenario che si sta delineando.

La carta delle collezioni nella letteratura professionale italiana

Le teorizzazioni sulla carta delle collezioni hanno avuto origine e poi sono divenute centrali nel dibattito relativo al tema delle raccolte soltanto quando si è ritenuto opportuno spostare l’interesse dalle sole fasi di selezione e ordine a un complesso di attività più ampio, denotato con l’espressione collection development e comprendente l’individuazione dei bisogni degli utenti reali e potenziali, l’analisi delle raccolte esistenti, l’accurata suddivisione del budget disponibile, la definizione di politiche di sviluppo documentario (anche in ottica cooperativa). Al fine di programmare e sistematizzare tutte queste fasi, è stata giudicata sempre più necessaria la stesura di un documento scritto, per l’appunto la carta delle collezioni, in cui condensare i risultati delle analisi esterne e interne svolte e raccogliere le linee guida da seguire durante lo sviluppo documentario.

Questo rilevante cambiamento è avvenuto per la prima volta in area nordamericana durante gli anni Settanta del secolo scorso, quando crebbe, anche in seguito alla diminuzione dei fondi per gli acquisti nel contesto della crisi economica generale, l’esigenza di una maggiore attenzione nei confronti della programmazione dello sviluppo delle raccolte, che sarebbe dovuta sfociare nel collection development policy statement.

Diversi autori in quel periodo ritennero utile approfondire tali questioni, evidenziando l’assenza in molte biblioteche di documenti scritti assimilabili a una carta delle collezioni e rilevando che la maggior parte di quelli esistenti era troppo generica e si presentava come un’ampia dichiarazione d’intenti, difficile da tradurre in precise scelte operative. Le motivazioni principali erano individuate non nell’opposizione dei bibliotecari a questa pratica, bensì nell’inerzia o nella difficoltà a elaborare un documento scritto, a causa di scarse indicazioni in merito. Di conseguenza, si moltiplicarono in quel periodo i contributi che intendevano precisare gli scopi e i contenuti di un policy statement.

L’interesse per la carta delle collezioni si rafforzò in ambito nordamericano a partire dagli anni Ottanta, quando si compì un’ulteriore evoluzione concettuale e terminologica negli studi dedicati alle raccolte: il fulcro divenne il collection management, termine ombrello sotto il quale sono compresi le attività correlate con il collection development e un ampio insieme di decisioni riguardanti la conservazione e il mantenimento delle raccolte, così come la revisione e lo scarto. La carta delle collezioni era considerata come il principale strumento per aiutare i bibliotecari a concretizzare il nuovo concetto di gestione consapevole delle raccolte.

Con la diffusione delle risorse elettroniche si è consolidato l’assunto secondo cui, in ogni tipologia di biblioteca e indipendentemente dal formato documentario, il collection development and management debba essere condotto in base a un approccio strategico esplicitato all’interno di documenti programmatici rigorosi.

Passando all’Italia, bisogna rilevare che soltanto negli anni Novanta si sono registrati i primi contributi che hanno sostenuto con forza l’importanza della carta delle collezioni. Non a caso, si tratta delle stesse opere con le quali si è sancito il superamento anche nel nostro paese dei concetti troppo limitati di selezione e acquisizione, a favore di una visione più organica e unitaria delle attività legate all’accrescimento e al mantenimento delle raccolte.

La prima, in ordine cronologico, è rappresentata dal saggio di Madel Crasta apparso nel 1991, che per la prima volta in Italia si è soffermato sulla costruzione delle raccolte, intesa come «la direzione che si imprime allo sviluppo delle risorse e dei servizi, [che] abbraccia un arco piuttosto vasto di conoscenze che confluiscono nella scelta dei documenti, nei criteri, nelle fonti d’informazione e nella responsabilità decisionale delle acquisizioni». Secondo l’autrice, alla base di questo lavoro deve porsi l’individuazione di priorità attraverso uno «sforzo programmatico che potrebbe esprimersi nella produzione di documenti in cui si delinei la politica di sviluppo in stretto rapporto con il contesto e il ruolo specifico che la biblioteca è chiamata a svolgere».

L’altro contributo fondamentale è quello di Giovanni Solimine, che ha spostato l’attenzione sul concetto ancora più ampio di gestione delle raccolte (sia cartacee sia elettroniche), inteso come «processo organico e continuo». Secondo lo studioso sarebbe stato indispensabile abbandonare un approccio solo culturale-erudito, in favore di uno «scientifico, fondato sugli strumenti della biblioteconomia moderna». Inoltre, Solimine auspicava che ogni biblioteca si dotasse di tre distinti documenti programmatici, ovvero la carta delle collezioni, il piano annuale di sviluppo delle collezioni e il protocollo di selezione dei libri.

Prima della pubblicazione dei contributi appena ricordati, la carta delle collezioni era una vera rarità nel contesto bibliotecario italiano: un’inversione di tendenza, seppur graduale e incompleta, iniziò nel periodo immediatamente successivo, quando furono pubblicati altri contributi che si sono inseriti nel solco della biblioteconomia gestionale e quando biblioteche di diversa tipologia si dedicarono all’elaborazione di tale documento. La maggior parte dei progetti portati avanti con tale finalità e documentati in letteratura si colloca nei primi anni del Duemila, come emerso durante il convegno “Current issues in collection development: Italian and global perspectives” tenuto a Bologna nel 2005, durante il quale furono presentati la carta della nuova biblioteca Sala Borsa di Bologna; il Progetto delle collezioni, portato a termine nel 2001, di una grande biblioteca pubblica non ancora aperta, ossia la Biblioteca europea di informazione e cultura (BEIC) di Milano, nonché l’esperienza del gruppo di lavoro coordinato dal Servizio biblioteche della Provincia di Milano che ha portato alla definizione di alcune indicazioni, sia teoriche che pratiche, finalizzate in senso generale a «individuare gli elementi, le procedure e le strategie essenziali per costruire un patrimonio documentario a misura di lettore, secondo la mission propria della biblioteca pubblica di base» e, in senso più stretto, all’impostazione di una carta delle collezioni.

Un lavoro più recente, che ha ripreso esplicitamente i principi e l’impostazione metodologica proposti dall’esperienza ricordata poc’anzi, è quello condotto nell’ambito del Sistema bibliotecario dell’Ovest Como: la carta delle collezioni che ne è scaturita, parzialmente riportata nel volume edito dall’AIB nel 2014, rappresenta tuttora, a mio avviso, uno dei documenti più completi, approfonditi e metodologicamente validi nel panorama italiano.

In riferimento al contesto accademico, occorre citare la carta delle collezioni della Biblioteca di scienze sociali dell’Università di Firenze, pubblicata nel 2012, alla cui base è stato posto un «percorso di mappatura e descrizione di tutti i nuclei documentali». Per permetterne un costante aggiornamento, la carta non si presenta come unico file di testo, ma è costituita da più pagine HTML collegate da tra di loro da appositi link.

Infine, anche se si esce dai confini italiani, è degno di nota il lavoro di analisi e valutazione delle collezioni e della comunità (non solo accademica) in corso presso la Biblioteca universitaria di Lugano, che sarà propedeutico alla stesura della carta delle collezioni.

Nella breve rassegna di carte delle collezioni appena presentata ho inteso portare all’attenzione i contributi della letteratura professionale in cui oltre alla descrizione della struttura o alla pubblicazione (parziale o integrale) di tali documenti programmatici siano state fornite anche indicazioni teorico-metodologiche. Naturalmente i progetti appena citati non sono gli unici che in Italia hanno portato alla stesura di una carta delle collezioni; infatti negli anni seguenti sono state condotte diverse esperienze, ma senza dubbio in modo discontinuo. Nell’ambito di una ricerca condotta sul web nel 2016 dalla già citata Biblioteca di scienze sociali dell’Università di Firenze – che ha aggiornato una ricognizione effettuata sette anni prima dall’AIB – sono state rintracciate trenta carte delle collezioni. Si tratta di un dato poco confortante, che è indice di una scarsa diffusione di questo strumento nel panorama italiano e, di conseguenza, dei principi della biblioteconomia gestionale a esso sottesi. Tuttavia, per ottenere dati più aggiornati e attendibili sarebbe opportuno condurre un’indagine più capillare, contattando in modo diretto le biblioteche, in quanto le carte delle collezioni in molti casi risultano di difficile reperibilità all’interno dei siti istituzionali o non sono ancora state rese pubbliche. Al di là del dato numerico, sarebbe utile analizzare dettagliatamente tali documenti e capire, anche tramite il confronto con le singole biblioteche che li hanno elaborati, quanto essi si siano rivelati utili nel lavoro concreto di sviluppo e gestione delle raccolte e se vengano considerati come strumenti dinamici, da adattare periodicamente ai cambiamenti in atto all’esterno e all’interno della biblioteca. Infine, potrebbe essere interessante cercare di individuare le motivazioni che hanno portato moltissime biblioteche italiane a non dotarsi ancora di una carta delle collezioni, nonché far emergere eventuali progetti in corso finalizzati alla stesura di tale documento. Proprio con questi intenti, sto conducendo un’indagine, tramite la somministrazione di un questionario online alle sole biblioteche di pubblica lettura, i cui risultati verranno illustrati in una prossima pubblicazione.

Intanto, è possibile affermare che nel nostro paese stiamo assistendo a una rinnovata attenzione, sia sul piano teorico che pratico, verso il tema dello sviluppo e della gestione documentaria e, più in particolare, anche della carta delle collezioni. L’esigenza emergente è quella di soffermarsi sul concetto stesso di collezione e sul valore e sulla funzione della carta, alla luce delle attuali tendenze, che verranno delineate nel prossimo paragrafo.

Collezione e gestione delle collezioni: concetti in evoluzione

Se si parte dal presupposto che la finalità principale della carta delle collezioni consiste nel fornire ai bibliotecari delle linee guida chiare e condivise per ridurre la discrezionalità delle scelte nella fase di sviluppo, monitoraggio e revisione delle raccolte, appare chiaro che prima di intraprendere un progetto per l’elaborazione di tale documento è imprescindibile la riflessione sul concetto di collezione e su quello della relativa gestione, che stanno vivendo una fase di significativi cambiamenti.

Innanzitutto va rimarcato che la collezione tende a essere più fluida rispetto al passato, meno unitaria e in continua evoluzione rispetto alla tradizionale raccolta, che si identifica con i documenti su supporti fisici, conservati all’interno della biblioteca. I principali fattori, tra loro strettamente interconnessi, che stanno contribuendo, da almeno un ventennio nelle biblioteche accademiche e più di recente in quelle pubbliche, a tale mutamento si possono individuare sia nella crescente affermazione delle risorse elettroniche ad accesso remoto all’interno dell’offerta documentaria delle biblioteche e, allo stesso tempo, nel permanere di una situazione ibrida, sia nelle caratteristiche del mercato editoriale, nella molteplicità dei canali e dei metodi di acquisizione dei documenti (sia a stampa che elettronici), nonché delle logiche a essi sottese.

In riferimento al primo aspetto, è ampiamente noto che le risorse elettroniche rappresentano ormai una componente imprescindibile delle raccolte delle biblioteche accademiche. Mentre gli e-journal e le banche dati hanno trovato più velocemente un’ampia diffusione, il percorso compiuto dagli e-book è stato più graduale ed è ancora in corso. Tuttavia negli ultimi anni si sta assistendo a maggiori investimenti per l’acquisizione degli e-book e a una conseguente crescita del numero di titoli in formato elettronico messi a disposizione degli utenti, come confermano i dati di diverse ricerche, seppur riferite principalmente al contesto nordamericano. Secondo un’indagine del «Library journal», in media ogni biblioteca accademica statunitense nel 2016 ha messo a disposizione 47.193 e-book, a fronte dei 35.500 del 2012, dei 20.131 del 2011 e dei 16.666 del 2010; dunque il numero degli e-book fruibili dagli utenti è cresciuto del 33% nel periodo 2012-2016. Ciononostante, la stessa ricerca ha evidenziato che nel 2016 mediamente il numero dei volumi a stampa posseduti dalle biblioteche accademiche statunitensi risultava essere due volte e mezzo maggiore rispetto a quello degli e-book. Tale disparità è ancora più evidente se si considerano determinati ambiti disciplinari e linguistici, in cui le monografie in formato elettronico tendono ad affermarsi più lentamente.

Passando al contesto delle biblioteche pubbliche, sicuramente i documenti cartacei (libri e periodici) e quelli su altri supporti fisici (si pensi a DVD-ROM, CD-ROM musicali, audiolibri ecc.) continuano a essere di gran lunga preponderanti rispetto ai documenti elettronici ad accesso remoto, anche in termini di acquisizioni correnti, ma l’attenzione verso questi ultimi è maggiore rispetto a pochi anni fa. Negli Stati Uniti nel 2015 il 94% delle biblioteche di pubblica lettura offriva e-book, contro l’89% del 2012 e il 72% del 2010; anche la dimensione di tali collezioni è cresciuta notevolmente, passando da una media di 813 titoli per biblioteca nel 2012 a una pari a oltre 14.000 nel 2015.

Guardando all’Italia, sono emblematici, a tal proposito, i dati relativi al numero delle biblioteche pubbliche che offrono ai propri utenti il servizio di digital lending, tramite piattaforme quali MLOL o ReteINDACO. Ad esempio, attualmente aderiscono a MLOL, nato nel 2009, oltre 5.500 biblioteche (in prevalenza pubbliche) situate in 19 regioni italiane, a fronte delle circa 4.000 del 2014; mentre finora hanno scelto ReteINDACO, attiva dal 2013, 3.000 biblioteche di 18 regioni.

Tuttavia nelle biblioteche pubbliche si tende spesso a considerare le collezioni non in modo integrato e unitario, ma a distinguere al loro interno tra raccolte tradizionali e raccolte ad accesso remoto. Ciò è dovuto principalmente alla diversità dei canali per la loro acquisizione, infatti gli aggregatori sono specializzati soltanto nella fornitura delle diverse tipologie di documenti elettronici (e-book, audiolibri, periodici e quotidiani, video, musica ecc.): dunque l’attività stessa di selezione e acquisizione svolta dal bibliotecario risulta sdoppiata. Al contrario, le biblioteche accademiche hanno la possibilità di rivolgersi a fornitori (siano essi editori, aggregatori o distributori) che sono in grado di mettere a disposizione sia risorse cartacee sia elettroniche e di gestire gli ordini di entrambe tramite un’unica piattaforma, secondo la logica del one-stop-shop.

Un ulteriore elemento di destabilizzazione rispetto al passato, che si riscontra in ogni contesto bibliotecario, riguarda il modo in cui le risorse vengono selezionate e acquisite. Se per i documenti su supporti fisici si impiegano i tradizionali metodi – ossia ordine diretto, standing order e approval plan – per le risorse elettroniche è possibile ricorrere anche ad altre metodologie, che comportano una diversa impostazione del lavoro e il ripensamento del rapporto delle biblioteche sia con i fornitori sia con gli utenti.

I casi più emblematici sono rappresentati dal big deal e dalla patron-driven-acquisition (PDA). Il primo, ideato per gli e-journal e poi esteso anche agli e-book, permette di accedere ad ampi pacchetti di titoli, che risultano in molti casi preconfezionati dall’editore o dal fornitore; dunque il bibliotecario perde l’opportunità di modellare l’offerta documentaria tramite il processo di selezione svolto sulla base di criteri predefiniti.

La PDA, invece, è basata sulla predisposizione da parte della biblioteca di un profilo in cui sono inseriti parametri formali e di soggetto: il fornitore individua dei titoli che rispondono a questi criteri e rende visibili agli utenti, tramite la propria piattaforma o l’OPAC della biblioteca, le relative descrizioni bibliografiche. Se tra questi titoli l’utente individua un e-book di suo interesse, egli può chiedere di accedere a tale risorsa che non fa ancora parte della collezione della biblioteca: questo metodo può dare luogo a un noleggio (accesso temporaneo per l’utente richiedente) oppure all’acquisto definitivo, solitamente in seguito alla mediazione del bibliotecario. Se si ricorre alla PDA non tutti i libri pertinenti con i parametri formali e di soggetto inseriti nel profilo vengono poi acquisiti; ovvero si assiste al prevalere della logica just in time su quella just in case. Proprio per questo motivo, la validità del modello della PDA non è universalmente riconosciuta dalla comunità biblioteconomica: c’è sia chi sostiene che tale metodo impedisca alle biblioteche, soprattutto accademiche, di realizzare la loro ampia missione educativa e di ricerca, sia chi ritiene che gli acquisti dettati dal bisogno immediato degli utenti porteranno nel tempo a cambiare la natura delle collezioni nelle diverse tipologie bibliotecarie, determinando, fra l’altro, uno sbilanciamento tra le varie aree disciplinari e uno sviluppo casuale e incompleto.

Durante i primi anni della diffusione delle risorse elettroniche nelle biblioteche accademiche sembrava che i nuovi metodi, basati, come visto, su logiche diverse rispetto a quelle tradizionali, potessero prendere il sopravvento; mentre più di recente si sta convergendo verso l’utilizzo combinato di metodi consolidati e di metodi nuovi anche per l’acquisizione delle risorse elettroniche. Quindi si tende a non considerare più le varie metodologie e le logiche a esse sottese in termini oppositivi, bensì integrativi, con l’obiettivo di far emergere, a seconda delle necessità, i punti di forza di ognuno di essi. Questo approccio, definito in letteratura come modello sfumato (nuanced model) o approccio stratificato (layered approach), risulta ormai quello prevalente nel contesto accademico.

Da una ricerca condotta nel 2016 da ProQuest, che ha coinvolto 460 biblioteche delle università (di cui il 73% del Nord America, l’11% dei paesi europei e il 9% del resto del mondo) è emerso che il 70% di queste istituzioni ricorre contemporaneamente a più metodi per l’acquisizione delle risorse elettroniche e, in modo particolare, degli e-book.

La possibilità di integrare più metodi di acquisizione si sta facendo strada anche nelle biblioteche di pubblica lettura. OverDrive, il principale distributore di e-book, audiolibri, musica e video negli Stati Uniti e in tutto il mondo anglofono, da qualche anno, accanto al firm order, consente l’impiego degli standing order, secondo cui avvengono degli acquisti automatici sulla base delle cosiddette smart list (in cui si includono vari criteri, tra cui autori, serie, editori, novità, contenuti più popolari), del pay-per-view e della PDA.

Gli aggregatori italiani, MLOL e ReteINDACO, offrono la possibilità di ricorrere alla modalità del pay-per-view, mentre solo MLOL anche alla PDA e al prestito interbibliotecario digitale (PID).

La diffusione delle risorse elettroniche e dei nuovi metodi di acquisizione all’interno di questo approccio misto, quindi, sta gradualmente determinando un minor ricorso al tradizionale ordine titolo per titolo: ciò, contrariamente ai timori iniziali paventati da alcuni studiosi, non sta comportando la perdita di responsabilità del bibliotecario nella fase di acquisizione, ma sta accentuando un cambiamento già in atto nello sviluppo e nella gestione delle raccolte. Il tempo sottratto alle attività di routine (individuazione e selezione dei titoli, ordine) può essere dedicato alla ricerca di condizioni di accesso migliori e più convenienti in collaborazione con i fornitori; all’affinamento dei profili documentari che stabiliscono i parametri da seguire in fase di sviluppo; alla valutazione delle raccolte, ricorrendo a una molteplicità di approcci e di dati. In un tale contesto i bibliotecari possono potenzialmente concentrarsi in misura maggiore, preferibilmente in chiave cooperativa con partner esterni, anche sulla funzione di mediazione e sull’implementazione o sull’acquisto di discovery tool sempre più raffinati e di altri strumenti o servizi per aumentare la visibilità delle risorse e permetterne un uso maggiore e più consapevole, perché la sola disponibilità di contenuti non è sufficiente. Michael Levine-Clark ricorda che tutto ciò sta diventando fondamentale quanto le collezioni stesse, infatti «the value that they add to that content is now just as important as the content itself».

Negli ultimi anni all’interno della comunità biblioteconomica si sta facendo strada la necessità di valorizzare un altro compito fondamentale del bibliotecario: egli non deve occuparsi soltanto di sviluppare le collezioni e favorire l’accesso ai documenti, ma deve anche stimolare il processo attivo di creazione e gestione condivisa della conoscenza.

Uno dei più convinti e appassionati sostenitori di questa tesi è David Lankes, che all’interno del suo Atlante della biblioteconomia moderna propone il concetto di biblioteca partecipativa, «cioè la biblioteca che rende partecipi i suoi membri [espressione lankesiana che sostituisce il termine “utenti” considerato passivo] nella ideazione e gestione dei servizi». In tale contesto il bibliotecario può esercitare appieno la sua missione, che consiste nel migliorare la società, facilitando la creazione della conoscenza nella sua comunità di riferimento. Considerando che la conoscenza si genera solo se si attivano delle conversazioni, secondo lo studioso statunitense il bibliotecario deve diventare un facilitatore di conversazioni. In riferimento alle collezioni, Lankes sostiene che l’attenzione deve essere spostata dai documenti alle conversazioni, in quanto «le collezioni di manufatti hanno valore solo se la comunità li utilizza». Ciò non significa che le raccolte siano destinate a scomparire, ma lo scopo ultimo dello sviluppo documentario deve essere di tipo strumentale, ovvero supportare i bibliotecari a esercitare la loro missione all’interno della specifica comunità. In particolare, Lankes suggerisce di porre al centro delle politiche di sviluppo delle raccolte le persone, al fine di poter comprendere i loro bisogni e soddisfarli tramite le risorse documentarie, innescando, così, nuove conversazioni e la creazione di nuova conoscenza.

Nonostante la grande ambizione e l’alterna fortuna del pensiero di Lankes – che in ogni caso ha avuto il merito di invitare i bibliotecari a interrogarsi e a riflettere profondamente sul senso del proprio lavoro – è possibile rintracciare in molte esperienze, realizzate anche indipendentemente dal richiamo esplicito alla sua teorizzazione, i segni di un nuovo approccio che valorizza la creazione condivisa della conoscenza in biblioteca.

Un primo esempio, riscontrabile nelle biblioteche accademiche, è rappresentato dai depositi istituzionali ad accesso aperto: la biblioteca svolge un vero e proprio servizio di editoria digitale, si occupa dell’aspetto redazionale dei documenti, crea e gestisce i depositi; mentre i principali utenti, ossia i docenti, i ricercatori e gli altri membri delle facoltà, collaborano a questo processo in quanto autori dei contenuti da depositare (articoli, monografie o capitoli di esse, letteratura grigia, materiali didattici). Dunque un ulteriore compito fondamentale della biblioteca è quello di rendere accessibili e ricercabili da tutti, anche all’esterno dell’istituzione stessa, le risorse create al proprio interno, in collaborazione con la comunità di riferimento: ciò rappresenta la concretizzazione del concetto di biblioteca inside-out descritto da Lorcan Dempsey e contrapposto a quello tradizionale di outside-in, in cui i documenti prodotti all’esterno sono selezionati dalla biblioteca e messi a disposizione dei propri utenti.

Altre esperienze che vanno in tal senso si riscontrano sia nell’ambiente delle biblioteche accademiche sia di quelle pubbliche: bibliotecari e utenti diventano creatori di contenuti utilizzando blog, reti sociali, gruppi di discussione e partecipando ai laboratori creativi. Un particolare fenomeno su cui la letteratura professionale, soprattutto nordamericana, si sta soffermando da qualche anno è rappresentato dall’apertura di makerspace in biblioteca con lo scopo di mettere a disposizione degli utenti strumenti tecnologici, altrimenti inaccessibili a causa degli alti costi (come stampanti e scanner 3D, tagliatrici laser, plotter da taglio, computer di ultima generazione), per consentire agli utenti, individualmente o in gruppo, di fabbricare oggetti da loro ideati e progettati, non limitandosi, così, a utilizzare passivamente i servizi e le risorse della biblioteca. I bibliotecari, principalmente quelli statunitensi, sono ormai pienamente convinti che la presenza di tali laboratori e la rete che si crea per garantirne il funzionamento – basata sulla collaborazione tra bibliotecari, esperti del settore, volontari e utenti – aiutino le biblioteche pubbliche, scolastiche e accademiche a raggiungere uno dei loro obiettivi primari, ovvero il valore sociale che «si misura nella capacità di sviluppare le cosiddette “competenze del XXI secolo”, e assieme facilitare il legame sociale tra le persone, incrementare lo spirito collaborativo e migliorare le condizioni di apprendimento».

Alla luce dei fenomeni appena descritti, che molto probabilmente tenderanno a diffondersi maggiormente e a diversificarsi, è possibile affermare che la gestione delle raccolte in un prossimo futuro non si occuperà più soltanto del complesso organico di attività strettamente connesse tra loro (comprendenti selezione, acquisizione, conservazione, valutazione e scarto) di cui si è tradizionalmente dato conto all’interno della carta delle collezioni. Infatti, si sta già assistendo a un ampliamento del concetto di gestione delle collezioni che si dirige verso la gestione dell’intero flusso della conoscenza, ossia del knowledge management, in quanto processo unitario che va dalla creazione dei contenuti all’accesso. La prospettiva da seguire è inoltre quella di una biblioteca che ponga al centro le persone, che le ascolti, le conosca e le aiuti a «vivere meglio e aumentare il livello di benessere sociale, offrendo ogni giorno gli strumenti per conoscere e comprendere la società». Dunque, la gestione delle collezioni (pur senza dimenticare i principi della biblioteconomia gestionale), dovrà partire dal presupposto sottolineato da Chiara Faggiolani e Anna Galluzzi secondo cui «le collezioni e i servizi acquistano significato solo all’interno dell’uso che ne fanno le comunità di riferimento».

La carta delle collezioni nel nuovo scenario

Una volta individuate le principali tendenze evolutive in atto che stanno portando a una trasformazione delle collezioni e del loro processo di sviluppo e gestione, risulta naturale chiedersi quale funzione possa continuare a svolgere la carta delle collezioni.

Come detto, le raccolte appaiono connotate da una maggiore varietà e complessità, inoltre nel processo della loro acquisizione e gestione si può ricorrere a canali e a metodi differenti e vari soggetti, oltre ai bibliotecari, rivestono ruoli di rilievo. Il rischio è che tutto ciò possa determinare uno stato di confusione e che le scelte vengano prese in modo casuale, a seconda della convenienza del momento, senza una linea definita a priori. Al fine di governare questa complessità emergente, risulta fondamentale prestare grande attenzione alla fase programmatica per definire una politica documentaria coerente e rigorosa, che consenta di conciliare elementi e logiche in apparenza opposti (ad esempio cartaceo e digitale, just in case e just in time), di ottimizzare l’utilizzo delle risorse economiche e di andare veramente incontro alle esigenze degli utenti.

L’obiettivo dovrebbe consistere nello stabilire le priorità, individuando le aree disciplinari in cui continuare a seguire una logica just in case e quelle in cui si possono adottare metodi che guardano maggiormente ai bisogni immediati degli utenti. A tal proposito, in letteratura si distingue tra core collection – ossia quella essenziale che la biblioteca deve necessariamente mettere a disposizione –, important to have collection e nice to have collection.

In uno scenario di tipo ibrido come quello attuale, sarebbe molto utile stabilire la proporzione (anche in termini di budget da impiegare) tra l’acquisizione delle risorse cartacee e su altri supporti fisici e quella delle risorse elettroniche. Naturalmente, tale proporzione è destinata a mutare, più o meno velocemente, soprattutto sulla base dell’offerta editoriale disponibile, dei business model proposti dai fornitori e delle necessità degli utenti.

Andrebbe poi definito il peso da attribuire a ognuno dei metodi scelti per l’acquisizione delle risorse, sia cartacee sia elettroniche, una volta che essi siano stati attentamente vagliati dai bibliotecari. Bisognerebbe stabilire per quali aree disciplinari adottare i vari metodi e quanta parte del budget dedicare a ognuno, anche sulla base delle riflessioni relative al livello di approfondimento da mantenere o da raggiungere per ogni segmento di collezione.

Tale politica documentaria dovrebbe essere resa esplicita e trasparente, dunque la sede più adatta appare essere proprio la carta delle collezioni, il documento programmatico per eccellenza. Essa dovrebbe diventare lo strumento in grado di ricomporre la frammentarietà, di definire il migliore bilanciamento possibile tra i vari metodi di acquisizione, accrescendone la complementarietà, di ripristinare una visione olistica della biblioteca e delle sue raccolte, definendo una traiettoria da seguire nello sviluppo e nella gestione documentaria.

Non bisogna dimenticare, però, che la definizione di tali linee guida, oggi come nel passato, è il frutto di un percorso molto lungo e impegnativo, all’interno del quale sono imprescindibili la profonda conoscenza delle dinamiche del mercato editoriale e dei cambiamenti in atto, così come l’attenta formulazione della mission specifica della biblioteca, l’analisi del contesto di riferimento e delle collezioni esistenti.

In particolare, relativamente all’analisi esterna, i bibliotecari hanno a disposizione le tecniche e i metodi d’indagine mutuati dalle scienze sociali, il cui impiego è stato già fortemente suggerito in letteratura e adesso è ancora più necessario, soprattutto se si intende fare propri e concretizzare i principi della biblioteconomia sociale prima richiamati. Oltre a elaborare il profilo di comunità, che permette di delineare un’immagine più o meno approfondita delle principali caratteristiche del territorio, della comunità locale e dei potenziali pubblici della biblioteca, risulta di grande utilità procedere anche all’analisi dei bisogni, ricorrendo a questionari e interviste qualitative dirette all’utenza potenziale e reale. Come sottolineato in più occasioni da Chiara Faggiolani, l’analisi deve diventare ancora più ampia ed è opportuno «arricchire la cassetta degli attrezzi dei bibliotecari con strumenti nuovi, che certo non sostituiscono i precedenti, ma che semmai possano essere efficacemente integrati a seconda delle necessità e degli oggetti di indagine».

Anche l’analisi e la valutazione delle collezioni esistenti aiutano i bibliotecari a definire le priorità dello sviluppo e della gestione documentaria. Tradizionalmente, in fase di analisi quantitativa, l’attenzione si è focalizzata da un lato sui dati centrati sulla collezione (numero di documenti posseduti, età, incremento e scarto), dall’altro su quelli centrati sull’utenza (tasso di circolazione, costo per uso, costo per utente). Mentre il principale metodo per l’analisi qualitativa delle raccolte, da circa quarant’anni, è rappresentato da Conspectus che, nelle sue diverse versioni, può fornire un valido aiuto per individuare l’attuale livello di approfondimento delle raccolte, o meglio dei relativi segmenti, e programmare i livelli da raggiungere, dando anche maggiore valore ai dati quantitativi.

Rispetto al passato, soprattutto nel contesto delle biblioteche accademiche angloamericane, per la valutazione delle collezioni si tende oggi a ricorrere a ulteriori approcci, che vanno a integrarsi con quelli consolidati. Alla base di ciò si pone la consapevolezza che, per poter prendere le delicate decisioni relative al collection development and management a cui si è fatto poc’anzi riferimento e per poter capire quanto ogni segmento della raccolta sia rilevante e come vada sviluppato in futuro, è indispensabile una conoscenza approfondita del contesto operativo della biblioteca e delle priorità strategiche dell’università all’interno della quale essa si inserisce. Dunque, può risultare utile optare per un approccio misto, che tenga conto anche dei dati di tipo bibliometrico (come l’analisi delle citazioni, ad esempio in Scopus, e delle parole chiave utilizzate in fase di ricerca dagli utenti istituzionali) e si serva degli strumenti dell’analisi qualitativa, tra cui focus group e interviste, per rafforzare il legame tra lo sviluppo delle collezioni e i bisogni dell’utenza. Il bibliotecario deve pensare e agire come un ricercatore capace di analizzare i molteplici dati raccolti grazie a questo approccio misto e fortemente analitico.

L’obiettivo di questa combinazione di metodi e tecniche è quello di andare oltre la mera rilevazione dei dati statistici e del calcolo del costo per uso delle risorse e arrivare a una comprensione più profonda del valore delle raccolte, sia cartacee sia elettroniche, all’interno di una determinata comunità, anche alla luce dell’utilizzo che questa può farne per soddisfare le proprie priorità di ricerca, insegnamento e apprendimento. Poiché tali priorità cambiano, spesso velocemente, l’attività di valutazione delle raccolte deve essere ripetuta periodicamente e, di conseguenza, anche gli obiettivi e le linee guida alla base dello sviluppo delle collezioni devono essere ridefiniti, in modo che essi possano adeguarsi alle mutate esigenze, preservando allo stesso tempo quelle aree della collezione che rivestono un’importanza strategica a lungo termine.

La carta delle collezioni, attraverso cui la biblioteca comunica al personale interno e a tutti gli stakeholder le riflessioni scaturite da questa articolata valutazione delle raccolte, nonché la politica documentaria che ne consegue, dovrebbe essere quindi intesa come uno strumento maggiormente dinamico rispetto al passato, in grado di evolversi insieme alle condizioni interne ed esterne alla biblioteca.

Tuttavia, in una rinnovata carta delle collezioni non ci si può limitare a fornire linee guida relative al tradizionale processo di gestione delle raccolte (dall’acquisizione allo scarto), ma si dovrebbero prendere in considerazione anche le molteplici sfaccettature che si stanno affermando, come evidenziato nel precedente paragrafo, nell’ambito del collection management. In un prossimo futuro, dunque, la carta delle collezioni, a mio giudizio, non andrà più intesa solo come il documento per la programmazione della gestione delle collezioni, ma anche per la programmazione dell’intera gestione della conoscenza di cui i bibliotecari, i fornitori e gli utenti dovranno essere sempre più protagonisti. Bisognerà tenere conto, ad esempio, delle politiche per l’accesso aperto e per la gestione dei depositi istituzionali, dei progetti di digitalizzazione, dei servizi innovativi offerti e gli addetti alle collezioni dovranno lavorare in modo sempre più collaborativo con chi si occupa di reference e servizi al pubblico. Più in generale, dovrà aumentare la complementarietà, già auspicata, tra la carta delle collezioni e la carta dei servizi, in quanto le raccolte, partendo dal concetto di collection as a service, dovranno diventare, più di quanto non lo siano mai realmente state, uno dei mezzi attraverso cui le biblioteche potranno concretizzare la propria mission, sempre più rivolta ad andare incontro ai bisogni di ricerca, di informazione, di formazione continua, di sviluppo delle capacità per orientarsi nel mondo contemporaneo e di arricchimento culturale e personale della comunità di riferimento.