N.2 2019 - La libertà intellettuale

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Il dovere di contare

Danilo Deana

Ufficio pianificazione operativa, Università degli studi di Milano; danilo.deana@unimi.it

Per tutti i siti web l’ultima consultazione è stata effettuata il 2 novembre 2019.

Abstract

Negli ultimi vent’anni la spesa per l’accesso alle risorse elettroniche sostenuta dalle biblioteche accademiche è andata continuamente aumentando, a discapito delle monografie e dei periodici cartacei. Attualmente essa rappresenta in media i due terzi della spesa complessiva (da questo calcolo sono escluse le spese per il personale). Da tempo le biblioteche accademiche si sforzano di contrastare le politiche degli editori e dei fornitori di risorse elettroniche, che impongono contratti sempre più onerose. C’è però un altro fronte che sarebbe possibile aprire ed è quello del prestito dei libri. La situazione italiana è molto diversa da quella statunitense, dove il calo dei prestiti procede a un ritmo molto sostenuto. I prestiti potrebbero crescere se ci si concentrasse su tre aspetti: la qualità dei cataloghi, la comunicazione con gli utenti, le procedure di acquisto. Grazie a queste azioni sarebbe possibile trasformare quello che molti considerano ormai un “cane” in una “mucca da latte” ancora per diverso tempo. La capacità dei bibliotecari di rivitalizzare questo servizio permetterebbe da un lato di rendere evidente il valore aggiunto che essi possono fornire, dall’altro di contrastare politiche commerciali che mirano allo smantellamento delle biblioteche a favore di un servizio di prestito erogato dagli stessi fornitori di risorse elettroniche. Perché questo non accade? Se si esaminano i piani delle performance delle principali università italiane, è facile rendersi conto che quasi tutti gli obiettivi assegnati ai responsabili sei servizi bibliotecari di ateneo siano obiettivi interni. Anche quando questo non avviene, raramente gli indicatori si basano su una modifica del comportamento degli utenti.

English abstract

In the last twenty years, spending on access to electronic resources sustained by academic libraries has steadily increased, to the detriment of monographs and journals. Currently it represents on average two thirds of the total expenditure (this calculation excludes personnel costs). For some time, academic libraries have been striving to counter the policies of publishers and electronic resource providers, which impose increasingly onerous contracts. However, there is another front that could be opened and that is the loan of books. The Italian situation is very different from the US one, where the decline in loans is proceeding at a very fast pace. Loans could grow if we concentrate on three aspects: the quality of catalogs, communication with users, purchasing procedures. Thanks to these actions, it would be possible to transform what many now consider a dog into a cash cow for some time to come. The ability of librarians to revitalize this service would on the one hand make clear the added value they can provide, on the other hand to counteract commercial policies that aim at dismantling libraries in favor of a loan service provided by the suppliers of electronic resources themselves. Why does this not happen? If we examine the performance plans of the main Italian universities, it is easy to realize that almost all the objectives are internal objectives. Even when this does not happen, the objectives rarely rely on a change in user behavior.

Le biblioteche accademiche sono nate per gestire e valorizzare il patrimonio bibliotecario e documentale delle università. Le banche dati, i periodici e i libri elettronici ne hanno però profondamente modificato il ruolo: da fornitrici di documenti, infatti, si sono trasformate in fornitrici di accesso. Con il passare del tempo, inoltre, si sono organizzate in sistemi bibliotecari e i loro compiti sono continuamente aumentati. Attualmente negli statuti delle università italiane i sistemi bibliotecari sono considerati uno strumento di supporto alle attività didattiche, scientifiche e istituzionali degli atenei.

Tornando alla valorizzazione e alla gestione del patrimonio bibliotecario, va detto che le particolari caratteristiche del mercato delle pubblicazioni scientifiche – la sua anelasticità e il fatto che a pagare non siano direttamente studenti e docenti, ma le istituzioni cui essi appartengono – e la nascita e lo sviluppo delle risorse elettroniche ne hanno facilitato la trasformazione in un oligopolio: pochi grandi gruppi editoriali che riescono a imporre le loro condizioni ai sistemi bibliotecari di ateneo.

Per tener dietro al continuo aumento dei prezzi delle risorse elettroniche – che crescono a un ritmo molto superiore a quello dell’inflazione – i sistemi bibliotecari sono stati costretti ad acquistare meno monografie e ridurre gli abbonamenti a periodici cartacei, anche se i volumi pubblicati annualmente in Italia e all’estero continuano ad aumentare. Nel caso dell’Università degli studi di Milano, ad esempio, la spesa per le risorse elettroniche è arrivata a superare i due terzi dei fondi che il Consiglio di amministrazione mette annualmente a disposizione del Servizio bibliotecario di ateneo, mentre quella per le monografie e gli abbonamenti a periodici cartacei supera di poco il 14%. Solo quindici anni fa la situazione era esattamente opposta. Il consorzio creato per ottenere migliori condizioni dagli editori – CARE, Gruppo di coordinamento per l’accesso alle risorse elettroniche della Conferenza dei rettori delle università italiane (CRUI) – ha poi avuto l’effetto di omologare le collezioni delle università, tanto che si potrebbe dire che a gestirle non sono più i bibliotecari, ma gli stessi editori.

Per contrastarne lo strapotere, il 4 settembre 2018 è stato fondato cOAlition S, un consorzio sostenuto dalla Commissione europea e dal Consiglio europeo della ricerca, il cui obiettivo è fare in modo che, a partire dal 2021, le pubblicazioni scientifiche finanziate con i fondi pubblici dei paesi dell’Unione europea siano pubblicate in riviste o su piattaforme ad accesso aperto (il cosiddetto Plan S).

Le biblioteche accademiche, se intendono affiancare cOAlition S nel tentativo di rendere l’accesso alle pubblicazioni scientifiche libero e senza restrizioni, devono necessariamente impiegare gli strumenti della programmazione strategica in una prospettiva di medio e lungo periodo per utilizzare al meglio le risorse di cui dispongono.

Il portfolio delle attività

Negli anni Settanta del secolo scorso le grandi aziende statunitensi si trovarono nella necessità di disporre di uno strumento per valutare le diverse attività che venivano svolte al loro interno ed essere quindi in grado di allocare al meglio le risorse di cui disponevano. Il Boston Consulting Group, fondato nel 1963 da Bruce Henderson, mise a punto una matrice composta da due righe e da due colonne nella quale le attività erano classificate sulla base della loro quota di mercato e del tasso di crescita del mercato stesso. Le stelle (star) operano all’interno di un mercato caratterizzato da un alto tasso di crescita e ne possiedono una quota importante. Si tratta quindi di prodotti o servizi da curare in modo particolare e di cui è necessario programmare lo sviluppo. I punti di domanda (question mark) operano anch’essi all’interno di un mercato con un alto tasso di crescita, ma la loro quota è bassa. Essi assorbono risorse in conseguenza della crescita del mercato e della necessità di guadagnare posizioni rispetto ai concorrenti. In questi casi è necessario scegliere se sostenere l’attività o disinvestire. Le mucche da mungere (cash cow) possiedono una grande quota di un mercato caratterizzato da un basso tasso di crescita. Esse generano entrate elevate a fronte di bassi investimenti. I cani (dog), infine, sono attività con una esigua quota all’interno di un mercato con un basso tasso di sviluppo. Essi non assicurano profitti soddisfacenti o addirittura generano delle perdite. L’unica strategia in questo caso è disinvestire.

Nonostante sia stata criticata per la sua eccessiva semplicità, la “Matrice BCG” è ancora in uso e può essere impiegata per analizzare come sono considerate le diverse attività nei dati statistici e nelle relazioni predisposti annualmente dai sistemi bibliotecari di ateneo. I sistemi bibliotecari presi in considerazione sono quelli delle università del Piemonte orientale, della Campania, di Bologna, di Brescia, di Firenze, di Macerata, di Milano, di Milano-Bicocca, di Padova, di Roma Tre, di Siena e di Trento.

Dall’esame dei dati e delle relazioni risulta che le risorse elettroniche sono considerate stelle: il loro numero, infatti, è in costante aumento. Il servizio di reference e la formazione degli utenti sono punti di domanda: crescono, ma la percentuale di utenti potenziali che si rivolge ai bibliotecari per avere un aiuto nelle loro ricerche o frequenta i corsi di information literacy è bassa. Posti a sedere e orari di apertura sono mucche da mungere: i docenti e gli studenti che utilizzano le biblioteche sono infatti stabili o in leggera crescita. Il prestito, il prestito interbibliotecario e la fornitura di documenti sono, salvo qualche eccezione, considerati alla stregua di cani.

I numeri, però, non confermano queste convinzioni. L’utilizzo delle risorse elettroniche, infatti, sembra aver raggiunto un punto oltre il quale non riesce ad andare e non in tutte le università i prestiti sono in calo. La situazione italiana è molto diversa da quella statunitense, dove i libri sugli scaffali delle biblioteche accademiche stanno trasformandosi in carta da parati. Il destino del libro cartaceo, d’altro canto, non è affatto segnato: lo confermano anche i dati dell’Associazione italiana editori. Una inchiesta recente condotta a livello mondiale ha poi stabilito che gli studenti lo preferiscono a quello elettronico quando si tratta di approfondire un argomento.

In alcune relazioni sembra esserci la consapevolezza che il calo dei prestiti possa dipendere anche dal fatto che, acquistando meno libri, si allontanano i lettori dalle biblioteche. Questo è particolarmente vero nel caso delle biblioteche universitarie, per cui l’indicatore che misura l’uso delle collezioni previsto nello standard ISO 11620:2014(E): information and documentation, library performance indicators viene modificato per comprendere solo i volumi acquistati negli ultimi cinque anni.

In altre relazioni sembra invece emergere quasi un partito preso contro questo servizio. Maria Giulia Maraviglia, ad esempio, parla di un calo dei servizi bibliotecari “in purezza”, dato che tra il 2010 e il 2015 i prestiti all’Università degli studi di Firenze sono diminuiti passando da 275.304 a 263.070. In realtà, come riportato dalla stessa Maraviglia, a essere in crisi è l’università, che nei sei anni considerati ha visto ridursi gli iscritti da 62.389 a 54.438 unità. Le nuove acquisizioni poi, sono passate da 26.308 a 18.876. A fronte di queste cifre, la diminuzione del 5% dei prestiti non può certo essere considerata un calo.

Alcuni dati meriterebbero poi di essere approfonditi. Tra il 2010 e il 2018 i prestiti nel Polo unificato bolognese SBN, che comprende anche l’Università di Bologna, sono diminuiti di quasi il 25%, passando da 2.290.412 a 1.773.970. Questo nonostante sia aumentato il numero delle biblioteche che ne fanno parte e quello dei documenti disponibili, cresciuti da 5.740.243 a 7.775.982.

Alla luce di queste considerazioni sembrerebbe possibile continuare a mungere ancora per qualche anno il servizio di prestito senza, tra l’altro, prevedere grandi investimenti. Per evitare che si trasformi in un cane, sarebbe infatti sufficiente migliorare la qualità dei cataloghi, le comunicazioni con i lettori e, in ultimo, il sistema di approvvigionamento. Il prestito ha poi il pregio di essere un servizio che può essere facilmente esteso anche alla comunità di riferimento delle università. In questo modo esso rientrerebbe a pieno titolo nelle attività di “terza missione” che il Decreto del Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca 30 gennaio 2013, n. 47 (Autovalutazione, accreditamento iniziale e periodico delle sedi e dei corsi di studio e valutazione periodica), ha inserito tra quelle istituzionali degli atenei.

Scacco matto in tre mosse

I cataloghi sono il principale strumento di mediazione tra le raccolte delle biblioteche e i lettori. Secondo l’IFLA Library Reference Model essi dovrebbero permettere di svolgere cinque diverse azioni: “trovare” (riunire le informazioni su una o più risorse di interesse ottenute a seguito di una ricerca svolta con un qualsiasi criterio pertinente); “identificare” (comprendere chiaramente la natura delle risorse trovate e distinguere tra quelle simili); “selezionare” (determinare l’idoneità delle risorse trovate ed essere in grado di accettare o rifiutare specifiche risorse); “ottenere” (accedere al contenuto della risorsa); “esplorare” (scoprire risorse usando le loro relazioni e di conseguenza inserire le risorse in un contesto). Molti dei cataloghi delle biblioteche universitarie permettono però solo di trovare documenti di cui si conosce l’autore o il titolo. Cercare risorse che incorporano opere in relazione tematica con una data res (o insieme di res), per usare i termini dell’IFLA Library Reference Model, è impossibile, dato che le registrazioni bibliografiche raramente sono associati a soggetti o a classi.

Per valutare la qualità dei cataloghi delle biblioteche accademiche abbiamo messo a confronto (Fig. 1) i dati relativi al numero di campi per registrazione del catalogo dell’Indice del Servizio bibliotecario nazionale (SBN), cui aderiscono molti sistemi bibliotecari di ateneo, e della Library of Congress (i campi sono stati divisi nei blocchi previsti dallo standard Unimarc).

Figura 1 Confronto tra l’Indice SBN e il catalogo della Library of Congress sull’uso dei campi Unimarc

La situazione non cambia se si confronta il catalogo del Sistema bibliotecario di ateneo dell’Università degli studi di Milano, l’organizzazione di cui faccio parte, con quello della Harvard Library, la biblioteca accademica con il maggior patrimonio documentario al mondo (Fig. 2).

Figura 2 Confronto tra i cataloghi dell’Università degli studi di Milano e della Harvard Library sull’uso dei campi Unimarc

Non si tratta di problemi la cui soluzione richieda grandi investimenti. Sono disponibili applicazioni che permettono di arricchire le registrazioni di un catalogo con i dati provenienti da altri cataloghi e molti dei sistemi di automazione per biblioteche di ultima generazione già prevedono questa funzione.

La seconda azione riguarda la comunicazione tra la biblioteca e i lettori nel momento di una richiesta di prenotazione o di acquisto.

Sabato 6 luglio, consultando il catalogo dell’Università degli studi di Milano, ho visto che uno dei testi che intendevo utilizzare per questo articolo era nuovamente disponibile dopo essere stato preso in prestito. Ecco il messaggio che è comparso sullo schermo alla fine della procedura di prenotazione:

Richiesta di prestito effettuata presso Scienze della Storia. Il documento sarà disponibile nel pomeriggio se richiesto entro le ore 13.30, dal giorno successivo se richiesto dopo le 13.30, secondo gli orari di apertura della biblioteca. Il documento rimarrà riservato per 3 giorni.

Se a gestire il servizio fosse stata Amazon, sullo schermo sarebbe comparso un messaggio che confermava il completamento della procedura e nella mia casella di posta elettronica avrei trovato una lettera scritta più o meno così (la Biblioteca di Scienze della storia e della documentazione storica è aperta dal lunedì al venerdì dalle 9.00 alle 16.45; il sabato e la domenica è chiusa):

Grazie Danilo Deana,

abbiamo ricevuto la tua richiesta di prenotazione per Teaching Google scholar. Il volume sarà disponibile presso la Biblioteca dalle 9.00 di lunedì 8 luglio fino alle 16.45 di mercoledì 10 luglio.

A presto, la Biblioteca di Scienze della storia e della documentazione storica.

In fondo al messaggio sarebbe stato inserito un collegamento per accedere al mio spazio personale e verificare lo stato delle richieste.

Il formato del messaggio originale dipende dalle impostazioni del sistema di automazione per biblioteche in uso presso l’Università degli studi di Milano (Sebina open library), ma può essere modificato con poca spesa. Così com’è, trasmette agli utenti le stesse sensazioni che Maria Stella Rasetti ha descritto parlando dei fogli con comunicazioni anche importanti attaccati alle porte delle biblioteche con il nastro adesivo: improvvisazione e poca attenzione per i lettori.

Le stesse attenzioni andrebbero riservate a chi chiede l’acquisto di un volume: dovrebbero essere previsti un messaggio per confermare il ricevimento della richiesta, un altro al momento dell’ordine al fornitore e un terzo quando il volume è disponibile per la consultazione o il prestito.

L’arricchimento delle registrazioni con dati provenienti da altri cataloghi permetterebbe poi di mettere a punto una procedura per inviare un elenco mirato delle nuove accessioni realizzato basandosi sui soggetti e le classi e sul settore scientifico disciplinare del docente o sul corso frequentato dallo studente.

La terza e ultima azione, quella di gran lunga più importante, riguarda, come detto, il sistema di approvvigionamento. Il Decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 (Attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull’aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d’appalto degli enti erogatori nei settori dell’acqua, dell’energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture) – comunemente conosciuto come Codice dei contratti pubblici – prevede che l’affidamento e l’esecuzione di appalti di opere, lavori, servizi, forniture e concessioni garantisca la qualità delle prestazioni e si svolga nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, tempestività e correttezza. Nell’affidamento degli appalti e delle concessioni, le stazioni appaltanti devono poi rispettare i principi di libera concorrenza, non discriminazione, trasparenza, proporzionalità e pubblicità. Mentre non ci sono dubbi che le gare per la fornitura di monografie e periodici cartacei rispettino i principi elencati, la qualità delle prestazioni è invece in questione. Per poterla valutare, sarebbe necessario che i sistemi bibliotecari raccogliessero i dati per costruire l’indicatore B.3.2.1 previsto dallo standard ISO 11620:2014(E): information and documentation, library performance indicators sul tempo medio che intercorre tra la richiesta di un volume e la sua effettiva disponibilità, che adesso non compare in nessuna delle relazioni prese in esame.

L’introduzione dei semestri e delle lauree triennali richiede tempi stretti, resi ancora più necessari dal confronto con la rapidità di Amazon e degli altri siti di commercio elettronico.

Il fatto che nessun sistema bibliotecario abbia deciso di rivitalizzare il servizio di prestito può dipendere dalla convinzione dei responsabili che il prestito da mucca da mungere sia inevitabilmente destinato a trasformarsi in cane. C’è però un’altra spiegazione possibile ed è legata all’introduzione del ciclo della performance prima nella pubblica amministrazione e poi nelle università.

Grandi speranze

La Legge 4 marzo 2009, n. 15 (Delega al Governo finalizzata all’ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e alla efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni nonché disposizioni integrative delle funzioni attribuite al Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro e alla Corte dei conti) – conosciuta anche con il nome dell’allora Ministro della pubblica amministrazione e dell’innovazione Renato Brunetta – e il successivo Decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150 (Attuazione della legge 4 marzo 2009, n. 15, in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni) hanno introdotto anche in Italia i principi del new public management.

La sintesi migliore di questi principi è contenuta nel rapporto pubblicato nel 1998 dall’Organization for Economic Co-operation and Development (OECD) e intitolato Public management reform and economic and social development. Nel rapporto si sottolinea il fatto che in molti dei paesi aderenti all’organizzazione è stata avviata una riforma della gestione pubblica che ha comportato un importante cambiamento culturale. Lo scopo era quello di combinare la logica economica e le moderne tecniche di gestione con i valori fondamentali del servizio pubblico. Al posto del vecchio paradigma – in gran parte basato su regole, con un’enfasi sul processo decisionale e il controllo gerarchico – il nuovo approccio pone l’accento sui risultati, che devono essere valutati in termini di “rapporto qualità-prezzo”. Essi devono essere conseguiti attraverso la gestione per obiettivi, l’utilizzo dei mercati e dei meccanismi di mercato, la concorrenza, la scelta e una migliore corrispondenza tra autorità, responsabilità e accountability del personale.

Il d.lgs. n. 150/2009 stabilisce che ogni amministrazione deve mettere a punto un sistema per la misurazione e la valutazione della performance allo scopo di conseguire una serie di obiettivi elencati nel secondo comma del primo articolo del decreto stesso: una migliore organizzazione del lavoro; il rispetto degli ambiti riservati alla legge e alla contrattazione collettiva; elevati standard qualitativi ed economici delle funzioni e dei servizi; l’incentivazione della qualità della prestazione lavorativa; la selettività e la concorsualità nelle progressioni di carriera; il riconoscimento di meriti e demeriti; la selettività e la valorizzazione delle capacità e dei risultati ai fini degli incarichi dirigenziali; il rafforzamento dell’autonomia, dei poteri e della responsabilità della dirigenza; l’incremento dell’efficienza del lavoro pubblico e il contrasto alla scarsa produttività e all’assenteismo; la trasparenza dell’operato delle amministrazioni pubbliche, anche a garanzia della legalità.

Il ciclo della performance è articolato in tre fasi: un atto di programmazione, l’attività di monitoraggio ed eventuale correzione della programmazione e la valutazione dei risultati ottenuti cui discende, tra l’altro, l’attribuzione dei premi individuali. Il ciclo dovrebbe replicarsi di anno in anno in modo coerente e cumulativo (i risultati della valutazione dell’anno precedente si integrano con le nuove istanze di programmazione dell’anno successivo) rispettando il modello PDCA (plan, do, check, act) messo a punto nel 1950 da Edwards Deming durante un seminario organizzato dalla JUSE, la Japanese Union of Scientists and Engineers.

Il ciclo della performance è stato introdotto nell’università con la Legge 30 dicembre 2010, n. 240 (Norme in materia di organizzazione delle università, di personale accademico e reclutamento, nonché delega al Governo per incentivare la qualità e l’efficienza del sistema universitario), la cosiddetta “riforma Gelmini”, dal nome dell’allora Ministro della pubblica istruzione.

In uno studio sugli effetti della riforma pubblicato nel 2017, Martina Dal Molin, Matteo Turri e Tommaso Agasisti giungevano alla conclusione che la sua azione era stata ostacolata sia dal personale tecnico-amministrativo sia da quello accademico. Il primo, figlio della tradizione legalistica italiana basata sul modello napoleonico, è lontano dallo stile manageriale al centro della riforma. Nella grande maggioranza dei casi, questo divario culturale ha portato all’immobilità. In altri casi, la riforma è stata implementata solo per conformità e non a fini strategici. Il personale accademico, dal canto suo, è rimasto estraneo al sistema che la riforma voleva applicare.

Questo discorso non vale solo per le università. Edoardo Ongaro e Giovanni Valotti, due importanti studiosi di organizzazioni pubbliche che insegnano all’Università commerciale “Luigi Bocconi”, sostengono infatti che in Italia il persistente dominio del diritto amministrativo, associato con altre caratteristiche del sistema politico, fornisce un’importante “parte della storia” per spiegare le difficoltà e in particolare l’impressione di un sostanziale “svuotamento” delle riforme formalmente attuate riportato da molti osservatori. Questo anche se a partire dagli anni Novanta è stato sfidato da un paradigma alternativo.

L’introduzione del ciclo della performance non ha quindi aumentato la produttività della pubblica amministrazione. Alcuni poi sostengono che il new public management abbia modificato la cultura aziendale e le condizioni di lavoro all’interno delle organizzazioni pubbliche in modo molto più accentuato e in senso molto più negativo di quanto affermano i suoi sostenitori. Secondo Thomas Diefenbach, insegnante presso la Strathclyde Business School, i risultati empirici mostrano che l’impatto del new public management sui dipendenti e la cultura aziendale delle organizzazioni del settore pubblico ha prodotto una vasta gamma di effetti psico-sociologici e organizzativi negativi: aumento dei carichi di lavoro, stress, malattie, morale basso, calo della soddisfazione e della motivazione sul lavoro, alienazione, paura, risentimento, gli effetti intellettuali distorti che comporta la necessità di compilare relazioni che dovranno poi essere giudicate, un ethos competitivo, contraddittorio e punitivo, procedure di valutazione dispendiose, stressanti, eccessivamente burocratiche e costose, aumento delle tensioni, maggiore sfiducia tra le persone, forme di violenza simbolica e di bullismo, un clima lavorativo più duro, una rete invisibile di potere dirigenziale e di dominio.

C’è però un aspetto del problema che gli articoli citati non hanno preso in considerazione. Per portarlo alla luce, esamineremo il caso dell’Università degli studi di Milano. Utilizzeremo a questo scopo due documenti pubblicati all’interno della sezione “Amministrazione trasparente” del sito dell’ateneo: il Sistema di misurazione e valutazione della performance (anno di riferimento 2019) e il Piano integrato della performance 2019-2021. Di quest’ultimo considereremo in particolare gli obiettivi del Servizio bibliotecario di ateneo. Le conclusioni cui siamo giunti non sarebbe cambiate se avessimo preso in esame i corrispondenti documenti di altre università.

Effetti collaterali

Il Sistema di misurazione e di valutazione della performance rappresenta lo strumento metodologico che ogni amministrazione deve predisporre prima dell’avvio del ciclo della performance. Esso concerne: a) l’attuazione di politiche e il conseguimento di obiettivi collegati ai bisogni e alle esigenze della collettività; b) l’attuazione e la misurazione del grado di attuazione di piani e programmi; c) la rilevazione del grado di soddisfazione dei destinatari delle attività e dei servizi; d) la modernizzazione e il miglioramento qualitativo dell’organizzazione e delle competenze professionali; e) lo sviluppo qualitativo e quantitativo delle relazioni con gli stakeholder, anche attraverso lo sviluppo di forme di partecipazione e collaborazione; f) l’efficienza nell’impiego delle risorse; g) la qualità e la quantità delle prestazioni e dei servizi erogati; h) il raggiungimento degli obiettivi di promozione delle pari opportunità.

Per quanto riguarda la misurazione e la valutazione della performance individuale, essa è collegata agli indicatori di performance; al raggiungimento degli obiettivi individuali; alla qualità, alle competenze e ai comportamenti professionali e organizzativi dimostrati e alla capacità di valutazione dei propri collaboratori.

Il Sistema di misurazione e valutazione della performance (anno di riferimento 2019) dell’Università degli studi di Milano prevede che il direttore generale e i dirigenti siano valutati sulla base del loro contributo alla performance organizzativa dell’ateneo, alla performance organizzativa dell’amministrazione nel suo complesso e alla loro performance individuale. Il direttore generale e i dirigenti devono quindi individuare un certo numero di obiettivi (minimo due) per ognuna delle tre dimensioni previste da inserire nel Piano integrato della performance.

Il Piano integrato della performance è «un documento programmatico triennale da adottare in coerenza con i contenuti e il ciclo della programmazione finanziaria e di bilancio, che individua gli indirizzi e gli obiettivi strategici e operativi e definisce, con riferimento agli obiettivi finali e intermedi e alle risorse, gli indicatori per la misurazione e la valutazione della performance dell’amministrazione, nonché gli obiettivi assegnati al personale dirigenziale e i relativi indicatori».

Il Piano integrato della performance 2019-2021 dell’Università degli studi di Milano si articola in sette parti, secondo lo schema messo a punto dall’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca (Anvur). Nella settima sono elencati degli obiettivi del direttore generale e dei dirigenti.

Nel caso della Direzione Servizio bibliotecario di ateneo gli obiettivi sono sette (la descrizione degli obiettivi è stata in parte modificata per renderla più comprensibile a chi non lavora all’interno dell’Università degli studi di Milano, Fig. 3).

 

Dimensione

Obiettivo

Periodo

1

Ateneo

Valorizzazione delle collezioni dell’Università degli studi di Milano attraverso la loro pubblicazione all’interno di una biblioteca digitale

2019‑2021

2

Ateneo

Ampliamento dell’orario di apertura di due biblioteche (Biblioteca di Scienze dell’antichità e di filologia moderna, Biblioteca del Polo di lingue e letterature straniere) e stabilizzazione dell’orario di apertura della Sala Crociera della Biblioteca di Studi giuridici e umanistici

2019

3

Amministrazione

Svolgimento delle fasi prodromiche sotto la guida del Presidio della qualità e implementazione del sistema di qualità

2019-2020

4

Amministrazione

Ricognizione e verifiche dei processi e assegnazione delle responsabilità alle posizioni organizzative

2019

 

Amministrazione

Revisione della mappatura dei processi a seguito della riorganizzazione della Direzione e valutazione e trattamento del rischio corruzione

2019

5

Personale

Accorpamento delle biblioteche di Biologia, Chimica, Fisica e Informatica nella nuova sede di Via Celoria 18

2019

6

Personale

Introduzione di un nuovo sistema di automazione delle biblioteche (Alma di ExLibris) in sostituzione dell’attuale (Sebina open library di DM Cultura)

2019-2020

7

Personale

Messa a disposizione del pubblico delle tesi di laurea 1924‑1983

2019

Fig. 3: Obiettivi di performance della Direzione SBA dell’Università degli studi di Milano

La Direzione Servizio bibliotecario di Ateneo è tra quelle con meno obiettivi. La Direzione Risorse umane, ad esempio, ne conta quasi il doppio (quindici). La necessità di predisporre ogni anno un numero così elevato di obiettivi (che devono essere insieme sfidanti in termini di impatto per la collettività esterna ed efficaci per quanto riguarda l’azione organizzativa) comporta inevitabilmente ritardi e cancellazioni. È il caso, ad esempio della “Valorizzazione delle collezioni dell’Università degli studi di Milano attraverso la loro pubblicazione all’interno di una biblioteca digitale”, già presente nel Piano 2016-2018 senza che sia stato possibile realizzarla. Lo stesso vale per l’“Accorpamento delle biblioteche di Biologia, Chimica, Fisica e Informatica nella nuova sede di Via Celoria 18” (2018) e per la “Messa a disposizione del pubblico delle tesi di laurea 1924-1983” (2017).

Le dimensioni del gap attuativo dipendono in gran parte dalle stesse disposizioni che si sono proposte di ridurlo introducendo all’interno delle università il ciclo della performance. Esse infatti spingono chi deve applicarle a dimenticare che, per avere successo, una strategia deve essere non solo coerente con l’ambiente esterno, ma anche con le risorse, le capacità, la struttura e i sistemi dell’istituzione.

I problemi del direttore generale e dei dirigenti sono condivisi anche dai quadri dell’Università degli studi di Milano. Essi infatti sono chiamati ogni anno a proporre almeno tre nuovi progetti che devono occupare l’80% del loro tempo. In assenza di progetti, potrebbero quindi lavorare solo un giorno la settimana.

In ultimo, va detto che, con l’introduzione del ciclo della performance, le amministrazioni centrali delle università devono produrre ogni anno versioni aggiornate di 16 documenti, alcuni dei quali vanno sottoposti all’approvazione del Consiglio di amministrazione o del Senato accademico e inviati all’Anvur.

La complessità della gestione del ciclo della performance, che assorbe gran parte del tempo dei direttori generali e dei dirigenti, insieme all’obbligo di definire ogni anno un numero elevato di obiettivi il cui successo sia quanto più possibile scontato rappresentano un ostacolo insormontabile all’avvio di azioni che mirino a far sì che il prestito possa continuare a essere una mucca da mungere ancora per diversi anni. Esse infatti richiedono un’attenta valutazione dei “costi opportunità” legati alla diminuzione della spesa per risorse elettroniche e all’aumento di quella per monografie, la riallocazione delle risorse disponibili, l’avvio di una serie di iniziative coordinate al raggiungimento di target semplici da definire e facilmente rilevabili e la necessità di operare continui aggiustamenti.

Le conseguenze cui può andare incontro un’organizzazione che si ripiega su sé stessa perdendo di vista gli obiettivi che si era posta al momento della sua nascita possono essere molto gravi, tanto da comprometterne l’esistenza.

Vita e morte delle organizzazioni

Economisti e manager concordano sul fatto che le organizzazioni evolvono e crescono attraverso una sequenza prevedibile di fasi. Le imprese, infatti, seguendo un loro ciclo di vita si costituiscono, crescono e infine muoiono. Questo andamento è schematizzabile con una curva “a S rovesciata” che rappresenta la crescita e il declino delle imprese in termini di efficacia organizzativa. La struttura dell’organizzazione, la gestione strategica e la ricerca di finanziamenti evolvono dinamicamente attraverso cinque fasi, una antecedente e quattro successive all’atto di costituzione.

Una volta costituitasi, l’impresa entra nella fase iniziale. Generalmente, a questo stadio, la strategia dell’impresa è ancora in fase di definizione. L’organizzazione è di tipo imprenditoriale, caratterizzata da rapporti informali fra gli individui e dall’assenza di burocrazia. Obiettivo fondamentale è la creazione dei primi rapporti con i clienti, ricercandone la fidelizzazione. Contestualmente ai progressivi riconoscimenti da parte del mercato, aumenta l’interesse e la disponibilità da parte di investitori ad acquisire partecipazioni in capitale di rischio.

Alla fase di nascita segue la fase di sviluppo, nella quale l’impresa conosce un momento di forte espansione. In questo stadio, l’impresa solitamente raggiunge il punto di pareggio, registrando i primi utili. La struttura organizzativa è ancora prevalentemente informale, anche se emergono alcune procedure. Il numero di addetti cresce con i clienti e la reputazione dell’azienda. Si rendono necessari investimenti destinati a supportare la crescita e lo sviluppo dell’impresa. Essendo l’attività già avviata e non più completamente esposta alla dinamicità dei mercati, l’orizzonte temporale degli investimenti si restringe e diminuisce la rischiosità degli stessi. Spesso in questa fase le iniziative produttive richiedono il supporto di figure professionali e manageriali in grado di indirizzare opportunamente lo sviluppo aziendale e la sua successiva industrializzazione. L’enfasi è posta sulla crescita dimensionale dell’organizzazione e sull’acquisizione di risorse.

L’impresa entra quindi nella fase di maturità, nella quale solitamente ottiene i massimi risultati economici. I prodotti e i servizi sono noti e affermati sul mercato e la clientela è soddisfatta. L’organizzazione è gerarchizzata, la divisione del lavoro è chiara e le procedure sono formalizzate. In alcuni casi si rendono necessari alcuni interventi di riorganizzazione interna, dovuti a una proliferazione eccessiva di sistemi di controllo, nonché a un’eccessiva complessità organizzativa.

Una volta che l’impresa ha raggiunto la sua maturità, si possono verificare periodi di declino. L’azienda, infatti, si disallinea rispetto all’ambiente, diventando lenta e troppo burocratizzata. I conflitti di natura sindacale crescono e il livello di fidelizzazione dei clienti si indebolisce. L’impresa può rivitalizzarsi passando attraverso uno stadio di snellimento e innovazione organizzativa interna, oppure dando vita nuove organizzazioni. Nel caso l’impresa tenti di rivitalizzarsi, è assai frequente assistere alla sostituzione dei vertici, nel tentativo di superare la crisi ed entrare in una nuova fase.

Le istituzioni pubbliche non seguono le stesse logiche delle aziende private, il cui fine ultimo è quello di aumentare il valore del capitale economico. La collettività, infatti, ha trasferito loro poteri sovraordinati per metterle in grado di perseguire l’interesse generale. Ciò non toglie che esse, oltre a una dimensione politica e a una dimensione legale, abbiano anche una dimensione aziendale che può conoscere momenti di declino.

L’introduzione del ciclo della performance nelle università aveva lo scopo di aumentare la bassa produttività delle strutture amministrative che operano al loro interno. L’impiego di risorse comunque scarse secondo principi di razionalità economica è infatti fondamentale anche per il raggiungimento delle finalità delle istituzioni pubbliche. Non a caso l’Anvur – che nel 2013 ha assunto le competenze in materia di valutazione della performance delle attività tecniche e amministrative degli atenei statali – ha ribadito come l’esperienza internazionale dimostri che l’introduzione di efficaci sistemi di performance nelle organizzazioni pubbliche complesse produce notevoli miglioramenti, nelle prestazioni generali dell’ente. Dato che nelle università l’amministrazione incide in modo determinante nello svolgimento delle attività accademiche (in positivo e in negativo), è fondamentale che le sue prestazioni siano valutate in una prospettiva di miglioramento continuo. I risultati, come abbiamo visto, non sono però stati quelli attesi, anche in conseguenza dell’approccio adottato. In molti casi, a causa delle nuove procedure, la produttività è ulteriormente diminuita.

Come detto all’inizio, i sistemi bibliotecari di ateneo non si occupano più solo di gestire e valorizzare il patrimonio bibliotecario e documentale delle università, ma sono anche a fianco di studenti e docenti per garantire la libertà di espressione e l’accesso aperto alla conoscenza, contrastando i condizionamenti prodotti dalle dinamiche del mercato delle pubblicazioni scientifiche.

L’unico modo per dimostrare di contribuire effettivamente al raggiungimento di questi obiettivi è una crescita nell’utilizzo dei servizi erogati dalle biblioteche. L’implementazione di un sistema di qualità o la ricognizione e le verifiche dei processi, con la relativa assegnazione delle responsabilità alle posizioni organizzative, sono obiettivi che si giustificano solo se si traducono in un aumento dell’efficacia dei sistemi bibliotecari, che a questo scopo devono anche considerare la possibilità di riunirsi in consorzi sul tipo di Sbart (Sistema bibliotecario di ateneo della Regione Toscana) o Share (Scholarly heritage and access to research), il progetto che ha coinvolto le università della Basilicata, della Campania “Luigi Vanvitelli”, di Napoli “Federico II”, “L’Orientale” e “Parthenope”, di Salerno e del Salento. Se i numeri dei servizi scendono, significa che le biblioteche non producono più valore e, con il tempo, non saranno più sostenibili.