N.1 2020 - La produzione di contenuti in biblioteca

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Scienza aperta, cittadinanza scientifica e terza missione dell’università: il ruolo delle biblioteche accademiche

Luca Lanzillo

Centro Sistema bibliotecario Sapienza, Sapienza Università di Roma; luca.lanzillo@uniroma1.it

Per tutti i siti web l’ultima consultazione è stata effettuata il 9 maggio 2020.

Abstract

Negli ultimi anni, in ritardo rispetto al panorama internazionale, anche in Italia si è assistito a una rapida crescita dell’attenzione nei confronti della cosiddetta “terza missione dell’università” e dell’impatto della ricerca scientifica al di fuori della comunità degli studiosi.

Parallelamente hanno acquisito una crescente visibilità nel dibattito accademico anche le questioni legate alla cosiddetta “scienza aperta” (open science) – concetto assai ampio sotto al quale si riconducono, sistematizzandole, una serie di idee, strategie e procedure sviluppatesi nel corso degli ultimi decenni all’interno della comunità scientifica (e non solo) – e alla “scienza per/dei cittadini” (citizen science), che possono essere considerate due facce della stessa medaglia. 

In questo dibattito si sono inserite a buon diritto anche le biblioteche accademiche. In una letteratura biblioteconomica sempre più ricca, quantitativamente e qualitativamente parlando, obiettivo dell’articolo è quello di contribuire alla riflessione sul ruolo e sul posizionamento delle biblioteche accademiche – e dei bibliotecari – nell’ambito della “terza missione” e della citizen science, soffermandosi in modo particolare sul tema della cosiddetta “ricerca partecipativa”, cercando di individuare possibili opportunità e criticità.

English abstract

Over the last years, the attention towards “university’s third mission” and research dissemination has grown also within Italian academic debate. At the same time, issues related to “open science” and “citizen science” – two sides of the same coin – have also gained increasing visibility.

Aim of the article is to contribute to the reflection on the role and positioning of academic libraries – and their librarians – within “third mission” and “citizen science” perspective, focusing on potential opportunities and threats.

Introduzione

Negli ultimi anni, in ritardo rispetto al panorama internazionale, anche in Italia si è assistito a una rapida crescita dell’attenzione nei confronti della cosiddetta “terza missione dell’università” e dell’impatto della ricerca scientifica al di fuori della comunità degli studiosi.

Parallelamente hanno acquisito una crescente visibilità nel dibattito accademico anche le questioni legate alla cosiddetta “scienza aperta” (open science) – concetto assai ampio sotto al quale si riconducono, sistematizzandole, una serie di idee, strategie e procedure sviluppatesi nel corso degli ultimi decenni all’interno della comunità scientifica (e non solo) – e alla “scienza per/dei cittadini” (citizen science), che possono essere considerate due facce della stessa medaglia.

In questo dibattito si sono inserite a buon diritto anche le biblioteche accademiche; anzi, nel caso del movimento dell’accesso aperto alla letteratura scientifica (open access) – una delle tessere, la più famosa e “antica”, che compongono il mosaico della scienza aperta – tali istituzioni possono essere considerate il vero soggetto capofila.

In una letteratura biblioteconomica sempre più ricca, quantitativamente e qualitativamente parlando, obiettivo dell’articolo è quello di contribuire alla riflessione sul ruolo e sul posizionamento delle biblioteche accademiche – e dei bibliotecari – nell’ambito della “terza missione” e della citizen science, soffermandosi in modo particolare sul tema della cosiddetta “ricerca partecipativa”, cercando di individuare possibili opportunità e criticità.

In realtà la figura e le competenze del bibliotecario accademico non possono costituire un semplice inciso ma, anzi, sono assolutamente imprescindibili per il corretto posizionamento delle biblioteche in tal senso.

Società della conoscenza e terza missione dell’università

L’odierna “società della conoscenza” (knowledge society) attribuisce alla ricerca scientifica un ruolo centrale nei processi di innovazione in tutti i settori della vita umana: economico, ambientale, politico-istituzionale, sociale, culturale.

Negli ultimi settantacinque anni, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, si è assistito al crescere dell’attenzione della classe politica e dell’opinione pubblica nei confronti delle istituzioni scientifiche: all’università, in particolare, si chiede di interagire maggiormente con il mondo esterno, soprattutto con la sua componente industriale/imprenditoriale, al fine di favorire una diffusione più capillare dei risultati della ricerca – aumentandone dunque le possibilità di impatto sulla società – e di sviluppare percorsi formativi maggiormente aderenti alle richieste del mercato. Alle tradizionali “missioni” di ricerca e insegnamento dell’università, si affianca così una “terza missione” legata alle attività di disseminazione dei risultati della ricerca a un pubblico molto più ampio e variegato rispetto a quello costituito dalla comunità dei ricercatori e degli studenti.

Pensare di realizzare una rassegna completa ed esaustiva sull’argomento è un’attività che può essere definita titanica e senza dubbio non può essere realizzata nel breve spazio di un paragrafo di un articolo, poiché la letteratura scientifica che studia quella che oggi chiamiamo “terza missione dell’università” è assai sviluppata, di natura fortemente trasversale e in continua espansione. In questo paragrafo e nel successivo si forniscono tuttavia alcuni passaggi/riferimenti chiave che permettano al lettore di tracciare una storia dell’evoluzione di questo concetto.

Nella letteratura dedicata ai rapporti scienza-società ha sin da subito prevalso una concezione di trasmissione dei risultati della ricerca nella forma di “trasferimento tecnologico” (technology transfer) che costituisce una visione estremamente riduttiva della grande varietà di scambi possibili tra università e società. Esso, infatti, non è altro che una delle tante declinazioni dei processi di “trasferimento della conoscenza” (knowledge transfer) nel senso di «a series of planned and structured activities aimed at encouraging the use of research-generated knowledge in decision making» e, più in generale, «is the process through which one unit (e.g., group, department, or division) is affected by the experience of another».

La nozione di “trasferimento”, tuttavia, è legata a un’idea di comunicazione tradizionale nella quale un “oggetto” (messaggio) viene spostato da un mittente a un destinatario. La conoscenza, invece, non può essere spostata dal suo contesto di produzione a un altro senza subire variazioni e sono dunque necessarie l’interazione dei soggetti coinvolti e la condivisione dei codici “di scambio”: per tale motivo Andrea Bonaccorsi ritiene più corretto utilizzare l’espressione «trasformazione produttiva della conoscenza».

Nel momento in cui questi contatti/scambi tra università e “mondo esterno” cominciano a “istituzionalizzarsi” – ovvero allorché i rapporti instauratisi tra i singoli ricercatori (o gruppi di ricerca) e l’esterno perdono il loro carattere eminentemente “personale” per via del coinvolgimento delle università che agiscono in qualità di intermediarie – si assiste all’attribuzione formale di nuovi compiti in capo a queste ultime, raccolti sotto il concetto di “terza missione” o “terzo flusso” (third mission, third stream). Lo slittamento terminologico che c’è stato tra “trasferimento tecnologico”, “trasferimento della conoscenza” e infine “terza missione” non è però coinciso con un reale slittamento concettuale, circostanza che ha provocato un’erronea sovrapposizione dei concetti di “trasferimento tecnologico” e di “terza missione”.

In questa missione rientrano infatti tutte quelle azioni riconducibili alla “comunicazione della scienza”, anch’essa oggetto di un progressivo slittamento terminologico dall’iniziale public understanding of science all’attuale public engagement with science and technology, ovvero da una comunicazione unidirezionale (gli scienziati parlano, i cittadini ascoltano) a un dialogo costante tra il mondo della ricerca e il pubblico (anzi, i diversi pubblici). Questo importante passaggio è ben rappresentato dalla metafora elaborata da Pietro Greco: dal modello “fluviale” del Rio delle Amazzoni, che trasporta la conoscenza scientifica dalle alte vette fino all’oceano dei cittadini, si passa al sistema dei canali della laguna veneziana, composta da un arcipelago di isolotti più o meno grandi collegati tra loro da ponti percorsi da flussi bidirezionali.

La terza missione è, in sostanza, il contributo dell’università nella costruzione di una società “culturalmente” attrezzata all’innovazione, nella diffusione della “cittadinanza scientifica”, da non intendere certo come l’instaurazione di una tecnocrazia quanto piuttosto come l’impegno nel fornire ai cittadini gli strumenti critici per comprendere e intervenire consapevolmente sulla realtà che li circonda e “socializzare” la scienza e la tecnologia.

La scienza aperta e la citizen science

La knowledge society attribuisce alla ricerca e alla conoscenza scientifica il ruolo di motore del progresso e di innovazione in tutti i settori della società. Poiché la creatività e la capacità di produrre nuova conoscenza sono sempre più la chiave per l’ingresso nel mercato del lavoro, si rende necessario creare le opportunità per un più ampio accesso possibile alla conoscenza e alla sua materia prima, l’informazione, da parte della più ampia platea possibile.

Accanto ai risvolti economici ci sono ovviamente quelli di natura etico-politica legati all’accesso alla conoscenza per un libero e corretto esercizio della democrazia: al fine di poter esercitare pienamente i propri diritti di cittadinanza – che, si è detto, deve essere anche una cittadinanza scientifica – tutti dovrebbero essere messi nelle condizioni di acquisire gli strumenti cognitivi necessari a comprendere la realtà e i fenomeni con i quali la società odierna deve confrontarsi e per i quali la ricerca scientifica rappresenta una chiave di lettura imprescindibile.

L’assunto alla base della scienza aperta è che la conoscenza sia un bene comune e che, in quanto tale, nessun individuo possa essere escluso dalla sua fruizione; nel caso poi della conoscenza scientifica prodotta in seno a istituzioni pubbliche – le università – si tratta addirittura di un “bene pubblico” a tutti gli effetti. In realtà Andrea Cerroni sottolinea come la conoscenza scientifica non sia per sua natura un bene pubblico naturale, quanto piuttosto “progettuale”, ovvero lo è solo se chi la produce si attivi per renderla tale.

La filosofia open nel mondo della ricerca nasce e si sviluppa principalmente nell’accezione di “accesso aperto alla letteratura scientifica” (open access), abbracciando progressivamente tutte le altre “sfere” del processo di produzione e diffusione della ricerca scientifica, nonché la politica della ricerca. La “scienza aperta” (open science) è dunque da intendersi come l’insieme di

pratiche quali l’apertura dei dati (Open (research) Data), dei testi degli articoli scientifici (Open Access), del materiale didattico (Open Educational Resources), l’uso di metodologie aperte durante l’intero ciclo della ricerca (Open Methodology, fra cui gli Open Notebook), la pratica di pre-registrare gli esperimenti (Pre-Registration), l’uso di software aperto (Open Source), l’adozione di pratiche aperte anche nella revisione dei pari utile a verificare la qualità dei lavori scientifici (Open Peer Review). Fa parte della Open Science anche il concetto parallelo di Citizen Science, la scienza dei cittadini, intesa sia come divulgazione sia come partecipazione attiva dei cittadini nella raccolta dei dati.

Accanto al tema della scienza aperta assume un ruolo strategico quello della citizen science, da intendersi nella duplice accezione di “scienza a favore dei cittadini” e – soprattutto – di “scienza fatta dai cittadini”. Al pari della comunità scientifica, anche la comunità dei cittadini-ricercatori ha oramai un’identità e una dimensione globale, al punto da stimolare la costituzione di vere organizzazioni che promuovono il movimento: l’Australian Citizen Science Association (ACSA), la Citizen Science Association (CSA) e l’European Citizen Science Association (ECSA) sono tra le più importanti e attive, promuovendo anche conferenze e iniziative di sensibilizzazione al tema.

Sebbene il concetto sia stato formalizzato solo in anni recenti con il suo inserimento nella lista di parole nuove del dizionario Oxford English, le sue radici sembrano risalire già alle porte del XX secolo, quando Frank M. Chapman propose nell’inverno del 1900 la prima attività di Christmas bird count, un conteggio di uccelli in contrapposizione al Christmas side hunt, una gara di caccia a uccelli e mammiferi. Il settore della ricerca naturale e ambientale è quello che per primo e in maniera più diffusa ha dedicato attenzione a questo tema, riconoscendo le potenzialità di una raccolta dati diffusa sul territorio, ben presto imitato e affiancato anche da altri settori scientifici; il movimento conta oggi numerose piattaforme web sulla quale vengono portati avanti migliaia di progetti.

Nell’ottica delle discipline sociali e umanistiche, la citizen science può essere declinata nella forma di “ricerca partecipativa” ricorrendo al concetto del crowdsourcing, mutuato principalmente dalla letteratura della computer science. Estellés-Arolas e González-Ladrón-de-Guevara rilevano che il pubblico (crowd) è molto eterogeneo e può essere coinvolto in molteplici tipologie di attività, dalla più ripetitiva alla più complessa, per le quali esso deve ricevere un riconoscimento per il solo fatto che le svolga in forma volontaria. Il soggetto che “chiama a raccolta” questo pubblico ottiene innanzitutto la risoluzione di un problema, beneficiando del suo contributo anche in termini di esperienze, conoscenze e risorse.

Nell’ambito delle discipline sociali e umanistiche, anche grazie alla rapida crescita e affermazione dell’informatica umanistica (digital humanities), sta crescendo l’attenzione nei confronti del crowdsourcing e dei suoi potenziali sviluppi, anche in chiave terza missione e disseminazione della conoscenza. La stessa attenzione sta aumentando nel contesto delle istituzioni del patrimonio culturale – che per i ricercatori costituiscono, al contempo, canale di accesso e laboratorio di produzione della conoscenza – e la letteratura sul tema cresce di pari passo.

Un’altra importante declinazione di citizen science che ben si adatta alle riflessioni condotte in queste pagine è quella della “storia pubblica” (public history). Si tratta di un movimento che in Italia sta crescendo rapidamente e può essere forse considerato l’esempio più diffuso di divulgazione scientifica e di scienza aperta in riferimento alle scienze umane e sociali. Anche in questo caso, come per il crowdsourcing, si tratta di un concetto che affonda le sue radici nel tempo, in Italia probabilmente già dal XIX secolo, raggiungendo in questi anni una piena maturità e un riconoscimento condiviso, potendo vantare un’ampia letteratura di respiro nazionale, internazionale e interdisciplinare.  

La situazione italiana e le azioni messe in campo dalle biblioteche accademiche

In Italia il dibattito accademico sulla terza missione si è sviluppato tardi rispetto al panorama internazionale e principalmente in funzione della sua valutazione: il tema viene infatti affrontato per la prima volta nell’ambito dell’esercizio di Valutazione della qualità della ricerca (VQR) 2004-2010. Fino a quel momento, l’ordinamento italiano non presentava ancora riferimenti normativi relativi alla terza missione. Quando questo avviene, con il decreto ministeriale 47/2013, il concetto di terza missione continua a essere affrontato esclusivamente dal punto di vista valutativo: il decreto, infatti, riporta in allegato l’elenco degli indicatori e parametri da considerare per la valutazione periodica della terza missione. In sintesi, la terza missione va misurata, ma non ci si preoccupa di discuterne una cornice teorica in cui inserirla: esiste e quindi deve essere valutata.

A questo decreto sono seguiti una serie di incontri pubblici di approfondimento, un manuale per la valutazione predisposto dall’Anvur nel quale vengono definite le tipologie di attività, le fonti di dati ammesse, i criteri e i parametri di valutazione da seguire e la costituzione di una Commissione di esperti di valutazione della terza missione (CETM) in vista del successivo esercizio VQR 2011-2014. Tale commissione è stata poi sostituita da un Gruppo di lavoro Terza missione e impatto sociale (TeMI) che ha contribuito a elaborare le linee guida più recenti per la rilevazione e il monitoraggio delle attività di terza missione delle università italiane, inserite nell’ambito della Scheda unica annuale Terza missione e impatto sociale (SUA-TM/IS).

In linea generale, l’Anvur ha individuato due macroaree di intervento relative alla terza missione, quella di “valorizzazione della ricerca” e quella di “produzione di beni pubblici” ed è in questo secondo filone che si può inserire l’azione specifica della biblioteca accademica.

Anche nel dibattito biblioteconomico italiano si è cominciato a ragionare da qualche anno sulle opportunità che la terza missione può riservare alle nostre istituzioni bibliotecarie, coinvolgendo vari settori della comunità professionale, non solamente quello universitario.

Maria Cassella individua quattro aspetti da curare affinché la biblioteca accademica possa rispondere alle istanze della missione sociale dell’Università: lo spazio della biblioteca, la gestione dei regolamenti e delle licenze, l’implementazione delle tecnologie e la fruizione dei servizi. Ciascuno di questi aspetti viene trattato nell’ottica di favorire l’ingresso degli “esterni” (cittadini, professionisti, imprese ecc.) all’interno dello spazio universitario, abbattendo le “recinzioni” – fisiche, normative, strumentali – che potrebbero limitarne l’accesso ai soli utenti interni della comunità universitaria. Sulla scia di queste analisi, Cassella ha recentemente proposto una riflessione su possibili nuovi modelli biblioteconomici sui quali ripensare la biblioteca accademica e la sua «identità plurale».

Se da un lato il dibattito affronta il tema della percezione della biblioteca e della necessità di una sua riconfigurazione al fine di adattarsi alle “nuove” istanze della terza missione, dall’altro l’attenzione è rivolta alla valorizzazione delle raccolte e alla narrazione/promozione delle numerose e variegate attività socioculturali che le biblioteche hanno messo in campo per supportare la terza missione con il proprio contributo, tra spazi fisici e virtuali.

Sul versante della valorizzazione del patrimonio storico – unico ambito nel quale le biblioteche sono esplicitamente citate da Anvur nelle Linee guida per la SUA-TM/IS – si sta lavorando nella direzione di una elaborazione e sistematizzazione di modelli e buone pratiche per supportare le istituzioni nei loro progetti. In tal senso i lavori più significativi sono quelli di Anna Bernabè e Paolo Tinti e di Fiammetta Sabba e Lucia Sardo: in entrambi i casi c’è un approccio integrato e attento alla sostenibilità nel lungo periodo, affinché il lavoro di valorizzazione non si riduca all’iniziativa isolata ma produca risultati nel tempo.

Per quanto riguarda le iniziative messe in campo dalle biblioteche sul fronte del public engagement, il numero è cresciuto esponenzialmente, mettendo in luce una fervida e copiosa attività da parte del personale coinvolto, tra cui: progetti di Servizio civile e di alternanza scuola lavoro, conferenze, presentazioni di libri e manifestazioni culturali in generale, costituzione di gruppi di lettura, laboratori per bambini, attività di formazione continua.

Come evidenziano giustamente Fiammetta Sabba e Lucia Sardo, sebbene molte di queste attività non siano una novità per le biblioteche delle università, è possibile ora inquadrare più coerentemente nel contesto del panorama accademico iniziative «spesso non correlate o lasciate alla buona volontà, alla passione, al caso e al (poco) tempo dei bibliotecari», ma per le quali deve esserci la «consapevolezza che oltre ad avere una ricaduta sociale, [… dovrebbero generare] anche un impatto positivo sulle attività ordinarie delle strutture e nel momento della valutazione, altrimenti gli sforzi fatti saranno inevitabilmente penalizzati e marginalizzati a fronte di attività ed erogazione di servizi con un maggiore impatto valutativo».

La ricerca partecipativa tra supporto alla ricerca e terza missione

Come si inserisce nel contesto delle biblioteche accademiche il tema della citizen science, declinato dal punto di vista della ricerca partecipativa?

La questione è piuttosto interessante e ha il pregio di mettere in sinergia tra loro diversi ambiti dell’attività istituzionale delle biblioteche accademiche, senza correre il rischio di “sviarle” dai loro obiettivi e di ridurre il loro impatto (reale e potenziale) sulla comunità di riferimento. Anzi, proprio alla luce delle “nuove” responsabilità di cui l’università del XXI secolo è investita, il rapporto tra le sue biblioteche e la citizen science può forse assumere un carattere paradigmatico, divenendo nel tempo uno degli indicatori del loro impatto (reale e potenziale) sulla comunità di riferimento e su un bacino ben più vasto della sua utenza istituzionale, se non addirittura il principale.

Se ne discute nel paragrafo conclusivo, ma l’impianto del discorso parte da un presupposto ben preciso: per quanto la terza missione abbia prodotto una moltiplicazione di pubblici, è importante sottolineare che la terza missione è “dell’università”, non delle sue biblioteche. E lo stesso discorso vale per questi “nuovi” pubblici. Il che non significa che le biblioteche non debbano dare il proprio contributo, ma lo devono fare mettendo in campo le proprie specificità, nel contesto di una strategia politica dell’università, una strategia che deve essere sostenibile e lungimirante.

Prendendo in prestito le parole dell’Associazione italiana biblioteche, bisogna chiedersi «Che cos’è una biblioteca [accademica]?». Essa è – o deve essere – una infrastruttura di ricerca (reserch infrastructure), intesa come una struttura che fornisce risorse e servizi alle comunità di ricerca per condurre ricerche e promuovere l’innovazione. Può essere utilizzata al di là della ricerca (per l’istruzione o i servizi pubblici), e può essere a sito unico, distribuita o virtuale.

Le attività di citizen science declinate nella forma della “ricerca partecipativa” permettono alla biblioteca accademica – anzi, al sistema bibliotecario di ateneo – di esprimere interamente la sua natura di infrastruttura della ricerca ponendosi come punto di accesso alla conoscenza scientifica, nonché laboratorio e strumento per elaborarne di nuova.

Coinvolgere i cittadini attraverso progetti di crowdsourcing è una sfida difficile ma estremamente importante innanzitutto per la valorizzazione delle biblioteche digitali intese sia come patrimonio culturale digitalizzato sia come depositi di dati. La profilazione del cittadino-ricercatore permette di elaborare degli indici di affidabilità dei dati immessi per un controllo automatico dato dall’applicazione di algoritmi e di tecniche di machine learning; accanto a questi, la costituzione di una comunità aperta di cittadini che collaborano all’arricchimento del patrimonio digitale sul modello dell’esperienza wiki permette una correzione comunitaria e vicendevole, in cui ciascun partecipante mette a disposizione le proprie conoscenze e trae vantaggio da quelle altrui.

Al di là dei modelli teorici sulla partecipazione sociale e degli aspetti tecnici di implementazione delle biblioteche digitali, il nodo fondamentale è un altro: le biblioteche accademiche, in quanto infrastrutture della ricerca, devono orientare le loro strategie interamente a favore del supporto alla ricerca, comprese le attività di terza missione.

Le attività di citizen science di una biblioteca accademica devono essere studiate nell’ottica della raccolta di dati funzionali alla creazione di nuovi strumenti di ricerca e all’arricchimento di quelli esistenti a vantaggio dei ricercatori – in modo particolare gli umanisti, ma non solo – che potranno contare su fonti/documenti “potenziati”, che a loro volta potranno arricchire in fase di ricerca.

I risultati di queste ricerche andranno poi adeguatamente valorizzati tramite strategie di comunicazione tese a riconoscere il merito della partecipazione dei cittadini, incoraggiandoli a contribuire ulteriormente in futuro, innescando auspicabilmente un desiderio crescente di avvicinamento alla conoscenza: questo dovrebbe essere il contributo delle biblioteche a supporto della missione dell’università nella costruzione di una società “culturalmente” attrezzata all’innovazione, nella diffusione della “cittadinanza scientifica”.

In questo modo la biblioteca accademica può dunque porsi (e proporsi) come lo spazio nel quale costituire la moderna e rinnovata Agorà che Nowotny, Scott e Gibbons definiscono come «a highly articulate, well-educated population, the product of an enlightened educational system».

Le biblioteche – come qualsiasi tipo di organizzazione – funzionano nella misura in cui sono gestite da personale qualificato. Quali devono essere dunque le competenze del bibliotecario accademico in un orizzonte di questo tipo in cui la terza missione è “funzionale” al supporto alla ricerca? Tali competenze non sono diverse da quelle “classiche” di un bibliotecario – ovvero uno specialista dell’organizzazione della conoscenza – ma nel tempo sono state delineate una serie di figure professionali più specifiche dedicate al mondo accademico.

Il bibliotecario impegnato in attività di citizen science deve saper padroneggiare l’indicizzazione, la costruzione di thesauri e il controllo di autorità; deve sapere costruire dei repository istituzionali più amichevoli anche per chi, al di fuori della comunità scientifica, voglia accedere alla conoscenza che vi è custodita; deve saper mettere in connessione tra loro i dati per armonizzare e moltiplicare le possibilità di recupero e visualizzazione. Così facendo il bibliotecario raffina e rende ricercabile dagli specialisti il contributo fornito dalla comunità dei non esperti, dei volontari; allo stesso modo, i dati raccolti costituiscono un patrimonio importante per indagini in molteplici settori di studio.

Ed è anche un bibliotecario-ricercatore, ovvero un professionista in grado di comprendere i meccanismi della ricerca e di elaborare delle strategie, non tanto nel senso dell’information retrieval, quanto in quello del “saper fare ricerca”, sia per sviluppare una maggior empatia nei confronti dei ricercatori, sia per poter insegnare un metodo ai cittadini-ricercatori.

Alcuni spunti di riflessione (conclusivi e, allo stesso tempo, preliminari)

Fare attività di “terza missione” per una biblioteca accademica significa rivolgersi a pubblici differenti dal passato al fine di potenziare la sua missione principale, che è quella di essere una infrastruttura di ricerca nel contesto della società della conoscenza.

In quanto tale, essa deve essere in grado di educare alla ricerca scientifica e dare l’occasione di farne esperienza: nella società della conoscenza, l’originalità e la creatività sono il motore dell’innovazione ma – al netto di individui particolarmente dotati – queste sono caratteristiche che devono essere coltivate (il “talento scientifico” di cui parla Vannevar Bush). Il “cittadino scientifico” è colui che è in grado di progettare e, attraverso la progettazione, è in grado di acquisire lungimiranza, di risolvere problemi. La biblioteca deve supportare l’Università nella diffusione di un metodo, che è quello della ricerca, in un mondo in continua evoluzione, in cui la cultura sta cambiando forma e sembianze.

Si è già affermato che la terza missione è “dell’università” e non delle sue biblioteche; esse, pertanto, debbono essere in grado di mettere in campo le proprie specificità, inserendosi e armonizzandosi nella strategia di ateneo. Mi si permetta una provocazione: l’Ufficio stipendi – come le biblioteche – è una struttura dell’università, ma non fa di certo attività di terza missione. Per assurdo, se un Ufficio stipendi di un’università iniziasse a gestire principalmente le buste paga degli impiegati di altra amministrazione, trascurando i propri utenti istituzionali, sorgerebbero probabilmente delle proteste. È forse un paragone iperbolico, ma credo possa costituire ugualmente uno spunto di riflessione.

È stato detto cosa sia la biblioteca accademica, giova tuttavia ricordare anche cosa essa non sia. Ebbene, la biblioteca accademica non è una biblioteca di pubblica lettura: sono istituzioni che hanno mission (in senso biblioteconomico) assai differenti tra loro.

Fare terza missione non può comportare la trasformazione della biblioteca accademica in una biblioteca di pubblica lettura, perché il vuoto che si verrebbe a creare non potrebbe essere colmato da altre istituzioni, né tantomeno la biblioteca accademica può pensare di sostituirsi a una biblioteca pubblica.

Si pensi, ad esempio, all’alternanza scuola lavoro, oramai molto diffusa, a volte utilizzata come spunto per avviare una biblioteca scolastica, spiegando agli studenti cosa sia una biblioteca e come si gestisce. È corretto che questa attività venga svolta dall’università e non da una biblioteca di pubblica lettura? La mission di quest’ultima, infatti, è senz’altro molto più affine a quella di una biblioteca scolastica e con essa potrebbe sviluppare un rapporto più sostenibile nel tempo, diventando un punto di riferimento molto più incisivo. Col rischio, ad esempio, di tralasciare la formazione permanente degli adulti e dei professionisti, che potrebbero trarre grande beneficio dall’accesso alla letteratura scientifica ad accesso aperto.

La biblioteca accademica deve interagire con le biblioteche pubbliche sul territorio, mettendole in contatto con il mondo della ricerca e individuando insieme opportunità di disseminazione della conoscenza, senza sostituirsi ad esse.

Sabba e Sardo sottolineano che le attività di terza missione non siano necessariamente uno strumento di advocacy per la biblioteca accademica, potendo avere al contrario effetti deleteri: «non dare un senso a quello che si fa, non inserirlo in una programmazione e pianificazione ben definita può creare spaesamento nel pubblico potenziale, e quindi non avere gli effetti sperati». Allo stesso modo, è pienamente condivisibile la loro riflessione sulla necessità di considerare attentamente la professionalità del bibliotecario, evitando di avviare attività in maniera improvvisata o in autonomia: «come giustamente i bibliotecari rivendicano la propria professionalità, altrettanto giustamente vanno riconosciute le professionalità altrui, per cui è opportuno individuare le figure professionali con cui collaborare per la buona riuscita delle attività».

Il tema della terza missione può essere davvero l’occasione giusta per riflettere sul ruolo e sulle funzioni della biblioteca accademica del XXI secolo, nonché sui destinatari della sua azione e sull’impatto che su di essi possono avere. Questo è ancora più vero – e urgente – nel contesto di una stagione valutativa che sta modificando rapidamente il mondo della ricerca e le aspettative nei confronti dell’università, nella quale l’identità della biblioteca accademica rischia concretamente di confondersi con quella di altre tipologie di biblioteche. E con lei anche l’identità dei suoi bibliotecari.

In un mondo sempre più rapido e in costante mutamento non possiamo però pensare di rinunciare a infrastrutture dalle fondamenta solide e profonde che permettano di lanciarsi verso il futuro con consapevolezza e determinazione.