N.2 2021 - Visioni, sogni, utopie: la biblioteca possibile e il mondo delle idee

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Il terzo mondo di Popper e i mentefatti

Riccardo Ridi

Dipartimento di studi umanistici, Università Ca' Foscari, Venezia ridi@unive.it

L’articolo è dedicato a Carlo Revelli, che ho sempre considerato un modello e un maestro, non solo in ambito professionale, scomparso il 23 novembre 2020 mentre stavo ultimando la prima stesura di questo testo. Ringrazio Juliana Mazzocchi per la revisione e Claudio Gnoli per gli anni di discussioni sul terzo mondo e per i più recenti chiarimenti sui mentefatti. Le traduzioni in italiano non diversamente attribuite sono mie.
Per tutti i siti web l’ultima consultazione è stata effettuata il 4 novembre 2021.

Abstract

Il filosofo Karl Popper (1902-1994) ha teorizzato l’esistenza, accanto al mondo fisico della materia e a quello psicologico del pensiero, di un «terzo mondo» riservato alla «conoscenza oggettiva» contenuta nelle teorie, nelle narrazioni, nelle tecnologie, nelle opere d’arte e nelle altre creazioni (soprattutto, ma non esclusivamente, astratte) degli esseri umani, non interamente riducibile – a suo avviso – ai corrispondenti fenomeni psichici che si verificano nelle menti di determinate persone. Tale teoria, piuttosto fortunata nell’ambito delle scienze dell’informazione, implica però numerose incoerenze e implausibilità, in gran parte dovute alle eccessivamente disparate tipologie di contenuti che Popper, nei suoi numerosi scritti sull’argomento, colloca all’interno del suo terzo mondo.

Fra i vari tentativi di ridimensionare, razionalizzare e rendere più coerente e utilizzabile il terzo mondo popperiano risulta particolarmente promettente (sebbene non del tutto privo di problematicità) quello legato al concetto (cronologicamente anteriore alla teoria di Popper) di «mentefatto», delineato dal sociologo Earle Edward Eubank (1887-1945), introdotto nelle scienze dell’informazione da Barbara Kyle (1913-1966) e recentemente ripreso da Claudio Gnoli in due articoli pubblicati nel 2018 e nel 2019. I mentefatti, per Eubank, Kyle e Gnoli, sono tutte le entità astratte (o immateriali) create dagli esseri umani, che si contrappongono agli oggetti concreti (o materiali) costruiti dagli stessi umani, denominati «manufatti», e che non vanno confusi coi corrispondenti fenomeni psicologici, meramente soggettivi. Una tipica relazione fra manufatti e mentefatti di particolare interesse per le scienze dell’informazione è quella che identifica i documenti umani intenzionali nell’unione di un manufatto (supporto fisico) con un mentefatto (contenuto informativo).

English abstract

The philosopher Karl Popper (1902-1994) theorized the existence, alongside the physical world of matter and the psychological world of thought, of a ‘third world’ reserved for the ‘objective knowledge’ contained in theories, narratives, technologies, works of art and other creations (especially, but not exclusively, the abstract ones) of human beings, not entirely reducible - in his opinion - to the corresponding psychic phenomena that occur in the minds of certain people. This theory, rather fortunate in the field of information sciences, however, involves many inconsistencies and implausibility, largely due to the excessively disparate types of content that Popper, in his numerous writings on the subject, places within his third world.

Among the various attempts to resize, rationalize and make Popper’s third world more coherent and usable, it is particularly promising (although not entirely problem-free) the one linked to the concept (chronologically prior to Popper’s theory) of ‘mentefact’, outlined by the sociologist Earle Edward Eubank (1887-1945), introduced in information sciences by Barbara Kyle (1913-1966) and recently revived by Claudio Gnoli in two articles published in 2018 and 2019. Mentefacts, for Eubank, Kyle and Gnoli, are all abstract (or immaterial) entities created by human beings, which are opposed to concrete (or material) objects built by humans themselves, called ‘artefacts’, and which should not be confused with the corresponding psychological phenomena, which are merely subjective. A typical relationship between artefacts and mentefacts of particular interest for information sciences is the one which identifies intentional human documents in the union of an artefact (physical carrier) with a mentefact (information content).

I tre mondi di Popper

Karl Raimund Popper (1902-1994) è stato un importante filosofo austriaco, naturalizzato britannico, attivo soprattutto negli ambiti della filosofia della scienza e della filosofia della politica. Fra le sue teorie ce n’è una che viene spesso citata anche nei saggi, nei manuali e nelle enciclopedie delle scienze dell’informazione, anzi per David Bawden (professore di scienza dell’informazione presso la City University di Londra, nonché direttore dell’autorevole Journal of documentation) «è forse ironico che la validità e il valore della teoria di Popper sui tre mondi si siano guadagnati una maggiore reputazione nell’area della scienza dell’informazione che nella stessa area filosofica» [Bawden, 2008, p. 419], forse anche perché (e qui il giudizio è di Mark Notturno, un amico e collaboratore di Popper non sospettabile di ostilità nei sui confronti) «molti filosofi contemporanei considerano il ‘Mondo 3’ uno sfortunato prodotto della vecchiaia di Popper: incoerente, irrilevante e forse, se va detta la verità, un po’ ridicolo» [Notturno, 2000, p. 139]. Esistono però sostenitori della teoria anche fra i filosofi, perché essa «fin dalla pubblicazione ha stimolato un gran numero di discussioni e di contributi accademici, che hanno spaziato dal supporto diretto alla franca perplessità [conducendo anche] a sforzi di ‘migliorare’ la teoria stessa, per superare le più ovvie delle sue difficoltà» [Cambier, 2016, p. 243].

Popper ha espresso la propria teoria dei tre mondi – a partire almeno dall’inizio degli anni Sessanta in forma orale e dalla metà dello stesso decennio in forma scritta [Boyd, 2016, p. 230] – in numerosi testi, conferenze e interviste, non sempre perfettamente coerenti né individualmente né reciprocamente. Una sintesi particolarmente efficace è quella che apre una conferenza del 1978:

Proporrò […] una concezione dell’universo che ammette almeno tre sotto-universi distinti, ma interagenti. In primo luogo c’è il mondo dei corpi fisici: delle pietre e delle stelle, delle piante e degli animali, ma anche delle radiazioni e di altre forme di energia fisica. Chiamerò questo mondo fisico ‘Mondo 1’. […] In secondo luogo c’è il mondo mentale o psicologico, il mondo dei nostri sentimenti di piacere e di dolore, dei nostri pensieri, delle nostre decisioni, delle nostre percezioni e delle nostre riflessioni. In altri termini, il mondo degli stati e dei processi psicologici o mentali, e delle esperienze soggettive. Lo chiamerò ‘Mondo 2’. […] Per Mondo 3 intendo il mondo dei prodotti della mente umana, come i linguaggi, i racconti, le storie e i miti religiosi; o, ancora, le congetture e le teorie scientifiche, e le costruzioni matematiche; oppure le canzoni e le sinfonie, i dipinti e le sculture. Ma persino gli aeroplani e gli aereoporti, o altre prodezze ingegneristiche [Popper, 1979, p. 23-26].

Fra le numerose critiche ricevute dalla teoria dei tre mondi, soprattutto relativamente all’esistenza, sensatezza e coerenza del Mondo 3, queste sono quelle che mi paiono meno facili da contestare.

[1] Disomogeneità

Ciascuno dei primi due mondi è piuttosto omogeneo al proprio interno, anche se la fisica quantistica (sul fronte materiale) e la crescente attenzione (sul fronte psichico) per gli stati mentali di tipo non cognitivo – come, ad esempio, le emozioni – hanno reso negli ultimi decenni meno nitida la classica contrapposizione cartesiana fra res cogitans (la sostanza pensante) e res extensa (la sostanza materiale estesa nello spazio). Invece il Mondo 3, che è quello che riguarda più da vicino chi si occupa di informazioni e documenti e che viene considerato la principale innovazione metafisica popperiana rispetto al dualismo cartesiano, è estremamente disomogeneo. Il suo nucleo centrale, che permane anche nella maggior parte delle interpretazioni e delle revisioni proposte dai critici, consiste in entità astratte ‘inventate’ dagli esseri umani (teorie, storie, norme, lingue, ecc.), ma alcune delle sue formulazioni permetterebbero di includervi anche altre entità astratte che gli umani possono solo ‘scoprire’ (ad esempio i numeri – almeno secondo alcune filosofie della matematica [Lolli, 2002] – oppure le leggi fisiche, come ad esempio quella di gravitazione universale) e invenzioni umane molto concrete, come le opere d’arte e i prodotti tecnologici. Talvolta, come vedremo meglio nel punto [4], parrebbe addirittura che nel Mondo 3 possano trovare posto anche le versioni astratte o ideali di ogni tipo (o, addirittura, di ogni esemplare) di oggetto fisico concreto o, quanto meno, di tutti quelli prodotti dagli esseri umani. Altrove i suoi contenuti vengono identificati con le «idee», corrispondenti a proposizioni linguistiche (effettivamente espresse o forse anche solo esprimibili) soggette a risultare vere o false, e quindi difficilmente identificabili con poesie, romanzi e prodotti artistici non testuali. Occasionalmente Popper vi include però anche i valori etici, le istituzioni sociali, i criteri di ordinamento e i non meglio precisati «prodotti delle nostre speranze e paure», tutte cose di cui è estremamente dubbio che sia accertabile la veridicità. Ambiguo è anche il rapporto fra il Mondo 3 e la «conoscenza oggettiva», che in linea di massima Popper considera sinonimi, mentre talvolta questo tipo di conoscenza viene presentato come solo uno dei vari contenuti del terzo mondo.

Tutte queste entità hanno davvero sufficienti caratteristiche in comune per venire incluse in un unico mondo, distinto da quello fisico e da quello psichico? Oppure il Mondo 3 è stato originariamente concepito per collocarci ciò che davvero interessava a Popper, ossia il contenuto semantico delle teorie scientifiche, e tutto il resto vi è stato aggiunto con una certa superficialità, rischiando di ridurlo a un mero inventario delle ‘cose’ più svariate che non sono banalmente e universalmente considerate materiali o mentali?


[2] Elitarismo

Inoltre, per ciascuna di tali tipologie, l’ospitalità nel Mondo 3 è riservata solo a entità ‘eccellenti’ nel proprio campo oppure a tutte? Parrebbe più logica la seconda possibilità, anche perché non si vede chi, come e con quale autorità e criterio potrebbe decidere, di volta in volta, se è stato raggiunto il livello minimo di eccellenza richiesto. Ma, allora, perché Popper parla di «prodezze ingegneristiche» e non dei giocattoli improvvisati dai bambini assemblando materiali di scarto o delle maldestre riparazioni casalinghe che tutti noi siamo spesso costretti a raffazzonare? E perché, volendo fornire alcuni esempi di oggetti del Mondo 3, cita, nell’arco di poche pagine, «lo Schiavo morente di Michelangelo […], la Costituzione americana, La tempesta di Shakespeare o il suo Amleto, o ancora la Quinta sinfonia di Beethoven o la teoria della gravitazione di Newton» [Popper, 1979, p. 26-28] e non gli scarabocchi dei sui nipoti, le esercitazioni dei meno dotati fra i violinisti principianti, le farneticazioni dei cospirazionisti più strampalati, i video pornografici amatoriali o le pur utili e affidabili informazioni veicolate da elenchi del telefono e segnali stradali? E, fra i «miti religiosi», troveranno posto anche quelli dei pastafariani, dei dataisti, degli adoratori dell’Invisibile unicorno rosa e dei cultori della Teiera gigante [Graziani, 2018]? Non si potrebbe, forse, sospettare che Popper concepisca implicitamente il suo terzo mondo come un ‘museo’ o una ‘enciclopedia’ delle migliori creazioni del pensiero umano, senza però sobbarcarsi l’onere di esplicitare (eccetto che per l’ambito scientifico) come esse vengano selezionate e come, eventualmente, vengano sostituite da altre nel corso del tempo?

[3] Documentazione

Non è inoltre chiaro se, per essere considerate invenzioni umane degne di essere incluse nel Mondo 3, idee e oggetti debbano necessariamente venire realizzati o descritti in forma fisica (tramite scrittura, disegni, modellini in scala, prototipi funzionanti ecc.) oppure se è sufficiente parlarne o, addirittura, anche solo pensarli. Popper parrebbe spesso propendere per la prima opzione, visto che il terzo mondo è quello della conoscenza oggettiva e pubblica, che può essere recuperata anche successivamente al momento della sua originaria produzione. Ma cosa succede, allora, alle idee descritte in documenti poi distrutti, persi, mutilati, alterati oppure diventati illeggibili o intraducibili? E a quelle tramandate oralmente per millenni, oppure che, più modestamente, circolano nelle conversazioni solo per qualche mese prima di venire trascritte o di essere abbandonate? E a quelle che non si sa bene se sono mai state documentate o no? E, infine, Popper considererebbe anche gli SMS, i messaggi di WhatsApp, le ‘storie’ di Instagram e le lavagnette magnetiche sui frigoriferi casalinghi come forme di registrazione capaci di rendere oggettive, pubbliche e recuperabili anche sul lungo periodo le idee che diffondono?

[4] Materialità

Anche se Popper cita spesso, maldestramente, degli oggetti fisici (come le sculture e gli aereoplani) come esempi di entità appartenenti al suo terzo mondo, ciò che egli in realtà vuol dire è che il Mondo 3 ospita non tanto tali oggetti concreti (che chiaramente fanno invece parte del Mondo 1) quanto piuttosto certe entità astratte che intrattengono un particolare tipo di rapporto, difficilmente definibile ma sicuramente estremamente stretto, con ciascuno di tali oggetti:

Si può pensare che la maggior parte degli oggetti del Mondo 3, sebbene non tutti, siano incarnati o realizzati fisicamente in uno o più oggetti del Mondo 1. Un dipinto importante può esistere solo come un unico oggetto fisico, per quanto se ne possano trovare alcune ottime copie. Di contro, Amleto è incarnato in tutti i volumi fisici che contengono un’edizione dell’Amleto e, seppur in maniera diversa, è incarnato o realizzato fisicamente in ogni rappresentazione inscenata dalle compagnie teatrali. […] Volendo, si può dire che gli oggetti del Mondo 3 sono per se stessi oggetti astratti, mentre le loro incarnazioni o realizzazioni fisiche sono oggetti concreti [Popper, 1979, p. 26-28].

Popper però non spiega mai in modo disteso, esauriente e convincente né cosa siano, esattamente, tali entità astratte (idee platoniche? memi? strutture formali? informazioni? significati? segni? concetti? proposizioni linguistiche? «contenuti delle affermazioni»? «contenuti di pensiero extramentali» [Popper, 1989, par. 8; Popper, 1979, p. 63-72]?), né in cosa consista, precisamente, il rapporto che le lega ai corrispondenti oggetti concreti, se non utilizzando espressioni vaghe o metaforiche («realizzazione fisica», «incarnazione») o accennando, sbrigativamente, alla compresenza di alcuni oggetti in almeno due diversi mondi:

Molti degli oggetti che appartengono al Mondo 3 appartengono al contempo anche al Mondo 1, al mondo fisico. Lo Schiavo morente di Michelangelo è insieme un blocco di marmo, che appartiene pertanto al Mondo 1 degli oggetti fisici, e una creazione della mente di Michelangelo, che appartiene al Mondo 3. Lo stesso vale ovviamente per i dipinti. La cosa risulta ancora più evidente nel caso dei libri [Popper, 1979, p. 26-27].

Ma, se ciò a cui Popper allude è semplicemente che le medesime entità possono essere considerate e usate in modi anche molto diversi a seconda della storia, della psicologia e degli scopi di chi le osserva, della disciplina scientifica che le studia, della società e della cultura in cui sono presenti e di mille altre prospettive e situazioni, allora la filosofia contemporanea offre numerose soluzioni alternative più lineari e comprensibili rispetto ai suoi tre mondi, sia che si preferisca interpretare tale pluralità dei ‘livelli di realtà’ in senso debole, epistemologico, che in senso forte, ontologico [Poli, 2007, p. 33; Ridi, 2015; Ridi, 2016; De Caro, 2020, p. 88-92]. Nel primo caso gli aspetti, le dimensioni e le prospettive della realtà (che [Goodman, 1978] radicalizza fino a parlare di veri e propri mondi alternativi) possono diventare pressoché infiniti, mentre nel secondo ogni diversa filosofia emergentista [Chibbaro - Rondoni - Vulpiani, 2014; Gibb - Hendry - Lancaster, 2019] propone una propria gerarchia con un numero limitato di ‘livelli integrativi’ sovrapposti della realtà, in cui ciascuno strato vede la comparsa (spesso sulla base di un’evoluzione anche cronologica) di caratteristiche ‘sopravvenienti’ o ‘emergenti’ più sofisticate, che non sostituiscono ma arricchiscono quelle dello strato precedente, al quale però non possono venire completamente ricondotte: le cellule, dotate di proprietà biologiche, sono pur sempre composte da (ma non sono interamente riducibili a) molecole e atomi dotati di proprietà chimiche, che a loro volta hanno un rapporto analogo con le particelle sub-atomiche, dotate di proprietà esclusivamente fisiche. In entrambi i casi i ‘mondi’ in gioco sono quasi sempre ancora più numerosi di quelli di Popper, ma il loro reciproco rapporto e la definizione delle entità ospitate da ciascuno di essi sono spesso più chiari e coerenti.

[5] Riducibilità

In ogni caso, qualunque sia il numero e la natura delle entità che popolano il Mondo 3, molte delle sue confutazioni prevedono che ciascuna di tali entità possa essere agevolmente spiegata e ospitata dal Mondo 1 o dal Mondo 2 o da entrambi, senza bisogno di inventarsi un inutile terzo mondo. Ciascun critico si concentra però, di solito, solo su alcune delle varie tipologie di entità collocate da Popper nel suo terzo mondo, e le ricolloca in altri mondi sulla base delle proprie convinzioni metafisiche ed epistemologiche. Ad esempio [Serrai, 1981, p. 80-85] riconduce la conoscenza oggettiva di cui sarebbe costituito il Mondo 3 all’informazione, che a sua volta potrebbe venire completamente spiegata in termini di interazione fra eventi fisici e mentali. [Rudd, 1983] si concentra invece sulle teorie scientifiche, che costituirebbero il contenuto paradigmatico del terzo mondo popperiano, ma che a suo avviso andrebbero piuttosto collocate in un «mondo sociale» trascurato da Popper, che lo sacrifica all’interno del proprio secondo mondo, quello psicologico. Anche per [Bloor, 1974] il terzo mondo popperiano risulterebbe più comprensibile e coerente se inteso come una costruzione sociale e culturale, che potrebbe ospitare senza particolari problemi non solo le teorie scientifiche ma anche le opere d’arte, incluse quelle non testuali, i prodotti tecnologici e le istituzioni sociali.

[6] Molteplicità

Benché lo stesso Popper e la maggior parte dei suoi critici, commentatori e divulgatori abbiano reso popolare la formula dei ‘tre mondi’, la teoria popperiana ne prevedererebbe in realtà un numero (indefinito) maggiore, sulla base di considerazioni non troppo diverse rispetto a quelle su cui si fondano i ‘livelli di realtà’ di tipo epistemologico a cui si è accennato nel punto [4]:

Volendo, all’interno del Mondo fisico 1 si possono distinguere il mondo degli oggetti fisici non viventi e il mondo delle cose viventi, ossia degli oggetti biologici. Ma la distinzione non è netta. […] Il Mondo 2 può venir suddiviso in molti modi. Volendo, si possono distinguere al suo interno le esperienze pienamente coscienti e i sogni, o le esperienze subcoscienti. Oppure si possono distinguere la coscienza umana e quella animale. […] Si potrebbero facilmente distinguere più mondi diversi all’interno di quello che chiamo il Mondo 3. Si possono distinguere il mondo della scienza e quello della finzione, il mondo della musica e il mondo dell’arte, e quello dell’ingegneria. Per amor di semplicità parlerò di un solo Mondo 3: il mondo dei prodotti della mente umana [Popper, 1979, p. 23-26].

Infine c’è il Mondo 3. Biologicamente parlando, cose come le tele di ragno sono estremamente simili ai prodotti del Mondo 3 degli uomini: rappresentano infatti il prodotto del ragno, il quale può allontanarsi dalla tela che ha intessuto, mentre quest’ultima resta lì a svolgere la sua specifica funzione biologica. Le tele di ragno, come i prodotti umani del Mondo 3, sono il risultato dell’ingegnosità, dell’intelligenza, in quanto non sono tutte uguali: vengono infatti costruite in funzione delle diverse situazioni ambientali. Ad ogni modo, il Mondo 3 specificamente umano è, ovviamente, assai diverso, e più alto, rispetto a quello degli animali; inoltre, è segnato da una certa invarianza temporale [Popper, 1989, par. 4].

Ora, distinguere o meno ulteriori regioni o mondi è in realtà soltanto una questione di utilità. Gli obiettivi, come ho detto prima, operano sul Mondo 1 per nostro mezzo, e appartengono al Mondo 3. Ma naturalmente si possono togliere e mettere in un mondo tutto loro. La questione non ha la minima importanza e non intendo discutere di queste cose. È davvero soltanto una questione di utilità. Per certi scopi può essere molto utile avere a disposizione un altro mondo, e per altri scopi ci si può accontentare dei nostri tre [Popper, 1994, p. 31].

Ora (anche prescindendo dall’osservare che a molti di noi le forme delle tele dei ragni potrebbero sembrare più – e non meno – stabili nel tempo rispetto a quelle dei prodotti culturali umani), il quadro che emerge da queste parole è ben diverso da quello ‘canonico’ di tre mondi nettamente e ontologicamente distinti, e somiglia molto agli infiniti mondi epistemologicamente fabbricati teorizzati da Goodman, secondo cui:

la versione fisica del mondo e quella percettiva […] non sono che due delle tantissime versioni che si presentano nelle diverse scienze, nell’arte, nella percezione, nel nostro discorso quotidiano. I mondi sono costruiti fabbricando versioni come queste, con numeri, immagini, suoni, o con altri simboli di qualunque tipo realizzati con i più diversi materiali; e l’indagine comparata di queste versioni, di queste visioni, e del loro farsi, è quel che chiamo una critica del costruire mondi [Goodman, 1978, p. 110-111].

Altrove, invece, i tre mondi vengono addirittura inseriti da Popper in una gerarchia di livelli integrativi prodotti dall’evoluzione naturale, dove non sarebbe semplice collocare anche solo un ulteriore quarto mondo:

In un certo senso, vedendo le cose dal basso – primo, secondo, terzo – ho in mente una gerarchia evoluzionistica. Per quanto ne sappiamo il Mondo 1 esisteva prima che esistesse il Mondo 2, e almeno i rudimenti del Mondo 2 esistevano prima che esistesse il Mondo 3 [Popper, 1994, p. 34].

È dunque corretto riassumere, spiegare, commentare, difendere, confutare o ‘modificare’ la teoria dei mondi popperiani partendo dal presupposto che essi siano proprio tre, oppure qualsiasi considerazione sulla loro natura, composizione e interazione dovrebbe prevederne un numero indefinito, molti dei quali, peraltro, creati da specie animali diverse dalla nostra?

[7] Interazione

Il problema dell’interazione fra la mente umana e il corrispondente corpo, punto debole del cosiddetto ‘dualismo cartesiano’, non viene risolto dalla teoria dei tre mondi, che anzi lo raddoppia, perché Popper non spiega in modo convincente né come le menti possano interagire, da una parte, con le conoscenze oggettive nè, dall’altra, con gli oggetti fisici. E l’enigma si moltiplicherebbe ulteriormente se, come si è ipotizzato nel punto [6], i mondi potenzialmente interagenti fra loro fossero in realtà molti più di tre, anche se lo scenario venisse semplificato vietando almeno alcuni dei loro abbinamenti, come ha fatto lo stesso Popper escludendo esplicitamente che il primo e il terzo mondo interagiscano direttamente fra loro, senza la mediazione del Mondo 2.

[8] Scoperta

Il più forte argomento di Popper a favore dell’oggettiva esistenza del Mondo 3 (inteso, restrittivamente, come l’insieme delle creazioni astratte della mente umana come, ad esempio – per Popper stesso e per alcuni filosofi della matematica [Lolli, 2002] – i numeri naturali) è che i suoi contenuti godrebbero di proprietà oggettive intrinseche che non sono necessariamente conosciute (né, tanto meno, create) dagli umani stessi (come, ad esempio, l’ordine con cui, nella successione dei numeri naturali, appaiono quelli divisibili solo per se stessi e per uno), i quali possono solo, eventualmente, scoprirle. Ma se ciò fosse sufficiente per sostenere che l’insieme dei numeri naturali non può essere, semplicemente, uno dei tanti pensieri soggettivi contenuti nel Mondo 2, perchè ha bisogno di un ulteriore mondo nel quale estrinsecare le proprie caratteristiche oggettive, non dovrebbe valere lo stesso anche per gli oggetti fisici che gli umani creano nel Mondo 1? Dopo aver ritagliato da una lastra di metallo sei quadrati e averli saldati insieme in modo da costruire una scatola chiusa, non è forse vero che io scoprirò che essi sono inevitabilmente paralleli fra loro, a coppie? E dopo aver inventato vari metodi per sollevare col minor sforzo possibile una pietra, non succederà forse che io scoprirò che alcuni funzionano meglio di altri? La scatola di metallo e gli strumenti di sollevamento che ho costruito esistono esclusivamente nel Mondo 1 dei corpi fisici oppure l’oggettività delle loro caratteristiche intrinseche garantisce loro un posto anche in un ulteriore mondo popperiano? E, in caso positivo, sarà lo stesso Mondo 3 che ospita i numeri naturali e le altre invenzioni ‘mentali’ degli umani o un (quarto?) mondo riservato alle loro invenzioni ‘materiali’? È una domanda alla quale forse lo stesso Popper sarebbe incerto come rispondere, viste le sue ambiguità e oscillazioni nel definire gli esatti confini del suo terzo mondo.

In conclusione, il quadro generale che emerge da queste otto critiche è quello di un Popper interessato soprattutto a non ridurre le teorie scientifiche a meri fenomeni psichici che attraversano le menti degli scienziati, ontologicamente consistenti quanto un’emozione o un desiderio. Per fornire a teorie, congetture, argomentazioni e concetti scientifici una maggiore oggettività, indipendenza e capacità causale egli ipotizza un terzo mondo, distinto sia da quello mentale che da quello materiale, che potrebbe forse godere di una certa plausibilità se non venisse appesantito facendogli ospitare una pletora di entità disparate che ne minano tanto la coerenza e la credibilità quanto l’applicabilità nell’ambito delle scienze dell’informazione. D’altronde è lo stesso Popper ad ammettere, dopo oltre vent’anni di pubbliche discussioni sulla natura del suo terzo mondo, che

ciò che vi è di più importante nel Mondo 3, ciò che, per così dire, giunge epurato nel Mondo 3 e viene continuamente ripulito, sono le teorie scientifiche. […] Le teorie scientifiche sono, così credo, i migliori contenuti del Mondo 3. Con questo non voglio dire nulla contro altri contenuti, la letteratura, l’etica: nel Mondo 3 vi è tutto ciò che può essere importante [Popper - Lorenz, 1985, p. 134-135].

I mentefatti

Fra i numerosi tentativi di razionalizzare i tre mondi popperiani e, in particolare, di rendere più comprensibile e coerente il terzo, sfoltendolo da una parte dei suoi numerosi ed eterogenei contenuti, ce ne sono stati parecchi anche nell’ambito delle scienze dell’informazione, dove non sorprende che la maggioranza degli autori abbia individuato proprio nel concetto di informazione il miglior candidato per tale compito. Si possono ricordare ad esempio, in ordine cronologico: [Brookes, 1980; Serrai, 1981; Swanson, 1986; Bawden, 2002; Abbott, 2004; Almeida - Andrade, 2011]. Tutti, con modalità diverse, hanno proposto una semplificazione del Mondo 3 che riducesse il suo contenuto all’informazione, magari definita da ciascun autore diversamente ma comunque sempre come qualcosa di differente rispetto a materia e mente, anche se talvolta dotata di minore realtà ontologica rispetto a tali due sostanze.

Fra le più recenti razionalizzazioni del Mondo 3 che possono essere ricondotte, per certi versi, a questa tradizione mi pare particolarmente degna di attenzione quella operata da Claudio Gnoli [Gnoli, 2018; Gnoli, 2019; Gnoli, 2020b, p. 3-5], centrata sul concetto di ‘mentefatto’, termine che mi assumo la responsabilità di introdurre nel lessico italiano delle scienze dell’informazione (se non, addirittura, della lingua italiana, se si prescinde da un pugno di occorrenze sui social media), effettuando un calco da mentefact (più diffuso in Gran Bretagna e nell’ambito degli studi di organizzazione della conoscenza, nonché utilizzato dallo stesso Gnoli) e da mentifact (più frequente negli Stati Uniti e nella letteratura antropologica) [Gnoli, 2018, p. 1235]. La prima attestazione del lemma nella lingua inglese risale probabilmente alla fine degli anni Venti o all’inizio degli anni Trenta del Novecento, ed è attribuibile [Gnoli, 2018, p. 1230-1231] al sociologo Earle Edward Eubank (1887-1945), che lo contrappone al termine artefact/artifact (manufatto), collocando ciò a cui si riferiscono entrambi i concetti all’interno delle creazioni sociali che, diversamente dalle azioni, sensazioni e pensieri umani che scompaiono con la morte dei rispettivi titolari, permangono più a lungo grazie a un certo livello di autonomia e separabilità rispetto ai propri artefici:

Essi sono, per così dire, ‘costruzioni’ del gruppo, risultati della sua attività che sussistono anche piuttosto lontano dagli agenti e dalle azioni che li hanno generati. […] Possiamo pensare a loro come cristallizzazioni delle energie mentali e fisiche degli esseri umani […]. Tali cristallizzazioni si verificano in due forme, una delle quali è di natura materiale, e l’altra non materiale. Le prime le chiamiamo manufatti, termine col quale intendiamo tutti gli oggetti fisici prodotti dagli umani e le modificazioni effettuate da umani di qualsiasi materia prima naturale. […] Le seconde potremmo chiamarle, per contrasto, mentefatti. […] Questi includono tutte le creazioni mentali non materiali che sono sufficientemente ‘cristallizzate’ per poter essere sottoposte a descrizione e analisi, ma che sono concretamente separabili dai propri creatori. Il linguaggio, inteso come insieme di concetti mentali (in quanto distinto dalla sua versione come manufatto scritto o stampato su una pagina) ricade in tale categoria. Anche il grande corpo di conoscenze che l’umanità ha accumulato lungo i secoli vi appartiene, così come i sistemi di pensiero, i grandi codici della morale, le grandi mitologie e filosofie del mondo. Il fatto che tutte queste cose siano preservate per noi sotto forma di manufatti non deve impedirci di riconoscere che esse hanno una intrinseca realtà psichica che è completamente non materiale e che esiste per noi del tutto indipendentemente da qualsiasi supporto che li incorpori. E nemmeno dobbiamo confonderli, visto che sono mentali, coi pensieri, le sensazioni e i sentimenti […]. I mentefatti, come i manufatti, vanno pensati come creazioni puramente impersonali, entità in se stesse, laddove sensazioni e credenze sono stati o condizioni o attività della mente o del pensiero inseparabili dalla persona che li prova [Eubank, 1932, p. 355-357].

Se si prescinde da qualche traccia di ‘elitarismo’ (perché solo le grandi morali, filosofie e mitologie sarebbero mentefatti? e quelle piccole cosa sono, invece? e chi ne stila e mantiene aggiornata la classifica?) e da qualche ambiguità linguistica (la realtà «psichica» dei mentefatti sarebbe stata meno equivocamente definibile come ‘immateriale’ o ‘astratta’) il quadro che emerge è piuttosto chiaro e coerente: le società e le culture umane producono, costruiscono o creano due tipologie di oggetti, quelli concreti (o materiali) li chiamiamo manufatti, mentre quelli astratti (o immateriali) li chiamiamo mentefatti, e i mentefatti si tramandano soprattutto (ma non esclusivamente) perché vengono codificati sotto forma di manufatti. Niente che un sociologo o un antropologo contemporaneo non possano accettare, e niente che riguardi specificamente la ricerca scientifica, che nel brano di Eubank citato non viene neppure menzionata e che semmai è solo una delle tante attività che inducono gli umani a concepire, «cristallizzare», conservare, scambiarsi e utilizzare mentefatti, che includono tanto la teoria della relatività quanto le tecniche di pesca tramandate oralmente.

[Gnoli, 2018, p. 1230-1235] segue la fortuna del termine ‘mentefatto’ nella letteratura antropologica e filosofica dei decenni successivi (dove talvolta il limpido rapporto originario fra manufatti e mentefatti viene inquinato dall’introduzione di sinonimi come «psicofatto [psychofact]» e di categorie aggiuntive come quelle di «sociofatto [sociofact]» e di «agrifatto [agrifact/agrofact]») fino alla sua importazione (ritenuta all’epoca, erroneamente, una creazione autonoma) nel lessico biblioteconomico da parte di Barbara Kyle (1913-1966), nel 1963, nell’ambito dei lavori del Classification research group, dove ha mantenuto (peraltro senza eccessiva fortuna, almeno finora) un significato sostanzialmente identico a quello attribuitogli da Eubank più di trent’anni prima, evitando però le incertezze della precedente definizione:

Abbiamo già la parola ‘manufatto’ usata dagli antropologi per gli oggetti creati dagli esseri umani. […] Ma non ci sono termini utili per indicare le ‘entità astratte’ prodotte dagli umani che non siano costruite materialmente, benché esse possano essere codificate o descritte in un manufatto (libri, ecc.). ‘Mentefatto’ si prefigge di denominare la categoria delle entità astratte come le cifre, i numeri, le equazioni, la matematica, le lettere, l’alfabeto, la grammatica, la sintassi, il linguaggio, i giudizi di valore, i sistemi etici, la filosofia, ecc [Kyle, 1965, p. 302].

L’obiettivo primario di Gnoli, recuperando il termine e il concetto di mentefatto, non è emendare Popper, ma proseguire lo sviluppo di un sistema di classificazione centrato sui fenomeni (anziché sulle discipline come la Dewey) e basato su livelli integrativi di tipo evolutivo che coltiva nell’ambito di un progetto di ricerca internazionale [Gnoli - Szostak, 2007; Szostak - Gnoli - López-Huertas, 2016] che si riallaccia agli studi e alle realizzazioni del Classification research group della stessa Kyle. Nell’ambito di tali ricerche Gnoli e i suoi collaboratori si basano spesso [Gnoli, 2020a] sull’ontologia sviluppata dal filosofo tedesco Nicolai Hartmann (1882-1950), che

individua quattro principali livelli (strati) nella realtà: quello materiale, quello organico, quello psichico e quello spirituale. L’informazione, la conoscenza e la loro organizzazione appartengono al livello spirituale. Il termine di Hartmann ‘spirito’ (Geist) viene dalla tradizione filosofica tedesca e va inteso in senso ampio, includendovi non solo la spiritualità e i fenomeni religiosi ma anche qualsiasi cosa sia relativa alla cultura umana. Lo strato dello spirito viene successivamente suddiviso da Hartmann in tre sottostrati [Gnoli, 2018, p. 1228].

La categoria dello spirito è divisa nello spirito personale, oggettivo e oggettivato. Lo spirito personale è lo spirito dell’individuo; lo spirito oggettivo è lo spirito vivente delle comunità; e lo spirito oggettivato caratterizza i prodotti dello spirito [Poli, 2016, par. 6].

Per spiegare meglio il livello dello «spirito oggettivato» anche a chi potrebbe nutrire qualche pregiudizio sui riferimenti alla spiritualità in una analisi scientifica o filosofica della realtà Gnoli lo paragona al terzo mondo di Popper, autore sicuramente al riparo da qualsiasi sospetto di misticismo o soprannaturalismo, giacché «le teorie appartengono al Mondo 3 e come esso hanno uno status autonomo, simile a quello dello spirito oggettivato, in quanto una volta che una teoria è stata formulata, tutte le sue conseguenze possono essere scoperte e analizzate anche indipendentemente dalla particolare concezione del suo creatore originario» [Gnoli, 2018, p. 1228]. Sempre col medesimo obiettivo Gnoli, nello stesso articolo, paragona allo spirito oggettivato di Hartmann i mentefatti di Eubank e Kyle, collocando decisamente entrambi i concetti nell’ambito dei prodotti della cultura umana e aggiungendo che «la distinzione fra manufatti e mentefatti corrisponde approssimativamente a quella fra il patrimonio culturale tangibile e intangibile di un territorio, adottata nei programmi di conservazione dell’UNESCO e in altri progetti antropologici» [Gnoli, 2018, p. 1233].

Gnoli quindi, pur non ponendoselo come scopo primario, semplifica e rende più coerente il terzo mondo di Popper, prima riducendone l’estensione esclusivamente ai prodotti della cultura umana e poi limitandolo, ulteriormente, ai soli mentefatti, sebbene con qualche sporadica incertezza, come quando (nella tabella [Gnoli, 2018, p. 1233] che mette a confronto mondi di Popper, strati di Hartmann e tipologie di prodotti culturali teorizzati da altri studiosi, peraltro molto più chiara nella versione preprint che in quella pubblicata dal Journal of documentation) colloca nel Mondo 3 anche i manufatti.

Il concetto di mentefatto – meno impegnativo e insidioso dal punto di vista metafisico di quello del Mondo 3 – appare come un promettente candidato per arricchire utilmente la ‘cassetta degli attrezzi’ concettuale di aree di studi e di pratica professionale come la biblioteconomia, l’archivistica, la museologia, la musicologia, la storia dell’arte, la critica letteraria, l’antropologia culturale e l’organizzazione della conoscenza, perché da una parte aiuta a distinguere i documenti concreti sia dai contenuti informativi ‘oggettivi’ che essi stessi veicolano che dalle conoscenze ‘soggettive’ che i loro autori e fruitori si scambiano tramite di essi e, dall’altra, ci ricorda che non tutte le informazioni sono contenute solo nei documenti in senso stretto, intesi come oggetti fisici ben individuabili, circoscrivibili, replicabili e conservabili creati dagli esseri umani per scopi comunicativi. I mentefatti inoltre, come convincentemente argomentato da [Gnoli, 2019] ribattendo ad alcune critiche ricevute, non coincidono né con le ‘opere’ (works) [Petrucciani, 2007; Smiraglia 2018], né coi ‘sistemi per l’organizzazione della conoscenza’ (KOS) [Zeng, 2008; Mazzocchi, 2019], che ne costituiscono solo due esempi da affiancare a numerose altre tipologie, non tutte confinate esclusivamente nell’ambito delle scienze dell’informazione. I mentefatti, infine, non sono soggetti alla maggior parte delle obiezioni rivolte al Mondo 3 che sono state illustrate nel precedente paragrafo, perché:

  • Nonostante le loro molteplici tipologie i mentefatti sono entità omogenee, riconducibili a creazioni astratte della psicologia individuale e della cultura sociale umana (non sempre facilmente distinguibili fra loro) che spesso (ma non necessariamente sempre) si materializzano in particolari tipi di manufatti creati proprio per memorizzare e trasmettere mentefatti e altre informazioni, denominabili ‘documenti umani intenzionali’ [Ridi, 2010, p. 101-107]. Cfr. obiezione [1].
  • Grazie alla sua genesi e al suo sviluppo nell’ambito della sociologia e dell’antropologia culturale il concetto di mentefatto non è in alcun modo imputabile di elitarismo o snobismo, oppure di applicabilità esclusiva o principale alle teorie scientifiche: sono mentefatti allo stesso titolo le sinfonie di Beethoven e le filastrocche improvvisate dei bambini, così come la fisica quantistica e l’astrologia. Cfr. obiezione [2].
  • Sono, a rigore, mentefatti anche quelli elaborati mentalmente in privato e mai comunicati a nessuno, benché la caratteristica della ‘cristallizzazione’ prevista da Eubank (che implica la descrivibilità, l’analizzabilità e la separabilità dal proprio creatore) esiga una loro formulazione linguistica o comunque codificata che li colloca ugualmente in ambito socioculturale e li distingue da un qualsiasi indistinto e mutevole flusso di coscienza. Cfr. obiezione [3].
  • I mentefatti sono, chiaramente, entità astratte o immateriali, in linea di principio sempre distinguibili dai manufatti che servono per materializzarli, conservarli e trasmetterli nello spazio e nel tempo. Cfr. obiezione [4].
  • Benché i mentefatti si possano suddividere, sulla base di diverse esigenze, in svariate sottoclassi, non appare indispensabile affiancare ad essi e ai manufatti ulteriori ripartizioni della sfera dei prodotti culturali umani, che ne viene esaustivamente esaurita, sebbene ci siano state proposte (anche molto più recenti di quelle a cui si è già accennato) di recuperare o introdurre concetti come quelli di «sociofatto» [Riss et al., 2011], di «cognifatto [cognifact]» [Riss et al., 2011] e di «agrifatto» [Staley, 2006]. E se si volesse estendere il concetto di cultura anche ad alcune specie animali [Bonner, 1980] diverse dall’Homo sapiens non sarebbe un problema suddividere anche i corrispondenti prodotti culturali in ‘manufatti non umani’ e ‘mentefatti non umani’. Cfr. obiezione [6].

 

Utilità, pervasività e coerenza del concetto di mentefatto non autorizzano però ad attribuirgli automaticamente una realtà ontologica autonoma indipendente sia dalla materia che dalla mente, che andrebbe semmai dimostrata con apposite argomentazioni (cfr. obiezione [5]). Su questo punto le tesi di Gnoli sono, a mio avviso, meno convincenti. Per dimostrare che personaggi fittizi come Pinocchio e James Bond non sono riducibili a meri fenomeni psicologici che si verificano nelle menti dei rispettivi autori, lettori e spettatori non basta notare che, ovviamente, «essi non provano alcuna reale soggettività» [Gnoli, 2018, p. 1237], perché il punto è un altro: la loro presenza nelle soggettività psicologiche di autori, lettori e spettatori e le loro materializzazioni in un’ampia gamma di manufatti (libri, film, fumetti, poster, magliette, ecc.) sono sufficienti per poter parlare di essi come prodotti culturali umani immateriali oppure dobbiamo postularne (e, possibilmente, dimostrarne) un’ulteriore realtà ontologica nel terzo mondo di Popper o comunque in qualcosa di molto simile ad esso?

Uno dei due principali argomenti di Popper e di Gnoli a favore di tale realtà (quello del «potere causale») a me pare piuttosto debole, perché l’indubbio fatto che «i sistemi di pensiero e gli altri prodotti culturali sono stati molto influenti sulla storia dell’umanità [e che] le teorie, sia di successo che errate, hanno determinato il destino di molte persone attraverso la loro applicazione» [Gnoli, 2018, p. 1237] non dimostra in alcun modo che ciò che ha prodotto effetti causali sia sulle menti umane che, attraverso di esse, sugli oggetti fisici non fossero, in fondo, nient’altro che un insieme di idee presenti nelle menti di altre persone e di segni registrati su documenti. Un sacrificio fatto in nome di Zeus non prova l’esistenza di Zeus, ma solo la presenza di sue idee in alcune menti e di sue descrizioni in alcuni documenti, sufficientemente articolate e convincenti per motivare qualcuno ad effettuare il sacrificio stesso.

Neppure l’altro argomento principale a favore dell’oggettiva realtà – intesa in senso forte, ontologico – del Mondo 3, quello della «scoperta», ripetuto più volte da Popper (ma che non viene esplicitamente sfruttato da Gnoli per sostenere la realtà dei mentefatti), sebbene più consistente, si rivela sufficientemente persuasivo, come spero di aver già dimostrato nel punto [8] del precedente paragrafo. Il fatto che certe caratteristiche, proprietà o conseguenze dei mentefatti derivino ‘logicamente’ dai mentefatti stessi indipendentemente dalla volontà (o, addirittura, all’insaputa) dei loro stessi ideatori, che semmai possono solo, talvolta, scoprirle, senza poterle né creare né modificare liberamente a proprio piacimento, non dimostra l’oggettiva autonomia dei mentefatti stessi dalle menti di chi li ha concepiti, ma solo che qualsiasi insieme di dati sia materiali che mentali o simbolici [Ridi, 2020a, p. 222-225] ha una propria forma, ossia è disposto in una certa configurazione (pattern), che è diversa (o uguale) rispetto ad altre ma che comunque è proprio quella e che quindi gode intrinsecamente e oggettivamente (cioè indipendentemente dalla volontà di qualsiasi soggetto) di certe caratteristiche e non di altre. Ciò mi pare più che sufficiente per spiegare perché qualsiasi entità sia fisica che mentale (inclusi manufatti e mentefatti) presenti caratteristiche, proprietà e capacità causali non interamente conoscibili da chiunque a priori, che necessitano quindi anche di qualche forma di esplorazione a posteriori per essere svelate, senza che ciò implichi la necessità di ipostatizzare la loro ‘scopribilità’ sotto forma di un mondo o di una sostanza autonoma, indipendente tanto dalla materia che dalla mente.

L’ipotesi della realtà ‘forte’ di un terzo mondo di mentefatti solleverebbe, fra l’altro, molti più problemi di quanti ne risolverebbe, perché se pensiamo che dopo due millenni e mezzo di riflessione scientifica e filosofica non è ancora stata raggiunta una soluzione convincente e ampiamente condivisa dell’enigma relativo all’interazione fra la mente e il corpo umani ci rendiamo subito conto di quanto sarebbe velleitario immmaginare di poter spiegare l’interazione addirittura fra tre o più sostanze autonome, come si è visto nel punto [7] del precedente paragrafo. Sono quindi, a mio avviso, del tutto legittime le riserve avanzate da [Hjørland, 2019a], nella sua recente analisi della teoria dei mentefatti di Gnoli, sull’inutile proliferazione dei mondi popperiani perché «dal punto di vista della teoria dell’evoluzione [e, aggiungerei io, anche da quello, più in generale, della scienza] il pluralismo [delle sostanze] appare problematico, o persino soprannaturale e superstizioso» [Hjørland, 2019a, p. 166]. È però sbagliato sostenere che «su questo punto Gnoli appoggia il pluralismo di Popper» [Hjørland, 2019a, p. 166], perché i livelli integrativi propugnati da Gnoli non postulano necessariamente strati della realtà mutualmente del tutto indipendenti e sono compatibili anche con una metafisica monista, nella quale la realtà di ciascuno strato è ‘debole’, perché non può prescindere da tutti gli altri strati soggiacenti: gli organismi biologici fatti di cellule non sono distinti e separati dai composti chimici fatti di atomi e molecole e dagli oggetti fisici fatti di particelle, onde, campi e stringhe. Una antilope è fatta, contemporaneamente, di cellule biologiche, di molecole chimiche e di particelle fisiche, tutte comunque materiali. E, se fosse dotata di una anche debole forma di coscienza o se venisse conservata e studiata in uno zoo apparterrebbe anche al livello della mente (animale) o a quello della cultura (umana), senza per questo dover necessariamente smettere di appartenere integralmente anche al livello della materia. Analogamente un manufatto come un libro può far parte contemporaneamente del livello materiale e di quello culturale, così come un mentefatto come la trama di un romanzo o le regole degli scacchi può far parte contemporaneamente del livello mentale e di quello culturale. Assegnare mentefatti e manufatti a uno o due specifici livelli integrativi (ontologici, ma ‘deboli’) della realtà è quindi metafisicamente molto meno azzardato che collocarli (gli uni, gli altri o entrambi) in un mondo popperiano dotato di una autonomia ontologica talmente forte da compromettere la plausibilità di qualsiasi sua interazione con altri mondi analoghi, come del resto ammette lo stesso [Hjørland, 2019a, p. 168] affermando che «il mondo biologico, il mondo delle menti e il mondo socioculturale possono essere concepiti da una prospettiva monistica come lo sviluppo di nuovi livelli con nuove proprietà emergenti».

Può quindi risultare utile e plausibile adottare il concetto di mentefatto in almeno quattro diversi ‘scenari metafisici’:

  • [A] Il pluralismo ontologico ‘forte’ di Popper, pur mantenendo le sue difficoltà nello spiegare le interazioni fra tre mondi completamente eterogenei (come può la mia mente ordinare al mio corpo di muoversi? come può il mio corpo trasmettere alla mia mente gli input sensoriali? come fanno i contenuti oggettivi delle mie idee soggettive a «incarnarsi» in certi oggetti fisici, a modificare la mia mente e a venire creati, memorizzati e modificati dalla mente stessa?) risulta però almeno semplificato, più coerente e meno elitario riducendo il Mondo 3 a tutti e soli i mentefatti.
  • [B] Il pluralismo ontologico ‘debole’ dei livelli integrativi emergenti, pur mantenendo la ricerca di un difficile equilibrio nel mostrare come gli strati in cui si articolerebbe la realtà da una parte non siano completamente riducibili l’uno all’altro ma, dall’altra, non siano neppure completamente indipendenti fra loro [De Caro, 2020, p. 90], può individuare nei mentefatti un utile ‘strato finora mancante’ per spiegare meglio la specificità della cultura umana senza appiattirla su psicologia e sociologia [Gnoli, 2018, p. 1236-1239].
  • [C] Qualsiasi monismo ontologico ‘forte’, inclusa la sua variante oggi più diffusa del fisicalismo [Paolini Paoletti, 2015] (che attribuisce piena realtà solo alle entità studiate dalla fisica), può comunque aggiungere i concetti, ben delineati, di mentefatto e di manufatto alla miriade di nozioni corrispondenti a oggetti destituiti di autentica realtà e autonomia che risultano però comunque utili – linguisticamente, praticamente e anche teoreticamente – nella vita quotidiana e nelle discipline scientifiche diverse dalla fisica stessa.
  • [D] Un monismo ontologico ‘debole’ di stampo kantiano, che attribuisse la piena realtà a un noumeno inconoscibile e indescrivibile, abbinato a un pluralismo epistemologico ‘alla Goodman’ che prevedesse infinite modalità e prospettive diverse per descrivere e, in una certa misura, ‘costruire’ infiniti mondi fenomenici diversi potrebbe proficuamente utilizzare la coppia concettuale ‘mentefatto/manufatto’ per articolare il mondo della cultura (sia umana che, eventualmente, animale).

I mentefatti come oggetto primario di studio da parte delle scienze dell’informazione

Gnoli ritiene, inoltre, che il concetto di mentefatto possa risultare particolarmente utile per definire la biblioteconomia.

Una più specifica fondazione per la biblioteconomia [library and information science] dovrebbe essere ricercata al suo specifico livello, il livello dei mentefatti. […] Per esempio, l’aspetto materiale dei documenti in quanto manufatti, come le legature e i tipi di carta o la memorizzazione [storing] dei file e le interfacce non sono il focus centrale della biblioteconomia ma sono studiati da scienze come, rispettivamente, la bibliologia e l’informatica. La stessa biblioteconomia, insieme con altre discipline collegate come l’archivistica e la museologia, dovrebbe essere definita come una scienza dei mentefatti [Gnoli, 2019, par. 4].

Ho già spiegato altrove [Ridi, 2013] sia perché dubito che la biblioteconomia possa essere considerata una vera e propria scienza sia perché ipotizzo che la sua fondazione possa essere rintracciata in differenti ambiti disciplinari a seconda di quale aspetto della conoscenza umana si preferisca porre al centro dei suoi interessi. Ma anche limitandosi a utilizzare il termine ‘scienza’ come sinonimo di ‘ambito di studi’ e accettando di cercare la fondazione (o, in questo caso più appropriatamente, la ‘delimitazione’) della biblioteconomia non in una o più discipline ma negli oggetti studiati, credo che comunque questi ultimi non possano essere identificati, né esclusivamente né principalmente, coi mentefatti, neppure se fatti coincidere – più o meno tacitamente – con la loro sottoclasse dei ‘mentefatti documentati’.

La funzione essenziale delle biblioteche (e, di conseguenza, il principale oggetto di studio della biblioteconomia) è l’intermediazione fra una certa classe di documenti definibili come ‘bibliografici’ [Ridi, 2021] e gli esseri umani che per qualunque motivo desiderino accedere ai loro contenuti informativi. Archivi e musei (e quindi archivistica e museologia) si occupano invece di altre tipologie di documenti, con particolare attenzione non tanto per i loro contenuti informativi in senso stretto quanto piuttosto, rispettivamente, per le attività e le caratteristiche sociali che i documenti attestano (da parte degli archivi) e per le caratteristiche fisiche, storiche o estetiche dei documenti stessi o delle classi di oggetti a cui i singoli documenti conservati appartengono (da parte delle varie tipologie di musei) [Bates, 2007; Ridi, 2010, p. 101-112]. Perché tale intermediazione risulti efficace bisogna che biblioteche, archivi e musei da una parte selezionino, conservino, organizzino, cataloghino e rendano disponibili certi insiemi di documenti e, dall’altra, che conoscano sia le esigenze informative che le metodologie di ricerca della propria utenza, intesa sia come comunità (da indagare con strumenti sociologici) che come singoli individui (da indagare con strumenti psicologici). A tale panoramica sugli oggetti di studio primari di biblioteconomia, archivistica e museologia vanno poi aggiunti anche gli strumenti tecnici che bibliotecari, archivisti e gestori dei musei devono saper padroneggiare per poter svolgere il loro ruolo di intermediari: cataloghi, bibliografie, inventari, scaffali, bacheche, lampade, didascalie, segnaletica, macchine per fotocopiare e digitalizzare, software di vario tipo, ecc. (incluse, a mio avviso, anche le interfacce fra umani e computer, che non richiedono solo competenze informatiche ma anche di organizzazione dell’informazione).

Tale molteplicità ed eterogeneità di oggetti di studio da una parte è uno degli argomenti principali contro la possibilità di considerare vere scienze la biblioteconomia, l’archivistica e la museologia e, dall’altra, rende probabilmente più complementari che mutualmente esclusivi, a livello di pratica professionale, l’approccio cognitivo e quello sociologico alle scienze dell’informazione, che invece spesso entrano in conflitto a livello accademico [Gnoli, 2018; Hjørland, 2019a]. Sicuramente di tali molteplici ed eterogenei oggetti di studio e di lavoro fanno parte anche i mentefatti, facilmente identificabili coi ‘contenuti informativi’ dei documenti bibliografici e archivistici e di almeno una parte di quelli museali (sebbene possano sorgere dei dubbi nell’identificare il mentefatto corrispondente a un cucchiaio conservato in un museo archeologico o a un meteorite – che non è neppure un manufatto – conservato in un museo naturale). Non sono però i mentefatti il principale oggetto di interesse dei visitatori di una pinacoteca, probabilmente più curiosi di vedere come due diversi pittori hanno rappresentato il medesimo soggetto anziché di ricavare informazioni da cosa entrambi hanno raffigurato. E spesso neppure chi consulta i documenti conservati in un archivio è interessato principalmente ai loro puri contenuti informativi (magari già conosciuti o che comunque sarebbero presenti anche nell’eventuale versione pubblicata, e quindi bibliografica, degli stessi documenti) quanto piuttosto al legittimo sussistere (adesso o in passato) di determinati diritti o doveri oppure di specifiche relazioni sociali che solo il documento originale può attestare. In biblioteca, invece, è effettivamente il contenuto informativo dei documenti quello che più interessa gli utenti che non siano bibliologi o storici della stampa, ma persino qui i mentefatti non ospitati da un manufatto pubblicato [Ridi, 2021, p. 193-195], come le tradizioni orali e i sogni mai trascritti oppure i romanzi e le teorie scientifiche mai affidati a un editore, non possono essere oggetto di legittima ricerca da parte degli utenti e, quindi, non possono aspirare ad essere considerati l’oggetto principale della biblioteconomia.

Se fossimo proprio costretti a scegliere di collocare un unico concetto al centro di archivistica, museologia e biblioteconomia, credo che il candidato con maggiori chance non sarebbe quindi il mentefatto, bensì il documento, che non va confuso col supporto fisico – inclusivo dei segni appostivi – (manufatto) di un determinato contenuto informativo (mentefatto) ma rappresenta invece la loro unione che, come tale, può da una parte soddisfare le ricerche sia degli utenti che cercano determinati contenuti (ovunque esse si trovino) che di quelli interessati a caratteristiche di qualsiasi tipo riferibili invece ai rispettivi contenitori e, dall’altra, gode di una fisicità (sia nelle sue forme tradizionali che in quelle digitali, contrariamente a quanto suggerito da certe superficiali semplificazioni che insistono sulla pretesa immaterialità di quest’ultime) indispensabile per renderlo accessibile a utenti anch’essi indiscutibilmente fisici anche quando usano strumenti elettronici per comunicare e informarsi. Del resto lo stesso Gnoli ammette che

l’informazione intesa nel senso della biblioteconomia solitamente significa contenuti informativi in quanto organizzati e registrati nei documenti (mentefatti registrati in manufatti) o nella conoscenza personale degli utenti che cercano documenti [Gnoli, 2019, par. 4].

Libri, quadri, contratti e meteoriti non vengono solo astrattamente analizzati e catalogati da biblioteche, archivi e musei in base ai loro contenuti informativi, ma vengono anche, molto concretamente e molto fisicamente, protetti dai ladri e dagli insetti, disposti lontani dall’umidità e sotto le luci migliori, collocati in un determinato ordine spaziale, restaurati se vengono danneggiati, ecc. Tutte attività che devono necessariamente far parte del bagaglio professionale dei gestori delle istituzioni della memoria e che devono di conseguenza venire incluse nei loro percorsi formativi insieme alle competenze necessarie per conoscere e soddisfare le esigenze informative sia della propria comunità di riferimento che dei propri singoli utenti.

Semmai, più che della biblioteconomia, dell’archivistica e della museologia, i mentefatti (o, quanto meno, i mentefatti documentati) potrebbero forse aspirare, con maggiore plausibilità, a costituire l’oggetto primario di studio di una disciplina strettamente connessa con tutti e tre tali ambiti ma meno legata di essi alla fisicità dei documenti, ovvero l’organizzazione della conoscenza. Tuttavia è controverso se davvero tale ambito di studi si focalizzi proprio sui contenuti informativi dei documenti umani intenzionali, perché da una parte – come ricorda anche Hjørland nella sua critica a Gnoli – i suoi principi e le sue tecniche possono essere applicati anche all’ordinamento e alla classificazione di entità che non sono né mentefatti né manufatti (come, ad esempio, le stelle, gli elementi chimici e le specie animali) e, dall’altra, persino i documenti conservati da biblioteche, archivi e musei possono essere ordinati in base a caratteristiche dei loro supporti concreti anziché dei loro contenuti astratti (come, ad esempio, le dimensioni, il materiale o l’anno di produzione).

In ogni caso il concetto di mentefatto, anche se ne restano da dimostrare sia il reale spessore ontologico che la centralità nelle varie scienze dell’informazione, ha una propria coerenza, risulta sufficientemente chiaro e articolato e può rivelarsi utile sia per razionalizzare il terzo mondo popperiano che per analizzare gli oggetti di studio di varie discipline, fra cui l’archivistica, la biblioteconomia, la museologia e l’organizzazione della conoscenza.