N.2 2019 - La libertà intellettuale

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Educare all’uso critico dei documenti come condizione per la libertà intellettuale

Piero Cavaleri

Biblioteca “Mario Rostoni”, LIUC Università Cattaneo; pcavaleri@liuc.it

Per tutti i siti web l'ultima consultazione è stata effettuata il 29 ottobre 2019.

Abstract

L’attitudine alla valutazione delle fonti e il possesso degli strumenti conoscitivi necessari per esercitarla sono presidi indispensabili perché la libertà intellettuale sia reale e non solo formale. Non basta opporsi alla censura per garantire la libertà intellettuale. Senza la diffusa consapevolezza della necessità di valutare le fonti informative, come pure la coerenza logica e fattuale dei testi da queste veicolate, l’opinione pubblica si trasforma da fattore di accountability, richiesta di rendiconto, in strumento di omologazione al pensiero unico. Quando la maggioranza dei cittadini non è in grado di distinguere tra fonti autorevoli e strumenti di propaganda, tra discorsi scientifici e paralogismi, la difesa dell’imparzialità e del pluralismo delle biblioteche è una battaglia perduta in anticipo. Le biblioteche, in particolare quelle universitarie perché destinate a educare la futura classe dirigente, hanno una responsabilità, a nostro avviso, primaria per assicurare che i laureati che escono dagli atenei siano in grado di giudicare i documenti e il loro contenuto in modo critico. Negli ultimi decenni le biblioteche universitarie italiane hanno avviato un percorso complesso e pieno di ostacoli per trasformarsi da contenitori, spesso passivi, di documenti, in protagonisti attivi nell’educazione degli studenti all’uso consapevole dei documenti. Per raggiungere questo scopo è necessario, però, ripensare i propri modelli di sviluppo delle collezioni, di accesso ai documenti, di organizzazione e di sviluppo delle risorse umane.

English abstract

The attitude to evaluate information sources and the knowledge required to do it are foundamental for intellectual freedom. Without them, intellectul freedom would be just formal and not real. It is not enough to oppose to the censorship and the exclusion of information sources from public access to guarantee intellectual freedom. Without the awareness of the need to evaluate information sources and their logical and factual consistency, public opinion transforms itself from a factor of democratic accountability into an instrument of homologation to the “single thought”. When the majority of citizens are unable to distinguish between authoritative sources and propaganda tools, the defense of pluralism engaged by libraries is a battle lost in advance. Libraries, especially university libraries, have the responsibility, in our opinion, to ensure that graduates are able to judge documents and their content critically. In recent decades, Italian university libraries have been trying to transform themselves from “book and journal stores”, often passive, into active protagonists in the education of students. On the other hand, it is very important to understand that to achieve this they need to rethink their models of collection development, access to documents, organization and development of human resources.

The robot is not delivering research results; we are.

Amy Affelt

Premessa

Il problema di quale debba essere il rapporto che le persone dovrebbero avere con i documenti quando sono poste di fronte alla necessità di compiere delle scelte, in particolare scelte che coinvolgono gli altri, è estremamente complesso e può essere visto da una molteplicità di punti di vista diversi.

Vista la vastità del tema intendo limitare la nostra trattazione a tre aspetti tra loro collegati:

  • l’importanza dell’educazione all’utilizzo dei documenti per creare cittadini capaci di mantenere un atteggiamento critico di fronte alla crescente mole di informazioni disponibili e alla facilità di accedere ad esse e di conseguenza di essere intellettualmente liberi;
  • il perché sono le biblioteche le organizzazioni più adatte a educare le persone a un utilizzo critico e esaustivo dei documenti per comprendere e decidere;
  • i problemi che devono affrontare le biblioteche, in particolare quelle universitarie, nel formare le persone all’uso critico dei documenti.

Dare risposte a questi tre problemi significa prospettare un ruolo centrale delle biblioteche nel salvaguardare, anzi, nell’incrementare la possibilità dei cittadini di partecipare attivamente e razionalmente alla gestione della cosa pubblica e di autodeterminare la propria vita.

È importante sottolineare quest’ultimo aspetto. Infatti, la scarsa propensione dei cittadini al pensiero critico non solo mette a rischio la sopravvivenza dei sistemi politici democratici, ma rende anche soggetti i singoli cittadini a essere sempre più condizionati nelle proprie scelte individuali da sempre più pervasivi sistemi di condizionamento.

Premessa indispensabile alla nostra trattazione è che nessuna ricerca empirica di cui abbiamo letto in questi anni ci è sembrata decisiva per dimostrare che l’essere information literate sia veramente rilevante, che le biblioteche incidano realmente sull’uso delle informazioni da parte dei loro utenti o che siano più efficaci di altre istituzioni nel farlo e che nelle università ci sia un ambiente realmente adatto a formare persone capaci di documentarsi criticamente.

A mio parere questo accade perché queste affermazioni non possono essere provate empiricamente. Infatti, ci possono essere molte situazioni in cui persone information literate assumono decisioni sulla base di pregiudizi o di documenti di scarso valore, oppure le persone in contesti diversi dalle biblioteche possono sviluppare conoscenze e competenze riguardo l’uso efficace e critico delle fonti informative, oppure ancora ci possono essere concezioni dell’istruzione superiore che non contemplino tra i propri fini quello di educare all’uso autonomo e critico dei documenti. L’accumulo di indagini campionarie, di studi longitudinali, di ricerche sociologiche sugli utenti delle biblioteche e sui bibliotecari tese a dimostrare che la formazione all’uso dei documenti da parte delle biblioteche universitarie produce grandi cambiamenti non potrà mai smentire il fatto che poi i laureati si comportino da analfabeti informativi o che persone che non hanno avuto alcuna formazione nell’uso dei documenti abbiano successo nella carriera. Al più si possono ottenere delle più o meno deboli correlazioni che difficilmente potranno essere conclusive

La non conclusività delle ricerche empiriche sulle azioni delle biblioteche per promuovere lo sviluppo di alfabetismo informativo basato sulla capacità critica di utilizzare i documenti non deve però scoraggiarci, perché non è questo che cerchiamo. Non è una irraggiungibile e fuorviante “verità scientifica” che abbiamo come scopo. Il nostro scopo è quello di trasformare la realtà attraverso una prassi basata sulla phronesis e non sulla sofia, sulla “saggezza” che deriva dal confronto e dall’esperienza e non sulla certezza figlia dell’analisi. È saggio fare qualcosa per favorire che il sapere dei bibliotecari su come documentarsi diventi patrimonio del numero più grande possibile di persone per salvaguardare la libertà intellettuale come valore sociale? Quello che cercheremo di mostrare è che ciò è saggio, non di dimostrare che ciò è vero.

Libertà intellettuale e uso critico dei documenti

L’attitudine all’utilizzo e alla valutazione di fonti documentali e il possesso degli strumenti conoscitivi necessari per esercitarla sono, a nostro parere, presidi indispensabili perché la libertà intellettuale sia reale e non solo formale. La salvaguardia della libertà intellettuale dei cittadini viene normalmente vista come un’attività tesa a garantire il diritto all’accesso a tutte le fonti informative, lasciando in secondo piano che questo diritto rimane astratto e meramente formale se chi può esercitarlo non è in grado di giudicare criticamente le fonti informative, la loro rilevanza e la loro completezza.

Essere liberi intellettualmente significa saper giudicare utilizzando le informazioni rilevanti disponibili, scegliendo, nel caso queste informazioni necessitino una conoscenza specialistica per essere decodificate, a quali interpreti affidarsi per farle proprie.

Essere liberi intellettualmente è l’esatto contrario della presunzione di onniscienza che affligge sempre più le nostre società. La libertà intellettuale è l’opposto della credenza che l’opinione di ognuno vale quella di chiunque altro, su qualsiasi problema.

Sono intellettualmente libero se perseguo la verità pur sapendo che non potrò mai raggiungerla in modo assoluto e completo. Senza questa tensione non c’è alcuna libertà e nessun intelletto, ma solo volontà di restare prigionieri dei propri pregiudizi.

Il perseguimento della verità in una società complessa e sofisticata come la nostra, all’interno della quale la divisione del lavoro, anche quello intellettuale, è estremamente spinta, non può essere confuso con l’avvio di ricerche personali originali su tutti i possibili quesiti, ma, al contrario, con l’acquisizione delle informazioni che in ogni circostanza si ritiene siano indispensabili per prendere una decisione. L’impersonale “si” indica che la scelta di quali e quante debbano essere queste informazioni non è soggettiva, personale, ma sociale.

Solo riconoscendo che la conoscenza è un prodotto sociale che viene incrementato con il contributo di molti, se non di tutti, e che perciò ognuno può sì contribuire, ma anche deve riconoscere che altri possano essere maggiormente esperti su qualche aspetto del mondo, solo riconoscendo questo si può aspirare a decidere sulla base di un reale libero convincimento. Per essere liberi nel giudizio bisogna sapere di non sapere tutto e che la società ha generato al proprio interno strumenti, organizzazioni e metodi per far sì che chiunque possa accedere alle migliori informazioni possibili e ai migliori interpreti per poterle decodificare nel caso siano espresse in un linguaggio tecnico non comprensibile ai più.

Un elemento fondamentale per comprendere il ruolo della competenza documentale per la libertà intellettuale è quello della necessità che ognuno di noi ha, quando è di fronte alla necessità di decidere, di minimizzare lo sforzo informativo. Ogni processo di acquisizione di informazioni finalizzato a una decisione, e sostanzialmente tutti lo sono, è fortemente condizionato dalla necessità di economizzare il tempo.

Il modello della razionalità completa, quello che prevede che per decidere si proceda all’acquisizione di tutte le informazioni su tutte le possibili evoluzioni di un sistema e delle loro probabilità, non descrive la maggior parte delle situazioni reali proprio perché estremamente oneroso. Al contrario, spesso, gli esseri umani ricorrono a euristiche che consentono di prendere decisioni sulla base di informazioni limitate focalizzate su aspetti che si ritiene di particolare interesse.

La scelta di applicare euristiche semplificative rispetto all’acquisizione di informazioni complete rende molto più importante che chi le adotta sia in grado di discriminare i pochi documenti che utilizza sulla base della loro attendibilità e autorevolezza. Paradossalmente, ma non troppo, se fossimo “costruiti” per decidere sulla base dell’acquisizione di moltissime informazioni, se fossimo robot collegati a supercomputer, potremmo anche essere poco esperti nel distinguere tra le fonti quelle attendibili, autorevoli, non parziali perché in ogni caso la quantità delle fonti – i big data – che utilizzeremmo ci metterebbe al riparo dal prendere decisioni sulla base solo di elementi fuorvianti o scadenti.

Usando molte fonti, quelle “buone” emergerebbero per coerenza logica, chiarezza e robustezza delle argomentazioni o quantomeno il palesarsi di contraddizioni tra alcuni documenti ci spingerebbe ad approfondire, ma gli esseri umani si sono evoluti per decidere sulla base del numero minimo di informazioni necessarie. Questa caratteristica è, d’altronde, molto difficile da cambiare perché codificata nei nostri geni, anche se può divenire pericolosa quando ci si trova di fronte alla necessità di usare informazioni non in un ambiente naturale dove accediamo agli oggetti da comprendere, per così dire, di prima mano, ma in uno artificiale dove le informazioni devono essere ricavate da documenti prodotti da altri.

Saper giudicare i documenti è una capacità ancor più necessaria quando si usano pochi documenti per decidere tra il vero e il falso, tra l’utile o il disutile, rispetto alle situazioni in cui si ha il tempo, le risorse e l’abitudine di esplorare un universo informativo in modo sistematico e esteso.

Oggi non solo le persone continuano, per giudicare una determinata situazione, a usare il numero di informazioni minimo indispensabile, ma spesso presumono di poter esprimere proprie valutazioni su qualsiasi aspetto della società e del mondo senza assumersi alcun obbligo di dimostrazione, di giustificazione o quantomeno di coerenza logica. Il fenomeno non è certo nuovo, ma nuove ne sono le dimensioni e le caratteristiche con cui si esprime e di contesto.

La facilità con cui si può oggi rendere pubblica una propria opinione per ottenere su di essa consenso, andando ben al di là della cerchia dei propri conoscenti, è sicuramente nuova. Le “chiacchiere da taverna” e “le chiacchiere al bar” esistono da sempre, ma difficilmente la loro conseguenze andavano oltre il limitato contesto in cui avvenivano. Certo ci sono casi nella storia in cui le “grandi paure” si sono diffuse di locanda in locanda, di taverna in taverna sino a produrre enormi sconvolgimenti, ma questi episodi sono rari e legati a momenti eccezionali della storia. Nelle società tendenzialmente statiche del passato, in cui le conoscenze accettate erano considerate in gran parte immodificabili e insindacabili perché basate su esperienze pratiche secolari o su autorità indiscutibili, l’opinione infondata del singolo difficilmente portava a modificare le opinioni dei più o a determinare le scelte collettive, soprattutto perché nella maggior parte dei casi l’affidabilità di una persona su un determinato argomento era verificata attraverso una conoscenza personale diretta e duratura.

Oggi ognuno può produrre “documenti” (scritti o multimediali) che gli consentono di raggiungere con le proprie “stupidaggini” o “falsificazioni” moltitudini di persone pronte a cambiare opinione o a rafforzare un proprio pregiudizio. Questa facilità di diffondere testi o documenti multimediali non è in alcun modo controbilanciata da elementi che consentano ai fruitori di giudicare della saggezza di chi li propala al di là dei sistemi di “apprezzamento” presenti sui media stessi, sistemi di apprezzamento che a loro volta sono totalmente condizionati dalla logica dell’immediatezza e non della valutazione critica.

Preliminare a discutere di come affrontare i problemi posti da questi fenomeni è distinguere tra errore e falsificazione. Infatti, l’errore è sempre possibile anche all’interno di un documento basato sulla più rigorosa procedura di controllo possibile, date le condizioni in cui viene prodotto, la falsificazione al contrario si basa su una deliberata volontà di sostenere una tesi o di raggiungere uno scopo senza mettere in atto processi di verifica. In Affelt troviamo una buona coppia di esempi a tal proposito. Nel 1948 il «Chicago daily tribune» pubblicò un articolo con il titolo Dewey defeats Truman cercando di anticipare i risultati ancora ignoti delle elezioni presidenziali sulla base dei risultati delle exit-poll, facendo così una pessima figura perché una volta pubblicati i risultati ufficiali il presidente uscente Truman risultò vincitore sul candidato repubblicano Dewey. Un gigantesco errore, ma non un tentativo di falsificare la realtà. Tutti i lettori minimamente avvertiti sapevano che i risultati ufficiali non erano ancora disponibili e si trattava perciò di una semplificazione giornalistica, visto che sarebbe stato opportuno, ma non efficace, usare un verbo al condizionale.

Nel 1993 il «Weekly world news», un periodico scandalistico, pubblicò in prima pagina il titolo Hillary Clinton adopts alien baby, evidentemente un falso, ma anche certamente, visto il tipo di periodico e le modalità di diffusione, pensato perché molti lo pensassero vero. Come dice Affelt «If it weren’t true, they wouldn’t be able to print it».

Tre sono gli elementi necessari per contrastare questa situazione: le conoscenze diffuse, l’attitudine a documentarsi e la capacità di valutare i documenti. Questi tre elementi, se presi isolatamente, non produrrebbero alcun risultato. Che le conoscenze non bastino lo dimostrano anni di osservazioni di studenti universitari alle prese con le loro tesi di laurea. La maggior parte di loro è in grado di capire il contenuto dei testi con cui dovrebbe documentarsi, ma non ha alcuna attitudine a valutarli criticamente e a considerare il lavoro di revisione della letteratura non come un dovere imposto – nei casi in cui è imposto – ma come l’indispensabile fondamento di ogni propria considerazione attorno a qualsiasi argomento.

Anche l’attitudine a usare una pluralità di documenti e a valutarli non basta, se chi la possiede non è in grado di trasformare ciò che può leggere, sentire, vedere in propria conoscenza, cioè di agire di fronte ai documenti in modo critico, verificandone la coerenza con tutte le conoscenze già acquisite e depurandoli di tutti i luoghi comuni, di tutte le facili generalizzazioni.

Quindi sono necessarie attitudine a documentarsi, competenza informativa (documentale) e conoscenze vaste.

I tre aspetti evidenziati non hanno certo la stessa rilevanza nelle nostre università. La focalizzazione sull’acquisizione di un’amplissima mole di conoscenze specialistiche fa sì che la maggior parte degli studenti, anche di quelli bravi e ben preparati, utilizzi pochissimi documenti durante anni e anni di studio e per di più, non sia in grado di sceglierli perché gli vengono indicati. Spesso, gli studenti diventano così degli ottimi specialisti, degli ottimi “esperti”, ma non sono in grado però di muoversi autonomamente al di fuori del loro ambito di elezione. La specializzazione senza una cultura del documentarsi e dell’esplorare nuovi ambiti attraverso l’uso critico dei documenti crea le condizioni ideali perché questi stessi “esperti” si trasformino in disprezzatori degli esperti quando hanno a che fare con la necessità di esprimere valutazioni riguardo problemi che stanno al di fuori del proprio ambito.

Naturalmente per evitare che il disprezzo degli esperti porti al prevalere dei luoghi comuni più stolidi, all’imporsi dei più banali paralogismi, la soluzione migliore sarebbe che tutti diventassimo esperti di tutto. Se tutti potessimo acquisire conoscenze specialistiche in tutti i campi in cui ci si possa trovare a dover contribuire a una deliberazione, non avremmo bisogno di acquisire un’attitudine specifica all’uso critico dei documenti. Non dovremmo acquisirla perché di fatto la possederemmo già. Chi è esperto in più campi ha acquisito anche la competenza documentale specifica di ognuno di essi e sa che in ciascuno i documenti validi si presentano in forme diverse e quindi che “entrando” in ambiti nuovi rispetto a quelli già noti sarà necessario acquisire competenze documentali specifiche.

Spesso, queste caratteristiche soggettive vengono a essere meno considerate rispetto alle condizioni oggettive che determinano la libertà di accesso alle fonti informative, ma purtroppo non basta opporsi alla censura e alla esclusione di fonti informative dall’accesso pubblico per garantire la libertà intellettuale.

Certamente la censura, l’esclusione di specifiche opere dalla possibilità di fruizione da parte di chiunque deve essere combattuta, ma ciò chiaramente non basta a garantire che i giudizi si formino in modo razionale e autonomo.

Nella nostra realtà la censura esplicita esiste, ma non è certo un fenomeno così diffuso come nel lontano passato o in altri paesi. È la censura implicita a rappresentare il pericolo maggiore per lo sviluppo delle capacità critiche delle persone, cioè la scarsa consapevolezza dell’esistenza e della rilevanza di fonti informative alternative a quelle più facili da raggiungere. Questa scarsa consapevolezza fa sì che non ci sia richiesta di accesso a fonti che non siano quelle mainstream oppure quelle che, per i motivi più vari, sono divenute pop. Le biblioteche che, nel passato, hanno rappresentato il luogo in cui le persone hanno potuto accedere, direttamente o indirettamente, a ogni potenziale fonte informativa, oggi si trovano di fronte a una realtà nella quale la progressiva diminuzione della capacità degli utenti non professionali di documentarsi inaridisce le richieste di fonti che non siano “popolari”, mentre sull’altro versante la crescente specializzazione e focalizzazione dell’utenza accademica e/o professionale fa sì che dalle loro collezioni, anche da quelle digitali, rimangano esclusi la gran parte dei documenti non mainstream.

Le biblioteche civiche sono sempre più condizionate dall’esigenza di soddisfare un’utenza che in gran parte legge con finalità di intrattenimento e non per documentarsi, mentre le biblioteche accademiche sono condizionate dalla necessità di mettere a disposizione le costose collezioni integrali dei periodici dei grandi editori a scapito di politiche degli acquisti tese a costruire collezioni varie e complementari.

Il risultato è che gli utenti chiedono documenti poco vari e tutte le biblioteche comprano gli stessi documenti. Un’utenza non colta dal punto di vista documentale e sempre più condizionata ad adottare comportamenti uniformi determina che le biblioteche siano sempre più identiche.

La censura non è solo quella dei regimi autoritari o delle maggioranze intolleranti, ma anche quella delle comunità che per perseguire il fine in sé ragionevole di godere di ciò che è “popolare” in un certo momento, oppure di accedere alle informazioni che i propri pari giudicano indispensabili, rinunciano a costituire le condizioni per l’accesso nel futuro a ciò che è meno popolare o con un minor impact factor.

Un altro problema rilevante è che i singoli individui sono sempre meno in grado di distinguere tra opinioni espresse con linguaggio perentorio e apodittico da ciò che è vero perché corrisponde alla realtà. Quello che conta è che l’informazione sia espressa senza tentennamenti e che vada incontro alle aspettative di chi la ascolta.

Il singolo cittadino che è disposto a credere ciò che in quel momento conforta i suoi pregiudizi sicuramente è il più grande pericolo per la libertà intellettuale dei propri simili. Nessuno può essere libero se gli altri non sono interessati ad agire in base a conoscenze, cioè a credenze vere. Naturalmente vere per quanto sia possibile in ogni dato momento accertare la loro non falsità.

Ma come può un singolo individuo accertarsi della verità delle proprie credenze? Non certo trasformandosi in un ricercatore professionista vocato in ogni campo dello scibile umano. Per comprendere se un problema etico è ben posto o no, non possiamo conseguire tutti un dottorato in etica e divenire esperti della specifica sottodisciplina implicata. Quello che è necessario è saper accedere alla miglior documentazione prodotta dagli esperti che ognuno sia in grado di comprendere.

È solo la diffusa consapevolezza della necessità di accedere a fonti informative adeguate prima di esprimere un’opinione che può evitare che le opinioni diventino strumenti di oppressione verso gli altri. La condizione per evitare di esprimere giudizi affrettati e basati solo su preferenze personali è il sapere di dover acquisire le informazioni attraverso documenti autorevoli basati su ricerche scientifiche, scritti con il fine di divulgare la verità, pubblicati da soggetti (editori) conosciuti e sottoposti a critiche pubbliche.

I documenti basati su ricerche scientifiche sono, salvo errori, coerenti dal punto di vista logico e basati su dati verificati e verificabili, così che chi li usa per esprimere il proprio parere, a meno di mala fede, difficilmente potrà negare agli altri il diritto di argomentare, rispettando la coerenza logica, partendo da dati altrettanto veri. Le differenze di opinione su possibili sviluppi di ragionamenti logici se pur divergenti – perché basati su scelte diverse nel caso di situazioni opinabili – non dovrebbero essere fonte di interventi autoritari, perché riconoscibili come legittime.

Un’opinione pubblica che sia abituata a documentarsi e a rifiutare di accogliere opinioni provenienti da documenti non autorevoli, è il fattore fondamentale per il controllo democratico e per orientare le scelte in modo razionale. La tendenza ad accettare come documenti affidabili qualunque oggetto informativo ci passi sotto gli occhi, basta che sia facile da comprendere e che confermi quello che già crediamo, non può che determinare l’inaridirsi della discussione aperta tesa a scoprire la verità, la parziale e provvisoria verità possibile.

Al contrario, quando una società complessa e avanzata non riesce a far sì che i cittadini acquisiscano l’abitudine a documentarsi, la probabilità che cresca la tendenza a imporre a tutti l’adesione alle opinioni delle momentanee maggioranze diviene molto alta.

Quando la maggioranza dei cittadini non è in grado di distinguere tra fonti autorevoli e strumenti di propaganda, tra discorsi scientifici e paralogismi, la difesa dell’imparzialità e del pluralismo delle biblioteche è una battaglia perduta in anticipo.

La libertà propria e quella degli altri dipendono in modo essenziale da quanto ogni cittadino sia abituato a valutare autonomamente sulla base delle migliori informazioni disponibili di fronte a qualsiasi situazione che presenti delle novità e che sia giudicata socialmente rilevante. Se i singoli non sono abituati a giudicare le situazioni autonomamente dopo essersi adeguatamente informati, ma ad affidarsi a quella opinione altrui che meno li costringe a cambiare i propri pregiudizi, la libertà di tutti e di ognuno sarà sempre soggetta a essere in pericolo, perché la maggior parte delle persone non sarà in grado di distinguere ciò che è vero, e perciò incontrovertibile almeno per il momento, da ciò che è opinabile e perciò soggetto a vere e proprie scelte. Solo le persone abituate a giudicare autonomamente, di fronte a scelte reali tra opzioni egualmente ragionevoli, saranno in grado di decidere rispettando le opinioni altrui e accettando che, anche nel caso le proprie siano momentaneamente prevalenti, in futuro potranno essere soccombenti.

Quindi il punto fondamentale per salvaguardare la libertà (intellettuale) è far sì che i cittadini acquisiscano la capacità e l’abitudine di giudicare autonomamente dopo essersi informati sulle fonti migliori possibili. Ma come far sì che ciò avvenga?

Solo attraverso l’educazione le persone possono acquisire queste capacità e abitudini. Sviluppare la capacità di giudicare autonomamente le proprie fonti informative e la loro completezza relativa è un processo lento e faticoso che richiede il supporto di persone capaci e preparate e che perciò può avvenire solo in tempi lunghi e all’interno di istituzioni a ciò dedicate.

Le biblioteche come luogo della formazione all’uso critico dei documenti

Le biblioteche in generale, a nostro parere, sono le organizzazioni che più sono in grado di svolgere un’attività tesa a sviluppare le capacità di cui stiamo parlando.

Le ragioni, non le prove, di questa affermazione sono molte varie. Proviamo a elencarle.

In primo luogo, perché nelle biblioteche lavorano dei bibliotecari, professionisti che, quando dimenticano le degenerazioni tecnicistiche e si autostimano a sufficienza per non aver bisogno di proteggersi attraverso l’uso di un sapere “esoterico”, conoscono a fondo gli universi documentali e sanno gestire l’ambiguità del sapere trasmesso attraverso tutti i media possibili. I bibliotecari proprio perché in apparenza «Jack of all trade but master of none», sono in possesso di un sapere specialistico riguardo i documenti che, pur tenendo conto delle differenze disciplinari, supera il punto di vista degli esperti dei singoli settori e le loro prese di posizione, per abbracciare l’intero universo documentale. I bibliotecari sono master della documentazione e perciò in grado di guidare le persone ad apprendere come esplorare gli universi informativi senza farsi condizionare da pregiudizi di scuola, sociali o culturali.

In secondo luogo, perché i bibliotecari come professionisti e le biblioteche come istituzioni hanno sviluppato propri codici di comportamento che impongono di rifiutare qualsiasi forma di censura sia esplicita che implicita, sia esercitata da entità esterna sia autoimposta. Inoltre, i bibliotecari e le biblioteche hanno dimostrato nel tempo di sapersi opporre ai tentativi di esercitare ogni forma di censura, ma, soprattutto, hanno dimostrato di essere in grado di superare anche i propri pregiudizi e le proprie preferenze mettendo a disposizione dei propri utenti anche documenti che individualmente considerano esecrabili.

In terzo luogo, perché le biblioteche sono imprese sociali, collettive e di lunga durata che per loro natura raccolgono documenti anche contrastanti e che indirizzano gli utenti a una pluralità di documenti. Una biblioteca in cui si trovino documenti esclusivamente di un tipo e basati su un’unica visione è impossibile, perché non sarebbe più una biblioteca ma una semplice raccolta di documenti a servizio di un singolo o di un piccolo gruppo di utilizzatori. Le biblioteche durano nel tempo e raccolgono gli stimoli di una comunità, stimoli che si armonizzano con progetti di sviluppo delle raccolte guidati professionalmente dai bibliotecari. Le biblioteche proprio perché sono in grado di offrire un accesso ai documenti nello stesso tempo selezionati, ma non censurati, sono sicuramente il luogo in cui i diritti aletici sono meglio salvaguardati.

In quarto luogo, le biblioteche hanno una tradizione di rigorosa valutazione della qualità nella scelta dei documenti, rigore che protegge gli utenti dalle falsità e dalla propaganda. Questa tradizione può apparire come contrastante con il pluralismo nell’offerta dei documenti, ma non lo è. La scelta dei documenti che i bibliotecari compiono, naturalmente quando non subiscono imposizioni da soggetti terzi, non si basa sull’adesione a determinate correnti di pensiero o su valutazioni soggettive. I bibliotecari scelgono in base a processi decisionali che tengono conto degli stimoli dell’ambiente circostante, dell’organizzazione di appartenenza, delle finalità della biblioteca, delle richieste degli utenti, delle offerte del sistema editoriale, dei giudizi degli esperti e, da qualche decennio, degli strumenti bibliometrici. Tutti questi elementi obbligano a superare la soggettività del singolo, anche del singolo più colto e esperto che esista. Sviluppare le collezioni è sempre un’attività professionale determinata da elementi esterni alle preferenze di un singolo, attività che porta a proporre raccolte sempre ampliabili e perfettibili, ma mai monocordi.

In quinto luogo, le biblioteche sono sistemi aperti in relazione con altre biblioteche. Nessuna biblioteca è isolata. I bibliotecari sono professionisti che agiscono in base a un sapere che si esplica in base a principi e conoscenze comuni a molte altre organizzazioni simili e che sempre si mantengono in relazione con i propri colleghi. Inoltre, in ogni biblioteca si ha la consapevolezza che sempre si avrà bisogno di ricorrere al supporto di altre biblioteche o di altri bibliotecari per soddisfare le imprevedibili esigenze informative dei propri utenti. La relazione con altre biblioteche implica la necessità di adottare un linguaggio comune e di rispettare le scelte altrui, scelte che per essere utili anche ai propri utenti devono essere da questi conosciute e perciò a disposizione per esprimere giudizi. Una biblioteca non può nascondere ai propri utenti che un’altra biblioteca ha ritenuto utile acquisire, fisicamente o virtualmente, alla propria collezione libri, articoli, periodici che non fanno parte della collezione locale pena non poterli fornire se sorgesse il bisogno di utilizzarli per soddisfare il bisogno informativo di uno specifico utente. La pubblicazione e la condivisione della scelta altrui di ritenere determinati documenti come validi per far parte di una collezione bibliotecaria, automaticamente fa sì che il pluralismo delle scelte divenga palese e quindi sia possibile e sostenibile anche localmente.

La somma di queste ragioni fa sì che si possa affermare che le biblioteche sono in grado di educare le persone a documentarsi in modo critico e a sviluppare l’attitudine a farlo ogniqualvolta debbano decidere su problemi rilevanti salvaguardando il diritto che esse hanno ad accedere a tutta la documentazione disponibile e a essere in grado di discriminare all’interno di essa ciò che è vero da ciò che è falso, ciò che è rilevante da ciò che è insignificante.

In generale tutte le biblioteche possono svolgere questo compito, ma sono le biblioteche appartenenti a istituzioni educative, scuole e università, che possono svolgerlo nel modo più ampio, pervasivo e completo possibile, consentendo in ciò alle istituzioni di appartenenza di superare il limite della parzialità che qualsiasi azione educativa disciplinare o tecnica ha per intrinseci limiti di tempo e risorse.

Problemi per le biblioteche (universitarie) nell’educazione all’uso critico dei documenti

Individuare nelle biblioteche, in particolare nelle biblioteche scolastiche e universitarie, le organizzazioni più adatte per formare i cittadini all’uso critico dei documenti ci porta a dover riflettere su quali difficoltà le stesse possano trovarsi ad affrontare per svolgere questo compito in modo non solo efficace, ma anche responsabile e coerente.

Il problema della coerenza tra obiettivo, educare al documentarsi in modo critico, e strumenti e azioni messi in campo, spesso, è eluso in letteratura. Si enuncia che le biblioteche debbano svolgere azioni educative nell’ambito dell’information literacy, si sviluppano ricerche su come si dovrebbe farlo, si danno indicazioni su come implementare i risultati di queste ricerche, ma non si valuta se l’organizzazione e l’agire effettivo delle biblioteche sia coerente con questo obiettivo.

I testi che spiegano come organizzare corsi di information literacy in ogni tipo di biblioteca e anche fuori sono ormai una quantità impressionante. Altrettanto numerosi sono i libri e gli articoli che analizzano le decine di migliaia di esperienze o che illustrano le migliaia di ricerche condotte su tutti gli aspetti dell’information literacy.

Moltissime di queste esperienze e ricerche riguardano le biblioteche universitarie, tipologia su cui mi concentrerò perché, non potendo e non sapendo occuparmi in modo differenziato delle varie tipologie, come è necessario fare, scelgo di limitarmi a quella che conosco meglio, lasciando a chi ha altre competenze verificare come il ragionamento che segue sia estendibile ad altri ambiti.

L’assunto che nelle biblioteche universitarie si debba sviluppare un’azione per formare gli studenti a un uso critico dei documenti è dato per scontato, almeno da parte dei bibliotecari, anche se non sempre da parte del corpo docente. Ormai è raro che emergano posizioni simili a quelle prevalenti fino agli anni Ottanta del secolo scorso che sostenevano che compito della biblioteca fosse organizzare il proprio patrimonio documentale e interagire con gli utenti singolarmente per indirizzarli nel momento in cui manifestavano uno specifico bisogno informativo.

Ciò che spesso manca è la consapevolezza che per svolgere il compito di educare le persone, nel caso gli studenti, ad avere un atteggiamento “critico” di fronte ai documenti, ma soprattutto all’azione del documentarsi non bastano la volontà di farlo, le capacità didattiche e le conoscenze su che cosa insegnare. Questi elementi sono sicuramente utili, anzi indispensabili, ma altrettanto indispensabile è che le biblioteche che fungono da contesto a queste azioni formative siano coerentemente organizzate e gestite per favorire lo sviluppo di questo atteggiamento.

Nell’ultimo decennio si è assistito a un profondo cambiamento nella cultura dell’information literacy education, che è passata da un’impostazione basata sulla finalità di favorire negli studenti l’acquisizione di abilità e capacità pratiche e immediatamente “spendibili” a una visione che privilegia azioni finalizzate a sviluppare delle conoscenze. La nuova concezione dell’information literacy education implica che sia l’intero modello educativo a dover cambiare perché gli studenti sviluppino realmente un atteggiamento critico di fronte ai documenti, ma in contemporanea non pone in sufficiente risalto quali siano le condizioni che bibliotecari e biblioteche devono creare perché l’obiettivo di educare gli studenti a documentarsi criticamente non sia in contraddizione con il concreto esplicarsi della gestione e organizzazione delle biblioteche stesse.

Guardando al risultato più rilevante prodotto dal cambiamento in questione, l’approvazione da parte di ACRL del Framework for Information Literacy in Higher Education, si vede che a fianco dell’enunciazione del principio dell’«information literacy as an educational reform movement» non ci sia alcuna presa di posizione rispetto alle condizioni e alla gestione delle biblioteche all’interno dell’università.

In questo contesto le biblioteche universitarie, anche quelle italiane, hanno proseguito nel processo complesso e pieno di ostacoli per trasformarsi da contenitori di documenti in protagonisti attivi nell’educazione degli studenti all’uso consapevole dei documenti.

Il punto critico che emerge però è come si possa pensare a educare all’uso critico dei documenti se le biblioteche universitarie stesse hanno sempre più problemi a strutturarsi come “luoghi” in cui trovano posto le fonti informative più varie possibili, fonti che riflettono tutti i possibili punti di vista su un determinato aspetto del mondo e non solo ciò che si impone come il mainstream.

Le biblioteche universitarie, almeno quelle italiane, ma non solo, stanno evolvendo verso modelli di sviluppo delle collezioni e di indicizzazione dei documenti che le rendono, rispetto a un passato anche recente, meno adatte a presentarsi come organizzazioni dedite a salvaguardare la diversità e la pluralità delle fonti accessibili, mantenendosi almeno in parte indipendenti dalle esigenze contingenti, sia della didattica sia, soprattutto, delle attività di ricerca.

Il pluralismo delle fonti informative e l’assenza di una stretta dipendenza dalle esigenze momentanee sono, a nostro avviso, la premessa necessaria per consentire a chi sta sperimentando come trasformare proprie esigenze informative in percorsi aperti e fecondi di scoperte, di sviluppare il proprio pensiero in senso critico, accrescendo così la propria capacità di essere realmente libero intellettualmente.

La pressione sui fondi disponibili, la crescita dei costi per l’accesso a gigantesche collezioni di letteratura periodica mainstream, l’evoluzione dell’offerta degli strumenti di gestione e ricerca di informazioni stanno generando i seguenti problemi:

  • acquisto di pacchetti di periodici di grandi case editrici senza possibilità di selezione e con esclusione delle case editrici periferiche;
  • riduzione delle collezioni di libri;
  • accentramento progressivo delle scelte di acquisizione a livello di ateneo a scapito delle politiche di sviluppo delle collezioni concordate tra bibliotecari e gruppi specifici di utenti;
  • accentramento o esternalizzazione delle funzioni di catalogazione semantica;
  • utilizzo di strumenti di ricerca che sempre più offuscano la possibilità di approfondire le ricerche bibliografiche.

Consideriamo ognuno di questi aspetti.

La forte tendenza ad acquistare pacchetti dell’intera produzione periodica di una casa editrice o anche di sezioni disciplinari della stessa, implica che le biblioteche non esercitano più una scelta, demandando alla casa editrice il compito di definire ciò che è rilevante e ciò che non lo è. Anche se potessimo ipotizzare che le grandi case editrici non esercitino alcuna azione di censura ideologica o di esclusione di determinati filoni di pensiero sulla base di considerazioni extrascientifiche, non di meno con questa prassi le biblioteche universitarie hanno rinunciato a caratterizzarsi in base alle proprie collezioni di periodici.

Un altro effetto molto rilevante è quello dello “spiazzamento” delle riviste di editori minori o indipendenti a causa dell’esaurimento delle risorse finanziarie disponibili dovuto agli acquisti di maggior importo. L’editoria minore o critica sarà costretta a passare al modello del gold open access, dovendo così spesso agire con risorse molto limitate.

La pressione sui bilanci delle biblioteche o dei sistemi bibliotecari universitari determinata dalla sottoscrizione di abbonamenti pluriennali a grandi pacchetti di periodici che prevedono aumenti annuali, a fronte della difficoltà di incrementare l’ammontare complessivo degli stessi, ha determinato la riduzione delle risorse disponibili per l’acquisto di libri. Questo fenomeno, se ha conseguenze limitate in alcune aree disciplinari, in particolare quelle STEM (science, technology, engineering and mathematics), fa sì che in altre discipline vada persa per gli utenti la possibilità di accedere a documenti che per la natura dei problemi affrontati richiedono un’estensione superiore a quella degli articoli. La riduzione degli acquisti di libri impedisce alle biblioteche di poter presentare agli studenti, che stiamo educando a utilizzare i documenti in modo critico, una rappresentazione delle pubblicazioni esistenti credibile e variata, sia per quanto riguarda le correnti di pensiero sia per i livelli di trattazione.

Anche l’accentramento delle scelte di sviluppo delle collezioni a livello di ateneo sta provocando la riduzione della varietà dell’offerta documentale delle biblioteche universitarie. Le indiscutibili ragioni di efficienza e contenimento dei costi, che favoriscono i processi di accentramento, non possono far dimenticare che l’esistenza di una pluralità di centri decisionali garantisce invece la possibilità per l’insieme delle biblioteche di offrire ai propri utenti una visione articolata e più esaustiva della produzione scientifica, elemento fondamentale per educare al pensiero critico e libero attraverso la ricerca documentale.

La progressiva riduzione delle attività di sviluppo autonomo delle collezioni, di indicizzazione semantica dei documenti e di reference specialistico che vengono svolte nelle biblioteche universitarie fa sì che i bibliotecari abbiano sempre meno conoscenza dei documenti che possono soddisfare i bisogni informativi dei propri utenti. Questa carenza diviene esiziale quando un bibliotecario sia chiamato a svolgere funzioni di docenza sulla ricerca documentale. Condurre i discenti a sviluppare la capacità di svolgere una ricerca documentale esaustiva ed efficace, esperienza indispensabile per comprendere che cosa significhi realmente documentarsi per valutare, implica che il docente sia in grado di guidare alla ricerca e all’individuazione dei documenti utili ben al di là di quanto possa essere immediatamente trovato usando semplici ricerche per parola chiave. Il docente deve conoscere la documentazione esistente e disponibile in modo da stimolare la continuazione della ricerca attraverso tutte le vie possibili. Questa conoscenza si sviluppa solo in due modi: divenendo un esperto di un settore, oppure divenendo un esperto della letteratura di un settore attraverso un’intensa attività bibliografica nello stesso. Bibliotecari che non catalogano, che non sviluppano le collezioni, che non fanno ricerche specialistiche con e per i propri utenti difficilmente conosceranno la letteratura scientifica a sufficienza per poter insegnare a studenti a usarla in modo critico e consapevole.

Un ulteriore elemento che ostacola la possibilità delle biblioteche universitarie di svolgere un’efficace attività di educazione documentale è la progressiva sostituzione degli OPAC con strumenti di ricerca, discovery, basati su algoritmi di rilevanza e sull’accesso a basi documentali sempre più vaste ed eterogenee. I discovery rendono estremamente complesso condurre i partecipanti ai corsi di information literacy attraverso percorsi di ricerca documentali finalizzati a mostrare l’importanza della completezza della stessa. Da una parte il moltiplicarsi delle segnalazioni rende impossibile capire quale sia il confine tra ciò che è rilevante e ciò che non lo è, dall’altra la crescente difficoltà a mettere in luce gli indici semantici prodotti dalle biblioteche rende molto difficile far comprendere che le scelte di indicizzazione compiute dalle biblioteche servano proprio definire questo confine.

Un ultimo gruppo di problemi che si palesano, pensando alla possibilità delle biblioteche universitarie di educare al documentarsi per accrescere la libertà di pensiero e di giudizio degli studenti, è relativo al ruolo di docente, che in questa prospettiva i bibliotecari devono poter assumere.

In ambito universitario, i bibliotecari, almeno quelli italiani, hanno uno status diverso dai docenti, per i quali è garantita la libertà di insegnamento. I bibliotecari fanno parte del personale tecnico-amministrativo, per cui anche quando viene concessa o assegnata loro la possibilità di insegnare rimangono in una condizione di minorità. L’aspettativa è quella che i bibliotecari insegnino delle nozioni pratiche, che formino gli studenti a compiere delle attività prive di implicazioni teoriche e di necessità di scelta. Che i bibliotecari possano partecipare a uno sforzo teso a educare gli studenti al pensiero critico, non è certo dato per scontato.

Il bibliotecario docente, per poter educare all’uso critico dei documenti, dovrebbe avere piena libertà di indirizzare gli studenti a esplorare a fondo le aree documentali, senza limitazioni sugli autori, le correnti di pensiero, le scuole.

Ciò però nella stragrande maggioranza dei casi può contrastare con le scelte che compiono i docenti delle singole discipline. Infatti, l’esplorazione di un’area documentale non può essere fatta in astratto. I casi sono e devono essere sempre casi concreti e reali, pena l’aridità dell’esperienza compiuta dai discenti; ma non solo, i casi devono essere il più possibile calati nell’ambito di studio o di interesse degli studenti. Le aree documentali da indagare non possono che essere quelle che vengono trattate nei corsi che lo studente segue e per i quali i docenti hanno sicuramente delle opinioni forti su ciò che vale e ciò che non vale la pena utilizzare per documentarsi.

Conclusione

La libertà intellettuale è un valore che sempre è stato patrimonio di minoranze, ma ora, dopo un periodo in cui l’accesso all’istruzione di massa e la diffusione delle fonti informative sembrava promettere una sua importante estensione, sembra che, a causa della crescente difficoltà di documentarsi in modo efficace, sia a rischio di essere sempre meno praticata. Le biblioteche in passato hanno esercitato una funzione eminentemente passiva tesa a salvaguardare il diritto di accesso alle fonti informative, funzione ormai, a mio parere, chiaramente insufficiente. Le biblioteche, in particolare quelle universitarie, essendo in grado di svolgere un’azione positiva per formare le persone a scegliere e valutare i documenti necessari per valutare un problema, una situazione, un aspetto del mondo, dovrebbero avviare sempre più azioni in tal senso. Per farlo però necessitano di ripensare i propri modelli di sviluppo delle collezioni, di accesso ai documenti, di organizzazione e di sviluppo delle risorse umane per potersi presentare ai potenziali discenti come i “luoghi” dove la varietà degli universi documentali trova rappresentazione.

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