N.1 2018 - I modelli biblioteconomici

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Oltre l’accesso: modelli partecipativi delle biblioteche accademiche

Anna Maria Tammaro

International Master DILL, Università di Parma; annamaria.tammaro@unipr.it

Per tutti i siti web l’ultima consultazione è stata effettuata il 4 maggio 2018.

Abstract

Le biblioteche accademiche sono sempre di più integrate nel ciclo della ricerca, spinte a nuove partnership con le comunità accademiche. Questo modello di servizio delle biblioteche universitarie è chiamato “partecipativo” ed è la trasformazione del modello tradizionale basato sull’accesso. Sulla base di una serie di indagini, si intende analizzare le tendenze di innovazione dei servizi delle biblioteche universitarie in Italia.

Dopo aver definito i due modelli di servizio, quello dell’accesso e quello partecipativo, sono descritte le nuove partnership definite come progetti consultativi, collaborativi, di co-creazione, ospitati. Il punto di partenza è il cambiamento di come le comunità accademiche creano conoscenza e di come le biblioteche accademiche italiane, che sono state storicamente luoghi in cui ricevere informazioni, possono ora diventare spazi in cui le comunità possono dare informazioni e non solo riceverne. In conclusione, avviare partnership con i ricercatori offre diverse opportunità alle biblioteche accademiche, ancora da esplorare.

English abstract

Academic libraries are increasingly integrated into the research cycle, driven to new partnerships with academic communities. This service model of university libraries is called “participatory” and is the transformation of the traditional model based on access. Based on a series of surveys, we intend to analyse the innovation trends of university libraries’ services in Italy.

After defining the two service models, access and participatory models, the new partnerships are described, such as consultative, collaborative, co-creation, hosted projects. The starting point is the change in how academic communities create knowledge and how the Italian academic libraries, which have historically been places to receive information, can now become spaces in which communities can give information and not only receive it, describing the innovative services that have been launched. In conclusion, partnerships with researchers offer various opportunities for academic libraries, yet to be explored.

 

Introduzione

Termini come “teoria” e “modelli” possono confondere i lettori. Come dice Bates: «a theory is a system of assumptions, principles, and relationships posited to explain a specified set of phenomena [...] The core meaning of theory centres on the idea of a developed understanding, an explanation, for some phenomenon». Nello stesso articolo Bates chiarisce che «models are characterised as description, prediction, [and] explanation».

Un modello quindi descrive un fenomeno, mentre una teoria spiega perché il fenomeno succeda. In questo articolo, si intende usare il modello di servizio partecipativo come cornice di riferimento: lo scopo è quello di descrivere alcuni servizi innovativi delle biblioteche accademiche in Italia. Anche se non si vuole fornire un modello a cui le biblioteche universitarie dovrebbero conformarsi passivamente, si propone il modello di servizio partecipativo come quadro concettuale che aiuti a orientare e a chiarire quale potrebbe essere una trasformazione dei servizi adeguata al cambiamento attuale nella produzione di ricerca scientifica. 

Il modello dell’accesso

Il modello dell’accesso è quello a cui le biblioteche accademiche si sono tradizionalmente adeguate. Il modello dell’accesso (Fig. 1) è un modello unidirezionale: le biblioteche, come intermediarie, consentono l’accesso ai destinatari della comunicazione scientifica, di solito lettori di libri e articoli scientifici. Le biblioteche accademiche hanno svolto questo ruolo attraverso lo sviluppo delle collezioni e offrendo servizi come cataloghi e banche dati, con la funzione di garantire l’accesso bibliografico e fisico alle collezioni. In questo modello, le biblioteche accademiche non hanno collaborazioni con il ciclo della creazione di conoscenza e quindi hanno una relazione marginale con gli autori che creano contenuti. Hanno invece relazioni con gli editori, facendo parte della stessa filiera di servizi nel ciclo delle pubblicazioni, con il ciclo dell’accesso che inizia a partire dalla pubblicazione.

Figura 1 Ciclo dell’accesso e della pubblicazione.

Anche se ha funzionato bene per vari anni, il modello dell’accesso è entrato in crisi. Il costo crescente delle riviste scientifiche, di gran lunga superiore all’inflazione, la proliferazione di nuove riviste sempre più specializzate, l’insufficienza dei bilanci delle biblioteche per tenere il passo con questi costi e l’aumento delle testate, fase chiamata “crisi dei periodici scientifici”, è stato il primo fattore di crisi. Successivamente la diffusione delle riviste elettroniche e la scelta di molte biblioteche di passare al formato digitale non ha risolto la crisi, anzi l’ha aggravata causando la “crisi dell’accesso” con le restrizioni delle licenze. Le biblioteche accademiche hanno reagito a queste crisi organizzando consorzi per acquisti cooperativi delle risorse elettroniche e anche promuovendo l’Open Access, ma senza cambiare molto il modello di servizio.

Finora l’orientamento delle università è stato guidato dal deficit model : le relazioni tra conoscenza scientifica e destinatari della comunicazione scientifica sono individuate nel bisogno di riversare informazioni sempre maggiori. Il deficit model dal punto di vista delle biblioteche può essere identificato nel concetto di accrescere e mantenere la collezione esistente e, in quanto tale, renderla “accessibile”, invece di considerare l’uso che realmente viene fatto di questa collezione come relazione tra collezione, utenti e usi. Le nuove possibilità di accesso in linea alle collezioni digitali sono state interpretate genericamente come aspettativa degli utenti di un accesso esteso a tutte le informazioni disponibili. Anche i sistemi cooperativi come i consorzi, i sistemi bibliotecari e le reti bibliotecarie si sono concentrati sugli acquisti e sui sistemi bibliografici.

L’attuale sfida per le biblioteche accademiche non è semplice: devono adattarsi alle nuove regole del mondo digitale, descritto da Weinberger come “un elogio del disordine”. Tradizionalmente, le biblioteche accademiche hanno cercato di controllare e organizzare le informazioni contenute nelle pubblicazioni a stampa e raccolte in spazi fisici, mentre ora l’informazione è immateriale e non legata a spazi fisici.

Il modello tradizionale dell’accesso, definito da Lorcan Dempsey outside out, cioè basato sulla raccolta di risorse prodotte all’esterno dell’istituzione universitaria, in ambito digitale non è più adeguato ai bisogni degli utenti. Dempsey ha affermato che serve un’estensione del modello dell’accesso come inside out: occorre concentrarsi sui risultati di ricerca ottenuti all’interno dell’istituzione universitaria, che devono venire disseminati e resi visibili all’esterno, per facilitare condivisione e collaborazione. Anche l’attuale catalogo non è più adeguato nel contesto digitale: si passa da un approccio di descrizione della collezione a un sistema di ricerca integrato «aggregating data from many sources, providing an integrated index, and typically access to a centralized or “cloud-based” resource».

Gli attuali modelli di utilizzo riflettono i bisogni o i desideri effettivi degli utenti? O anche gli utenti fanno buon uso del potenziale informativo raccolto nelle collezioni delle biblioteche? Una delle rivoluzioni più importanti dell’“ecosistema digitale” è in realtà il cambiamento radicale del ruolo dell’utente, che è passato da osservatore passivo ad agente attivo e produttore di contenuti e anche servizi. Nell’approccio del modello dell’accesso, l’organizzazione delle biblioteche accademiche ha avuto relazioni con gli utenti limitate. In un contesto sempre più digitale, le biblioteche accademiche hanno interpretato l’accesso esteso come “fai da te”, aumentando così la distanza con gli utenti “remoti”. Non si intende dire che il modello dell’accesso non sia orientato all’utente, ma che il modello è unidirezionale, in quanto vede i bibliotecari come fornitori di informazioni e gli utenti come destinatari passivi.

Il punto di partenza della trasformazione del modello dell’accesso è invece quello di recuperare una relazione privilegiata con gli utenti, in cui gli utenti non si limitano a ricevere informazioni, ma sono messi in grado di contribuire attivamente e la relazione con gli utenti divenga “bi-direzionale”. La trasformazione delle biblioteche accademiche è quindi guidata da nuovi concetti, come engagement, crowdsourcing, collaborazione e co-creazione, che introducono il modello partecipativo dei servizi.

Il modello partecipativo

L’idea di un approccio “partecipativo” è stata introdotta per la prima volta per il disegno dei sistemi informativi nell’area del computer supported cooperative work. Poiché il computer è diventato parte della vita delle persone, gli autori affermano che chi userà il sistema deve essere coinvolto nella progettazione dei sistemi informativi fin dall’inizio e non solo nelle fasi finali di test. La domanda chiave del disegno partecipativo è “chi fa cosa a chi?”, cercando di individuare quali obiettivi abbiano i diversi attori, chi inizia l’azione e per quale motivo, chi definisce il problema e chi decide che c’è un problema. Il concetto importante è che il disegno partecipativo dei sistemi informativi inizia una nuova relazione tra informatici e utenti, con gli informatici che si concentrano sui contesti di lavoro o di studio, le attività e le relazioni personali degli utenti per disegnare quello che i sistemi informativi possono fare.

Nella scienza dell’informazione, la cornice concettuale associata all’approccio partecipativo è quella dei sistemi socio-tecnologici, che pongono l’utente al centro e considerano i tre livelli di interazione coinvolti: il livello tecnologico, i diversi fattori umani e il livello sociale (inteso come fattori politici e organizzativi). La teoria alla base dei sistemi socio-tecnologici è quella della rete di attori ANT (actor network theory) per descrivere e spiegare l’impatto dell’interazione uomo-macchina. Questa teoria riconosce che ogni invenzione umana non è la creazione di un inventore isolato, ma è il risultato di una rete di attori che condividono le loro conoscenze e che usano tecnologie e strumenti di ricerca vari per arrivare ai loro risultati di ricerca.

La cultura partecipativa è stata analizzata anche dagli studiosi dei media come Jenkins e altri, che evidenziano come l’approccio partecipativo abbia come risultati positivi sia quello di facilitare il coinvolgimento attivo di ciascuno nella comunità, sia quello di stimolare la creatività, proprio al contrario dei risultati di una cultura che vede l’utente passivo (consumatore). Sottolineando i contesti sociali e culturali della cultura della partecipazione, gli autori sostengono un passaggio di prospettiva che va oltre l’espressione personale individualizzata del “farlo da soli” e stimola l’etica di “farlo insieme”. Un altro autore che ha contribuito al dibattito sulla cultura partecipativa è Surowiecki con la sua idea della saggezza della folla. L’autore sostiene che le persone, quando agiscono in massa, sono più intelligenti di quanto pensiamo.

Da questi diversi approcci multidisciplinari, la cultura partecipativa è stata integrata presto nelle istituzioni culturali, come evoluzione del servizio centrato sull’utente visto come consumatore. Il modello partecipativo è stato in particolare promosso da politiche a livello internazionale e locale. Le recenti conclusioni del Consiglio dell’Unione europea, ad esempio, hanno riconosciuto che il patrimonio culturale è una «risorsa per un’Europa sostenibile» e hanno sottolineato che «la governance partecipativa del patrimonio culturale offre opportunità per promuovere la partecipazione democratica, la sostenibilità e la coesione sociale e per far fronte alle sfide sociali, politiche e demografiche in Europa».

Alcuni autori definiscono il modello partecipativo in modo superficiale come attività delle istituzioni culturali di avviare genericamente approcci partecipativi con «un gruppo di individui di varia conoscenza, eterogeneità e numero», che intraprendono volontariamente un compito proposto da un’organizzazione. Il modello partecipativo è stato applicato da biblioteche, archivi e musei a diversi livelli di partecipazione con le comunità di utenti e tende a concentrarsi su tre concetti fondamentali: la piattaforma, la trasformazione dei servizi, la co-creazione dei contenuti.

Per i musei partecipativi Nina Simon ha promosso l’idea di musei come piattaforme che collegano diversi utenti che collaborano in ruoli diversi e favoriscono la loro partecipazione attiva. Isto Huvila descrive le caratteristiche dell’archivio partecipativo come attività di curation decentralizzata, orientamento radicale all’utente e contestualizzazione nelle comunità sia dei record che dell’intero processo archivistico. Il modello proposto da Huvila di archivio partecipativo è simile al modello di archiviazione partecipativa di Shilton e Srinivasan.

Per le biblioteche, Lankes e Silverstein hanno introdotto il concetto di “biblioteca partecipativa” per la prima volta durante il convegno COLIS “Featuring the Future” (Borås, 13th-16th August 2007), presentando il lavoro Participatory networks: the library as conversation. L’approccio partecipativo si basa sul facilitare le conversazioni e le relazioni bi-direzionali tra biblioteca e comunità di utenti.

Il concetto di biblioteca partecipativa presentato dagli autori ha diversi aspetti innovativi.

Dal punto di vista più teorico, la presentazione di Lankes e Silverstein invita a ripensare la missione della biblioteca usando la teoria delle conversazioni come fondamento della creazione di conoscenza. La biblioteca ha la missione di facilitare la creazione della conoscenza attraverso le conversazioni.

C’è una differenza sostanziale tra i servizi organizzati seguendo il modello tradizionale dell’accesso e il modello partecipativo. Il modello dell’accesso vede le biblioteche come fornitrici di risorse e gli utenti come ricevitori passivi, chiamati anche “consumatori”. Il modello partecipativo vede la biblioteca avviare una relazione bi-direzionale con comunità attive di utenti (chiamati membri), considerati co-autori e co-gestori delle risorse e dei servizi. La biblioteca partecipativa stimola le connessioni interpersonali con un passaggio all’etica del “farlo insieme”. Lo scopo della biblioteca partecipativa non è quindi quello di rendere l’utente autonomo in un contesto “disintermediato”, ma quello di stimolare la condivisione, la collaborazione e la cooperazione. L’accesso come conseguenza è esteso a conoscenze ed esperienze condivise delle comunità e idee dei singoli membri. Viene quindi respinto energicamente il deficit model come definito sopra.

Il primo impatto di questo cambiamento di prospettiva è sui servizi e il servizio che più facilmente si trasforma nel concetto della biblioteca partecipativa è il reference, che si basa sulla conversazione tra bibliotecari e utenti. In particolare il reference attuato nella biblioteca partecipativa accoglie e abbraccia le opinioni delle comunità di utenti, che vengono coinvolti nel servizio. Lankes e Silverstein nella loro presentazione a COLIS presentano una roadmap dello sviluppo possibile delle biblioteche verso una vera e propria biblioteca “partecipativa”, in cui le comunità fanno parte del processo di gestione dei servizi di reference del sistema bibliotecario. 

Figura 2 Roadmap della biblioteca partecipativa.

A partire da sinistra nella Fig. 2 si trovano i sistemi attuali di ricerca, aggregati dal sito web della biblioteca: questa organizzazione genera confusione nelle comunità, che non capiscono bene le specificità dei diversi strumenti di accesso. I singoli sistemi informativi attuali (come il catalogo) come anche quei servizi avanzati di ricerca in evoluzione (come la ricerca aggregata e federata), devono essere semplificati per ottenere l’obiettivo di facilitare la creazione di conoscenza. La soluzione finale prospettata dagli autori è quella di aggregare i sistemi in un community repository e un enhanced catalog che riduce la complessità attuale. Soprattutto in questa roadmap, gli autori evidenziano il cambiamento di prospettiva, centrato sulle connessioni interpersonali, cioè favorendo le conversazioni tra membri e tra membri e autori, anche attraverso la mediazione di un documento.

Il modello della “biblioteca partecipativa” è stato successivamente approfondito da Lankes nell’Atlas of new librarianship, che ha chiarito i punti fondamentali:

  1. la biblioteca “partecipativa” ha la missione di facilitare la creazione di conoscenza;
  2. le comunità hanno un ruolo attivo;
  3. i servizi sono co-gestiti dalle comunità e integrati nel ciclo dinamico della creazione di conoscenza.

Quello che è importante capire è che non si deve aspettare che i membri della comunità vengano in biblioteca. I nuovi bibliotecari sono definiti embedded librarian o anche liason librarian: questo a indicare che i bibliotecari vanno fuori dalle biblioteche e sono dove sta la comunità.

La biblioteca “partecipativa” è sia un luogo fisico che uno spazio virtuale. La piattaforma come infrastruttura tecnologica favorisce il modello di servizio delle biblioteche partecipative, liberando le biblioteche da compiti ripetitivi, per concentrare ogni risorsa nella missione di facilitare la creazione della conoscenza. La prospettiva della biblioteca partecipativa tuttavia non è legata specificamente alla tecnologia.

Una classificazione dei servizi partecipativi può essere utile per capire le diverse tipologie di partnership e i servizi possibili. Bonney e altri in Public participation in scientific research (PPCR) hanno elencato nel campo dell’educazione scientifica tre principali modalità di partecipazione delle comunità nell’ambito della ricerca:

  • Progetti contributivi: questi sono progettati da professionisti, in cui i membri della comunità sono invitati a fornire dati e contenuti;
  • Progetti di collaborazione: sono progettati dai professionisti in stretta collaborazione coi membri della comunità, che contribuiscono nei contenuti e analizzano i dati, aiutano a perfezionare la progettazione del progetto o a divulgare i risultati;
  • Progetti co-creati: anche questi sono progettati dai membri della comunità che lavorano insieme ai professionisti. In particolare alcuni di questi partecipanti pubblici sono attivamente coinvolti in (tutti) i passaggi di un progetto.

Nina Simon, consulente museale, ha aggiunto una quarta categoria a questi metodi di servizio partecipativo nel campo museale:

  • Progetti ospitati: sono progetti delle comunità «in cui l’istituzione trasforma una parte delle sue strutture e/o risorse per presentare programmi sviluppati e realizzati da gruppi pubblici o visitatori occasionali».

Molti autori sono contrari al coinvolgimento degli utenti nella creazione di collezioni digitali e servizi associati. Andrew Keen nel suo libro The Cult of the Amateur, è uno dei principali critici della produzione collaborativa tra pari, dei contenuti generati dagli utenti e dei fenomeni legati al social web. Nell’odierna cultura dell’auto-pubblicazione, dove chiunque abbia un’opinione, per quanto mal informato, può pubblicare, secondo Keen la distinzione tra esperto e dilettante disinformato diventa pericolosamente sfocata.

Altri autori, ad esempio Mirko Tobias Schäfer e Jonathan Zittrain, indicano i potenziali rischi. La capacità di creare contenuti non accreditati attraverso Internet e di distribuirli a milioni di personal computer collegati in rete, ha facilitato nuovi sforzi creativi ma ha provocato anche dei contraccolpi che richiedono la creazione di un sistema normativo e nuove regole imprenditoriali.

È giusto considerare limiti e rischi del modello partecipativo, per progettare meglio e regolamentare la trasformazione dei servizi. Va chiarito lo scopo che si pone il modello partecipativo che è la trasformazione e non è alternativo al modello tradizionale. Il modello partecipativo è pro-attivo, riuscire a fare di più o a fare diversamente solo cambiando il tipo di approccio con le comunità. Il risultato è un’innovazione dei servizi piuttosto che estendere le funzionalità dei servizi tradizionali. 

Metodologia

La domanda di ricerca a cui si cerca di rispondere è la seguente: di fronte a un contesto in trasformazione, le biblioteche accademiche quali servizi partecipativi hanno adottato?

La scelta metodologica è stata quella di descrivere due casi di studio in Italia: il cambiamento della produzione di ricerca degli studiosi e i servizi partecipativi offerti o pianificati dalle biblioteche accademiche per gli umanisti informatici. Le indagini sono state svolte nel 2016.

Per la prima indagine sulla trasformazione del ciclo della ricerca, si è preso parte al progetto 101 Innovations in scholarly communication sul cambiamento dei comportamenti di ricerca degli studiosi, guidato da Bosman e Kramer dell’Universiteit Utrecht. Il sondaggio degli studiosi italiani ha utilizzato il questionario preparato dal progetto che è stato tradotto in italiano e inserito nel sito web dell’Università di Parma. È stata utilizzata una URL personalizzata preparata dai coordinatori del progetto. Il sondaggio è stato aperto da gennaio 2016 a febbraio 2016. L’invito a compilare il questionario è stato distribuito alla lista interna dell’Università di Parma e ad altre liste di associazioni accademiche (come l’Associazione per l’informatica umanistica e la cultura digitale, AIUCD) insieme alla promozione effettuata tramite gli strumenti dei social media.

La seconda indagine dal titolo Biblioteche e umanisti informatici: indagine sui servizi si è concentrata sui servizi partecipativi delle biblioteche accademiche. La scelta di selezionare una comunità specifica, quella di docenti e studenti impegnati attivamente nell’innovazione del ciclo della ricerca, voleva evidenziare le tipologie di partnership che sono state avviate e che si intende sviluppare nelle biblioteche umanistiche per la trasformazione dei servizi.

Trasformazione del ciclo della ricerca e del ciclo delle pubblicazioni

La spinta all’innovazione dei servizi delle biblioteche accademiche va individuata nella trasformazione del ciclo della ricerca e del ciclo delle pubblicazioni. Questa trasformazione nella produzione di ricerca scientifica ha vari nomi come: e-science, cyberscience, digital scholarship o il “quarto paradigma”. Quello che tutti capiscono con immediatezza in questa fase emergente di nuovi modi per la creazione di conoscenza è che la tecnologia è “abilitante” e il ricercatore utilizza oggi sistematicamente le tecnologie in tutte le varie fasi del ciclo della ricerca: questo uso delle tecnologie è identificato dalla particella “e-” o dall’aggettivo digital.

Il cambiamento meno evidente a tutti, ma da considerare più importante, è il diverso comportamento di produzione dei risultati dei ricercatori, identificato come “quarto paradigma”: la scoperta scientifica adotta ora un approccio di condivisione, e in alcuni casi di stretta collaborazione interdisciplinare, che consente risultati più veloci e migliori. I risultati di ricerca devono essere riutilizzabili e quindi sono aperti, distribuibili e riproducibili. Il ciclo della ricerca in tutte le aree disciplinari è aperto fin dalle prime fasi della ricerca, ed è integrato con il ciclo delle pubblicazioni, e in ogni fase della ricerca ci sono prodotti da condividere, come i dati, i blog accademici, gli appunti, le immagini, i video ecc. Il termine che definisce la punta più avanzata di questo modo innovativo di fare ricerca è Open Science, che OECD definisce: «In this report, the term refers to efforts by researchers, governments, research funding agencies or the scientific community itself to make the primary outputs of publicly funded research results – publications and the research data – publicly accessible in digital format with no or minimal restriction as a means for accelerating research; these efforts are in the interest of enhancing transparency and collaboration, and fostering innovation». La Commissione europea ha promosso l’European Open Science Cloud Declaration che elenca i principi che governi e università dovrebbero condividere, tra cui viene evidenziato il ruolo delle biblioteche come parte componente dell’infrastruttura. Il paradigma open è sicuramente la sfida più importante per la trasformazione della ricerca e della comunicazione scientifica, da non confondere con modalità di pubblicazione “gratuita”, ma da individuare con chiarezza nei nuovi comportamenti e responsabilità dei vari attori coinvolti nel ciclo della ricerca.

Trasformazione del ciclo della ricerca in Italia

Avviato nel 2011, il gruppo Future of Research Communication and e-Scholarship (Force11) è una comunità di studiosi, bibliotecari, archivisti, editori e finanziatori della ricerca. Il gruppo ha pubblicato un manifesto che offre una visione completa della trasformazione della produzione di conoscenza nell’era post-Gutenberg. Come complemento del Manifesto Force11, è stato preparato da Jeroen Bosman e Bianca Kramer il sito web 101 Innovations in Scholarly Communication: the Changing Research Workflow. Il sito web e l’infografica con lo stesso nome visualizzano l’innovazione che sta avvenendo nel ciclo della ricerca, evidenziato in sei fasi del ciclo di ricerca:

  • raccolta di dati e letteratura;
  • analisi;
  • scrittura;
  • pubblicazione e archiviazione;
  • disseminazione (outreach);
  • valutazione.

Usando questa mappa, Bosman e Kramer hanno creato alcuni tipici esempi di flusso di lavoro della produzione della ricerca che mostrano come gli strumenti e piattaforme esistenti sono utilizzate dai ricercatori con approcci diversi: flussi di lavoro tradizionali, moderni, innovativi e sperimentali. I due bibliotecari olandesi hanno analizzato i comportamenti di ricerca di più di 20.000 studiosi, evidenziando l’uso di circa 400 diverse piattaforme e strumenti software collaborativi.

Gli studiosi italiani rispondenti al questionario sono stati circa 550, appartenenti a tutte le aree di ricerca. I risultati dell’indagine che si è concentrata sui ricercatori italiani dimostrano che c’è un atteggiamento positivo verso l’Open Access (72%) e l’Open Science (77%). Tuttavia, il tipo di pubblicazione più utilizzato continua a essere l’articolo su riviste accademiche, con peer review e impact factor, mentre le riviste open access (gold e green road) e altre tipologie di pubblicazioni rimangono un’esperienza di minoranza.

È interessante notare che anche alcuni studiosi italiani hanno adottato il ciclo aperto della comunicazione accademica, con la presenza di esperienze di condivisione dei risultati della ricerca. Per la condivisione di dati e di codici di software, tutti i rispondenti utilizzano piattaforme non istituzionali, con preferenze che vanno da Github e Fligshare, fino a includere social media accademici come Academia.edu, ResearchGate insieme a piattaforme come Dropbox e Google Drive. L’unica eccezione come infrastruttura istituzionale è la preferenza per il sito web del dipartimento.

Per l’archiviazione di pubblicazioni di ricerca, la preferenza degli studiosi è per i depositi istituzionali e il sito web del dipartimento, considerati però equivalenti a ResearchGate, Academia.edu, Dropbox ecc.

Per la ricerca e l’accesso alle pubblicazioni, gli studiosi italiani hanno ora diverse possibilità. Forse non è sorprendente notare che la prima ricerca anche in Italia venga eseguita in Google scholar, seguita da altri strumenti, come Scopus e Web of Science. Il catalogo della biblioteca è una delle ultime fonti: gli studiosi italiani hanno elencato Worldcat di OCLC, a cui le biblioteche accademiche italiane partecipano. Invece, si continua a preferire la biblioteca per ottenere l’accesso a risorse digitali concesse in licenza. In alcuni casi, gli studiosi tuttavia preferiscono addirittura pagare gli editori per l’articolo necessario, senza chiedere alla biblioteca.

L’infrastruttura per la diffusione dei risultati della ricerca, sembra dipendere quasi totalmente dai tre social media preferiti dagli accademici: blog, Twitter e Wikipedia. Il sito web personale e il sito del dipartimento continuano a essere gli unici canali istituzionali preferiti per questa attività.

I risultati dell’analisi delle risposte degli studiosi italiani rispondenti al sondaggio, malgrado i limiti del campione indagato, hanno evidenziato che ci sono le stesse tendenze tra ricercatori internazionali e ricercatori italiani. La differenza che è risultata chiara è che mancano completamente in Italia servizi di supporto istituzionali al ciclo della ricerca, a eccezione di alcuni servizi disponibili nei dipartimenti. Manca in particolare un servizio di supporto delle biblioteche accademiche, limitato all’accesso alle risorse digitali in licenza d’uso. Sembra anche di poter dire che le biblioteche accademiche hanno perso il monopolio di funzioni che le hanno caratterizzate, come la ricerca delle risorse con il catalogo e come la preservazione delle risorse digitali.

In questa fase emergente dell’Open Science si può evidenziare un ciclo tradizionale delle pubblicazioni, che segue un processo di validazione ancora controllato dagli editori, insieme a un ciclo parallelo e innovativo della ricerca scientifica in linea. Il modo in particolare in cui le nuove generazioni di ricercatori lavorano, anche se ora sono una minoranza, influenzerà il modo in cui in un prossimo futuro le informazioni saranno scoperte, ri-utilizzate, create, condivise, comunicate e valutate.

Biblioteche accademiche e umanisti informatici

Gli umanisti informatici rappresentano una comunità molto dinamica di studiosi che in Italia sono riuniti nell’associazione AIUCD. Una definizione di informatica umanistica nella Enciclopedia Treccani evidenzia:

Essa si riferisce ai metodi e alle tecniche di applicazione dell’informatica nelle diverse discipline umanistiche, in considerazione di un retroterra culturale comune e di alcuni punti di contatto sostanziali, individuabili soprattutto nelle caratteristiche unitarie che presentano sia i dati che devono essere identificati e descritti per divenire oggetto di elaborazione automatica, sia i metodi di indagine e le conseguenti ipotesi di lavoro (modelli) che devono essere resi espliciti e formalizzabili.

In Italia, dove Padre Busa è stato il pioniere degli umanisti informatici, sono attivi numerosi gruppi di ricerca interdisciplinare, che producono risultati di ricerca che potrebbero avere notevole interesse per la diffusione attraverso le biblioteche, come banche dati e collezioni digitali. Le biblioteche, dal canto loro, custodiscono e danno accesso a contenuti che costituiscono l’oggetto di molte ricerche effettuate nell’ambito dell’informatica umanistica. Tuttavia Ciotti evidenzia la mancanza di collaborazione tra biblioteche e umanisti informatici, che chiama: “linea di faglia”. Un seminario organizzato a Firenze nel 2016 presso la Biblioteca Umanistica ha cercato di approfondire il problema metodologico e disciplinare di questo gap. Le conclusioni del seminario hanno evidenziato come possa essere proprio il modello di servizio partecipativo il ponte tra due comunità, quella professionale e quella degli umanisti informatici.

Una collaborazione stretta delle biblioteche accademiche con comunità innovative di umanisti informatici è stata indagata in un sondaggio lanciato nel 2016 per dare evidenza a partnership (classificate come contributive, collaborative e co-creative) avviate o pianificate.

Il questionario è stato indirizzato specificamente a 58 direttori e bibliotecari responsabili delle sole biblioteche umanistiche e hanno risposto 29 (corrispondenti al 50% circa degli invitati a partecipare). I bibliotecari rispondenti sono stati 34% coordinatori, 28% direttori, e tutti gli altri bibliotecari digitali e bibliotecari delle risorse elettroniche.

La maggioranza dei rispondenti (72%) ha risposto di conoscere umanisti informatici che fanno ricerca nella propria università. Nella maggioranza delle biblioteche non c’è tuttavia un servizio organizzato (50%), solo poche biblioteche (4%) offrono servizi per la comunità di umanisti informatici. Altri settori (17%) delle università, diversi dalle biblioteche, hanno preso l’iniziativa di offrire un servizio. In alcuni casi il dipartimento ha un laboratorio con cui la biblioteca qualche volta collabora (8%).

Nei pochi casi (4%) in cui la biblioteca ha istituito un centro per l’innovazione della comunicazione scientifica, il servizio che è disponibile include: attività di orientamento e consulenza (su temi come fonti di finanziamento, Open Access, copyright) (40%), gestione dei progetti di digitalizzazione (30%), collaborazione alla scrittura di proposte di finanziamento del progetto (20%), prendersi la responsabilità di disseminazione dei risultati di ricerca (30%). In particolare viene indicata la cooperazione dei bibliotecari nell’arricchimento dei metadati (39%) e la preservazione in un deposito istituzionale delle risorse digitali prodotte dagli umanisti informatici (27%).

Vengono sperimentati anche alcuni servizi partecipativi “co-creati”, come progetti di digitalizzazione (ad esempio i docenti si impegnano nella marcatura dei testi e nell’edizione critica) (22%), supporto agli umanisti informatici per i dati di ricerca (in particolare sostegno per la redazione del data management plan) (13%), collaborazione con gli umanisti informatici in progetti di web semantico e linked open data (9%). Una partnership più stretta è quella di scrivere insieme i progetti degli umanisti informatici (9%), promuovere e disseminare i risultati di ricerca all’interno dell’ateneo (29%) e all’esterno (9%). Da notare che la maggioranza dei rispondenti vorrebbe collaborare ai progetti degli umanisti informatici partecipando al gruppo di ricerca (59%).

Molti dei rispondenti anche se attualmente non offrono servizi innovativi, vorrebbero però dare un servizio agli umanisti informatici (45%). È stato chiesto quale ruolo avrebbero potuto assumere o stanno pianificando di assumere (Fig. 3). 

Figura 3 Servizi partecipativi per umanisti informatici.

La maggioranza dei bibliotecari vorrebbe mettere a disposizione le proprie competenze professionali tradizionali come valore aggiunto nel ciclo della ricerca degli umanisti informatici: prima di tutto creare collezioni (76%), facilitare la ricerca delle risorse specializzate (69%), offrire tutorial sia sulle risorse che sugli strumenti a disposizione in biblioteca (62%). Alcuni intendono dare un servizio specializzato agli umanisti informatici (45%) tra cui si deve notare soprattutto la cura (curation) delle collezioni e degli strumenti software realizzati come risultati di ricerca dagli umanisti informatici (48%).

I servizi partecipativi con gli umanisti informatici sono quindi in una fase di sviluppo e i bibliotecari stanno pianificando delle unità di servizio specializzate, con diverse organizzazioni:

  • Modello laboratorio: la maggioranza (58%) vorrebbe avviare un servizio di laboratorio con obiettivi specifici per gli umanisti informatici, collegato alla missione dell’università o della biblioteca;
  • Modello virtuale: circa la metà (42%) vorrebbero l’aggregazione di servizi innovativi sviluppati nel tempo separatamente da diversi dipartimenti e sezioni della biblioteca attraverso una piattaforma (ad esempio virtual research environment);
  • Modello personalizzato: alcuni (21%) pensano di continuare con un servizio a domanda che risponde a richieste individuali di singoli studiosi.

In sintesi, i servizi partecipativi sono elencati nella tabella che segue (Fig. 4).

Progetti contributivi

I ricercatori vengono invitati a consulenze e tutorial su editoria, diritto di autore, valutazione della ricerca ecc.

Le biblioteche danno servizi di supporto alle diverse fasi del ciclo della ricerca come servizi per la valutazione della ricerca, corsi di alfabetizzazione, progetti di disseminazione dei risultati della ricerca prodotta dagli studiosi.

Progetti collaborativi

I docenti sono invitati a prender parte ad un progetto della biblioteca, come creare contenuti, porre metadati e commenti, coordinare conversazioni

Le attività di supporto della biblioteca sono depositi istituzionali, university press, biblioteca digitale.

Progetti co-creati

I docenti avviano e collaborano fin dall’inizio ad un progetto che è comune, gestito insieme con le biblioteche

I docenti collaborano con le biblioteche in laboratori e piattaforme virtuali per la digitalizzazione e marcatura di collezioni, la gestione dei dati di ricerca, progetti di semantic web e progetti scientifici finanziati da finanziatori esterni

Progetti ospitati

La biblioteca dà ospitalità e diffonde i progetti realizzati dalla comunità accademica

Collezioni digitali e banche dati create nell’ambito della ricerca scientifica

Fig. 4: Biblioteche e umanisti informatici: tipologie di partnership dei servizi partecipativi.

Conclusioni

Non vanno certo sottovalutati i problemi del diverso approccio “bi-direzionale” che caratterizza i servizi partecipativi.

Tutti i bibliotecari rispondenti all’indagine soffrono di un certo disorientamento in questa fase di trasformazione. Molti hanno indicato come un ostacolo la mancanza di un coordinamento all’interno dei sistemi bibliotecari. I sistemi bibliotecari hanno avuto un ruolo soprattutto per la negoziazione delle licenze di accesso, manca però un’organizzazione del lavoro nelle biblioteche accademiche che stimoli ad attivare delle forme di collaborazione e partnership con le comunità accademiche.

La maggioranza dei bibliotecari rispondenti alle indagini ha evidenziato di aver reagito alle nuove esigenze, malgrado gli ostacoli che hanno incontrato. Il problema più importante che è stato evidenziato nelle indagini è il bisogno di formazione dei bibliotecari, per ottenere competenze e capacità adeguate.

Viene anche evidenziata la richiesta di risorse finanziarie aggiuntive per l’estensione dei servizi, come anche di un maggior numero di bibliotecari e di bibliotecari più qualificati.

In conclusione, i bibliotecari possono assumere una varietà di ruoli nel modello partecipativo, in un continuum da un ruolo relativamente passivo, come fornitore di risorse o consulenze, a un ruolo attivo con le comunità accademiche. Un rapporto realizzato per SCONUL da Pienfield e altri ha individuato ad esempio tre ruoli:

  1. fornitore di servizi: erogazione di servizi chiave e attività di supporto richieste dagli utenti e allineati con gli obiettivi istituzionali, spesso su larga scala;
  2. partner: lavorando al fianco di utenti e altre organizzazioni di servizi professionali, spesso attraverso progetti o incorporati nei team di ricerca;
  3. leader: innovare in nuove aree, persuadere gli stakeholder chiave a innovare i servizi e contribuire alla strategia generale delle istituzioni, creando e comunicando una visione convincente. Le nuove partnership con i ricercatori offrono quindi diverse opportunità alle biblioteche accademiche, ancora tutte da esplorare in questa fase emergente dell’Open Science.