N.1 2018 - I modelli biblioteconomici

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Campo di tensioni

Franco Neri

franconeri50@gmail.com

Per tutti i siti web l’ultima consultazione è stata effettuata il 4 maggio 2018.

Abstract

A partire da una rivisitazione delle categorie bourdesiane di “campo” e delle forme di “capitale” si propone un ripensamento delle diverse funzioni (euristica, interpretativa, esplicativa) di modelli teorici e della loro dimensione naturalmente storicamente determinata.

Una teoria, per essere vitale, non può essere “disincarnata” dai processi storici e dalla sua capacità di rendere ragione della varietà e delle correlazioni fra le esperienze: «Non si può ridurre la storia ad un processo senza soggetto» (Pierre Bourdieu).

Si evidenzia come mission profonda comune alle biblioteche la costruzione e promozione di differenti forme di “sapere sociale” in quanto conoscenza condivisa e sapere della comunità, sulla base anche dell’approccio di Martha C. Nussbaum alle capability; il ruolo ineludibile della “bellezza” nelle nuove architetture bibliotecarie e dell’esperienza estetica condivisa come processo cognitivo ed emozionale di costruzione della comunità; la funzione del sapere sociale nella costruzione di reti e di processi di resilienza comunitaria.

English abstract

Starting from Pierre Bourdieu’s categorigazion of “field” and “forms” of capital, the article proposes a reconsideration of different functions (heuristic, interpretative, explanatory) of theoretical models, underlining their necessarily historically determined dimension.

«There is no history or social process without recognizing specific social agents» (Pierre Bourdieu).

Also referring to Martha C. Nussbaum’s “capabilities approach” are emphasized the deep mission of libraries in creating and circulating “social knowledge”; the relations between “social capital” and different forms of shared knowledge in community-building and community resilience processes; the libraries’ central role in actively promoting “beautiful” public spaces and shared aesthetic experiences as cognitive, civic and emotional acts.

Il mondo sociale è storia accumulata, che non può essere ridotta a una successione di situazioni d’equilibrio […] nelle quali gli agenti giocano il ruolo di particelle intercambiabili.

Pierre Bourdieu

 

La Somma teologica di San Tommaso è composta non di capitoli, ma di articoli. Che cosa è un articolo? È prima di tutto, e in senso proprio, una questione […] È denso di tutta la forza di ricerca implicita nell’aporia di Aristotele.

Marie Dominique Chenu

In quello che è uno dei più straordinari testi di storia della teologia pubblicati nel Novecento, padre Chenu colloca le forme di elaborazione e formalizzazione del pensiero teologico del sec. XIII nel contesto storico dell’epoca e nei nuovi luoghi di produzione intellettuale.

Un articolo è una questione, «e non una tesi», come invece «lo definivano i manuali della scolastica moderna». Così definito, esso viene riletto, oltre la sua struttura formale, nel dinamismo interno latente, a partire innanzitutto dall’aporia teorica da cui prende le mosse.

Si potrebbe sostenere che la quaestio tomasiana sia un “campo di tensioni”: in essa, in controluce, è possibile cogliere la pluralità dei testi utilizzati, la molteplicità e i conflitti interpretativi rispetto all’interrogativo di ricerca da cui ha origine. In essa è possibile individuare la vita intima di un processo di definizione storicamente determinato e inevitabilmente provvisorio; è possibile ricercare le correlazioni fra la radicalità delle domande e la radicalità del percorso di riflessione teologica.

Va da sé che “radicalità” ha qui il significato originario di andare alle “radici”.

In questo tentativo di affrontare il tema della “modellistica” biblioteconomica e, in particolare, dei “modelli di servizio”, e di individuarne alcune radici problematiche faremo innanzitutto riferimento, come a uno dei fili conduttori, alle categorie bourdesiane di “campo”, “capitale”, “habitus” insieme alle riflessioni di Niklas Luhmann sulla dialettica sistema/ambiente. 

Una teoria inadeguata

In un importante contributo di alcuni anni fa, Alberto Salarelli affermava: «La rapida obsolescenza – potremmo dire la precarietà – dei modelli concettuali che utilizziamo per comprendere la realtà delle biblioteche si è palesata in maniera evidente in questi anni di turbolenti cambiamenti».

Quali alcune delle possibili ragioni di questo fenomeno, ancora – credo – non adeguatamente approfondite?

Si potrebbe sostenere che il secolo precedente, nelle teorie biblioteconomiche dominanti, sia stato scarsamente recettivo rispetto alla profondità della lezione ranganathiana.

Questa infatti avrebbe comportato:

  • un approccio olistico alla biblioteca e quindi la ricostruzione del linguaggio profondo che connette le diverse tipologie di biblioteche, al di là delle definizioni e dell’appartenenza istituzionale.
  • la elaborazione di una “economia delle relazioni” della biblioteca, sviluppando i presupposti impliciti nella quinta legge attraverso la rivisitazione interpretativa apportata da Ranganathan stesso nella seconda edizione (1957) delle Five Laws. Non è forse casuale che in altri campi disciplinari, come nel pensiero sociologico dalla fine degli anni Sessanta, sia messa in discussione una prospettiva “sostanzialista” centrata sull’analisi della funzione sociale di entità e istituzioni sociali, per proporre invece criteri di interpretazione relazionale e di intersecazione fra campi, strutture e soggetti sociali. Oppure, nella lezione luhmanniana l’analisi dei dislivelli di complessità fra sistema e ambiente è sia strumento che presupposto per una ricostruzione dei processi di costruzione di identità del sistema: 

L’ambiente costituisce il presupposto per l’identità del sistema perché l’identità è possibile soltanto mediante la differenza […] Il punto di partenza di tutte le ulteriori indagini sistemiche non è […] un’identità, bensì una differenza. Tutto ciò comporta una radicale de-ontologizzazione della prospettiva nella quale ci si rapporta agli oggetti in quanto tali […] Tutto ciò che accade appartiene sempre contemporaneamente ad un sistema (o più sistemi) e all’ambiente di altri sistemi […] Una differenza non può essere trattata come se fosse una cosa.

  • l’approfondimento delle implicazioni (teoriche, formative, relazionali e operative) della metafora ranganathiana del bibliotecario di reference come “compagno di viaggio”. Questa, nella lettura ranganathiana, rappresenta una prospettiva valida per tutte le tipologie di pubblico e per tutte le biblioteche. Nella mediazione di reference si attua una specifica modalità conversativa che è negoziazione di significati fra soggetti in condizione di ascolto reciproco. Se il rapporto fra lettori e libri, nella dialettica reciproca della seconda e terza legge, ha il “passo” di un dialogo amoroso, in cui il veicolo di conoscenza (il libro) è esso stesso “soggetto” in condizione di attesa d’incontro con il suo “lettore”, la funzione del bibliotecario “facilitatore” di tale incontro implica un livello di competenza molteplice, e un profondo rispetto e partecipe ascolto del lettore.

 Tutto ciò presuppone un modello ricco e cooperativo, attento al processo ricorrente di negoziazione del senso e di feedback. Il tema della “conversazione”, posto con forza da R. David Lankes nel suo The atlas of new librarianship all’attenzione del dibattito biblioteconomico, aveva peraltro trovato significativi sviluppi nei due decenni precedenti in altre aree disciplinari (discipline pedagogiche; sociologia relazionale; psicologia). Per l’Italia basti citare i nomi di Carlo Galimberti (che recupera la grande lezione di Francis Jacques) e Gian Piero Quaglino, mentre sulla tematica della “competenza” rimane vitale, proprio per la svolta prospettica, la lezione di Guy Le Boterf:

La competenza non risiede nelle risorse da mobilitare, ma nella mobilitazione stessa di queste risorse […] Qualunque competenza è finalizzata (o funzionale) e contestualizzata.

Il focus verte sulla dimensione relazionale/trasformatrice e non sostanzialista, e pone al centro la competenza come “processo” piuttosto che insieme di abilità specifiche o risultante dalla somma di tali abilità, sottolineando la varietà delle risorse: interne (saperi, conoscenze, schemi operativi, capacità, abilità, valori, interessi, motivazioni) ed esterne (strumentali, organizzative, istituzionali, relazionali).

A tale intuizione, formidabile per l’epoca in quanto rompeva anche teoricamente con un approccio prestazionale incentrato sulle skill e sui saperi operativi in nome di una capacità di aggregazione e di sintesi “contestualizzata” delle diverse competenze, potremmo apportare oggi alcune integrazioni.

La capacità mobilitatrice non è risorsa solo dei singoli e dei gruppi: essa può considerarsi “habitus” delle istituzioni stesse, una predisposizione e uno “stile” che, costantemente reinventati, operano dinamicamente dentro i diversi campi (culturale, sociale ecc.), con una funzione aggregante e delle diverse tipologie di capacità dei soggetti coinvolti e di promozione di capacità nuove.

Lo “stile” delle biblioteche, nella dimensione di sapere consapevolmente incorporato nei processi di servizio, è forse innanzitutto questo. E, in quanto afferente anche alla sfera del simbolico, ci permette di approfondire le relazioni fra le biblioteche, luoghi del sapere per la comunità, e il riconoscimento della sfera del desiderio nelle aspettative e motivazioni dei soggetti.

La dimensione estetica

Un esempio potrà meglio chiarire questa linea di riflessione.

Nella crescente letteratura sulle nuove architetture bibliotecarie e sulle biblioteche in quanto spazi pubblici per la comunità (nelle diverse declinazioni di community gathering space, community building space ecc.) vi è una dimensione essenziale che ritengo erroneamente misconosciuta: la funzione di una esperienza estetica condivisa e delle modalità di autopercezione dei soggetti in luoghi “belli” per la comunità.

George Herbert Mead nel saggio The nature of aesthetic experience richiama il contributo di John Dewey alla riflessione estetica, sia in conclusione («I have not made specific acknowledgments in the article to Professor Dewey, but the reader who is familiar with his Experience and Nature will realize that it was written under the influence of that treatise») che nella parte centrale dello stesso laddove afferma:

[…] On the other hand, in the words of Professor Dewey, shared experience is the greatest of human goods […].

La percezione estetica di un luogo “bello”, a maggior ragione se atto condiviso e reiterato fra più soggetti, ha una specifica funzione cognitiva e di costruzione o rafforzamento di legami sociali. È atto che permette, attraverso l’esperienza dello “scarto e dell’irruzione dell’inatteso”, una possibilità di comprensione e di (auto)riconoscimento personale e sociale profonda: come afferma Dewey, «l’esperienza condivisa è il più grande dei beni dell’uomo».

Mi sia permessa una autocitazione:

Le biblioteche come ricchezze per una collettività dunque. Tutti possono farvi scoperte inattese [...] Sono luoghi in cui tutti i cittadini si possono ritrovare, senza che debbano nutrire timori reverenziali. E fra le esperienze inattese l’esperienza della bellezza, nel caso della Biblioteca Lazzerini bellezza del luogo nei suoi elementi strutturali e costruttivi, recuperati a vita nuova dallo splendido restauro.

Non vi può essere scarto fra bellezza del luogo e intensità dei servizi: per intensità intendo la capacità di un luogo di essere vissuto nelle sue risorse spaziali e nell’armonia dell’insieme, e – al tempo stesso – per la ricchezza di risorse culturali, di approfondimento, ricerca, relazione che rende ogni giorno possibili e nuove... Ma, ancora di più, il senso di orgoglio dei cittadini per lo splendido contesto architettonico e spaziale restituito alla città: una esperienza sociale che potremmo definire anche di bellezza condivisa, e che caratterizza, fra l’altro, il senso di appartenenza e di frequentazione.

Gruppi di famiglie, amici o nuclei parentali di età diverse che la domenica vi si recano arrivando nel piazzale antistante le mura medievali e dinanzi all’ex-Tintoria, ora grande Hall di ingresso, si indicano reciprocamente la bellezza dello spazio e del contesto architettonico, un recupero che, valorizzando la storicità del manufatto nei suoi diversi nuclei compositivi, lo ha riportato a una seconda intensa vita; ma, ancora più, nell’indicazione delle mura e dell’edificio vi è la conferma di un senso di appartenenza che è legame con una storia, a un tempo passata e reinventata, e con un futuro fatto presente dalla intensità della vita del luogo.

Ma tutto ciò è veicolato da una percezione di bellezza vissuta insieme. Quante volte nella Hall, si notano i lettori alzare, ammirati e con stupore, lo sguardo alle vetrate e al cielo; quante volte, nelle sale di lettura che danno, tutte, accesso alla visione degli spazi urbani esterni (le piazze interne e la città e le colline), si ha o si rinnova la percezione di essere non solo utenti o lettori ma soggetti e corpi in uno spazio urbano.

La reinvenzione e al tempo stesso il rispetto, tramite restauro conservativo, del luogo e della sua storia, della sua identità originaria, hanno così permesso la riscrittura non violenta di una tradizione anche nel mutamento di segno complessivo dell’identità.

Nella costruzione della comunità questa è una dimensione profonda che non può essere messa fra parentesi, qualunque sia la sua declinazione concreta nella diversità di luoghi, contesti, culture.

Rinunciare alla dimensione della bellezza nella definizione del luogo “biblioteca” significa, semplicemente, impoverirne la ricchezza di vita, significa rinunciare a una dimensione dell’umano (l’esperienza estetica) in cui possono coesistere conoscenza ed emozione, affinamento delle capacità cognitive ed esperienza dell’altro.

E i luoghi belli, per continuare a essere tali, hanno sempre bisogno di riproporre, reinventandola, la bellezza come progetto “aperto”.

Modelli, scissioni, confini

Tutto ciò ha molto a che fare con la tematica dei “modelli”. In Forme di capitale vi è un’affermazione di notevole portata metodologica e teorica:

Il concetto di capitale sociale non nasce da un lavoro puramente teorico, e ancor meno si presenta come una estensione analogica del concetto economico. Esso nasce dalla necessità di identificare il principio sottostante gli effetti sociali [...].

Vi è una stretta correlazione fra il lavoro di osservazione e analisi di ambiti e fenomeni sociali e degli attori in esso operanti e la costruzione di categorie interpretative.

Potremmo dire che in un modello teorico sono operanti diverse funzioni:

  • una funzione “euristica”, di orientamento e guida nell’analisi della realtà. La capacità di costruire un modello “aperto”, flessibile, frutto del dialogo con diversi approcci disciplinari, rende molto più consapevole e pregnante la funzione euristica: permette ai soggetti coinvolti e “attori” a diverso titolo, di leggere in profondità nei processi reali oltre una mera dimensione descrittiva. Permette di “interpretarsi” attraverso il modello perché questo ha una funzione “comprensiva”, non settaria o sommariamente escludente, rispetto alle multiformità delle pratiche di servizio, delle mission e delle aspettative e usi dei pubblici.
  • una funzione “interpretativa”, capace di individuare e cogliere, valutandone il peso specifico, la rete di relazioni. Relazioni che sono inevitabilmente dentro la dimensione del tempo e dello spazio, all’interno di dinamiche molteplici e che potremmo ricondurre a due macro-categorie: le connessioni di tipo “bridging” e quelle “bonding”.
    Le prime creano ponti e relazioni attraverso e nelle differenze: i campi che si costruiscono, se vissuti con intensità di pratiche e apertura di pensiero, hanno una dimensione di radicamento non settaria, aperta a prassi di inclusione e dialogo. E lo sono proprio in quanto si fondano su una cultura delle differenze e della commistione dei linguaggi rispetto ai legami “bonding”, fondati invece sulla ricerca di omogeneità dei soggetti e dei campi tematici e, quindi, tendenzialmente, più orientati a sistemi di chiusura valoriale e di prassi e di autolimitazione in confini dati.
    Se si opera in una rete interistituzionale condividendo una dimensione ricca, innanzitutto dal punto di vista “simbolico” e delle culture di servizio, di una politica di “sharing resource”, quindi strutturando legami “bridging”, tutte le categorie interpretative si modificano radicalmente. Alla biblioteca pubblica apparterranno anche i linguaggi delle biblioteche “storiche” perché la dimensione diacronica dei territori e dei processi di sedimentazione della cultura appartiene a entrambe, come appartiene a entrambe la dimensione “interculturale” nel significato di complessità, nel tempo e nello spazio, dei processi storici e culturali e di formazione delle “identità” locali.
    Oppure si pensi alla vitalità delle connessioni fra biblioteche pubbliche, associazionismo e volontariato sociale: i saperi vissuti e teoreticamente appresi nella prassi di servizio degli operatori di strada, la condivisione di punti di incontro (innanzitutto nelle metodologie di ascolto e restituzione) fra bibliotecario pubblico e operatori del sociale; la costruzione di nuclei documentari che corrispondono alla necessità di comprendere e affrontare emergenze e peculiarità tematiche di cittadinanza dei territori;
  • una funzione “esplicativa” della realtà, con il tentativo di costruire la teoria a partire dall’analisi critica di contesti e processi reali.

La povertà o l’inadeguatezza di “lenti” teoriche invece conduce inevitabilmente a una interpretazione non solo meramente descrittiva delle esperienze e dei contesti, ma – quel che è peggio – impoverita. La rielaborazione o la definizione del modello sarà conseguentemente ancora meno pregnante.

Nell’esperienza delle biblioteche molteplici sono i bisogni cui si tenta di corrispondere, e tutti fortemente contestualizzati. Alla crescita (quantitativa e qualitativa) del pubblico può corrispondere un fenomeno duplice: da un lato la maggiore complessità sociale e culturale dei bisogni rende meno agevole l’individuazione e la tessitura di relazioni fra i bisogni stessi; dall’altro, nell’ipotesi di un organismo proattivo, capace di interazione, questa rappresenta una scommessa e una affascinante avventura di crescita.

Perché i cittadini frequentano le nostre biblioteche? Di quali saperi, culture, domande, competenze sono portatori?

Vi si rapportano come a qualunque altro servizio oppure nella “abitazione” di tali luoghi vi è qualcosa di molto più profondo che attiene alla sfera del simbolico? Cosa c’è di significativo che non sempre riusciamo a cogliere in tutta la sua complessità nella domanda di ascolto, e quale è il valore profondo della gentilezza come connettivo?

Una parte significativa dei pubblici delle università del tempo libero sono lettori “forti” che, spesso, hanno anche tentato di colmare un gap generazionale rispetto alla abilità di utilizzazione autonoma delle nuove tecnologie; molti provengono da associazioni sindacali o di volontariato, taluni dall’esperienza di fabbrica. Hanno confidenza con la lettura, e i nuovi luoghi di apprendimento rafforzano la loro appartenenza alla città e a una rete di saperi che può loro permettere di meglio situarsi sia come cittadini di ambito locale che del mondo. In essi, la prevalenza del “noi” (dell’I care, potremmo dire) sull’“io” è modalità civica, non solo autoformativa.

Tuttavia spesso non conoscono le opportunità che possono essere loro offerte dalla rete delle biblioteche. Non sono, forse, compiutamente pubblico delle biblioteche ma lo sono e spesso con modalità attive e partecipi, della cultura della città.

Nel gennaio 2013 l’Amministrazione comunale di Prato, attraverso un progetto costruito sin dall’inizio in stretta cooperazione fra la Biblioteca Lazzerini e l’Ufficio statistica dell’ente promosse una ampia indagine di customer satisfaction: 2.000 i questionari distribuiti, del 70% il ritorno complessivo dei questionari, quindi un dato elevato per indagini di questo tipo.

Una domanda riguardava gli elementi di mission, identitari e di valore proposti alla città con la nuova biblioteca/centro culturale.

Dalle risposte è emersa la consapevolezza e la condivisione, da parte del pubblico, di quelli che sono gli elementi di profilo peculiari della nuova biblioteca: un’apertura amplissima di orari (79 ore settimanali), di valore assoluto; un recupero di archeologia industriale percepito nella sua bellezza e nel valore identitario per la città; la grande ricchezza e varietà delle collezioni e la dimensione partecipativa e culturale. Sia pure meno rappresentate, emergono con forza la dimensione multilinguistica e di integrazione e il legame con la storia, la cultura e la ricerca locale.

È il legame con il contesto quindi che determina la diversità di accentuazione e il modificarsi degli equilibri fra l’uno e l’altro elemento. È questo il senso profondo della lezione di Luhmann: non possiamo rinunciare al criterio di complessità nell’interpretazione di sistemi e ambienti. Se è strategia conoscitiva e vitale la parziale “riduzione” delle variabili di contesto al fine di governarne la complessità e di costruire un modello (interpretativo e operativo) in grado di affrontare la sfida della complessità, la semplificazione o riduzione eccessiva non solo è strategia conoscitiva inefficace e fuorviante, ma lo è anche da una prospettiva operativa.

In questa opera di necessaria individuazione degli elementi di complessità, è ancora da approfondire lo spazio del “simbolico” come orizzonte di attribuzione di senso e riconoscimento reciproco, che investe la sfera culturale, sociale, civica e dell’appartenenza.

Tutto questo ha una relazione molto forte con la tematica della “precarietà” dei modelli richiamata da Salarelli.

Ritengo che il primo fondamentale elemento di contraddizione che sta alla radice di larga parte della riflessione sui modelli di servizio stia in alcune scissioni:

A) La prima di queste, nella separazione fra il “modello” e le domande originarie, le contraddizioni e le esperienze concrete: una sostanziale “disincarnazione” della teoria che risulta così scissa dal processo storico e problematico, quindi destoricizzata dalle sue radici.

Per citare anche Bourdieu, «non si può ridurre la storia ad un processo senza soggetto»: la dimensione temporale è costitutiva sia dei processi storici che degli spazi sociali. Reintrodurre l’incertezza (e il conflitto) significa reintrodurre il tempo come dimensione trasformativa dei contesti, dei soggetti e delle categorie interpretative, e quindi riconoscere la provvisorietà delle categorie stesse.

Ogni modello nasce sempre, in quanto “teoria”, esplicitamente o implicitamente, da una scelta di differenziazione rispetto a precedenti teorie ritenute inadeguate nella loro capacità esplicativa.

Anni fa un importante saggio di Michael Keeble Buckland, Library services in theory and context, si poneva il problema, dinanzi agli imponenti processi di cambiamento che investivano il mondo delle biblioteche, dell’adeguatezza di una teoria, proponendo una sorta di decalogo metodologico:

  • la “bontà” e l’utilità di una teoria (in quanto “costruzione mentale”) si misura sulla sua capacità di corrispondere con la maggiore esattezza alle nostre percezioni degli oggetti.
  • una nuova teoria si afferma quando:
    1. viene elaborata un’altra ipotesi teorica che più adeguatamente si adatti alle percezioni degli oggetti ritenuti rilevanti;
    2. emergono nuovi oggetti tali per cui la nostra percezione di questi è incompatibile con la teoria precedente.
  • ogni teoria è pertanto provvisoria. Questa consapevolezza esige un duplice livello di vigilanza:
    1. nell’osservazione attenta rispetto all’emergenza di nuovi fenomeni: ciò che richiede, al tempo stesso, accuratezza e profondità di percezione e analisi;
    2. nella capacità di sviluppare una nuova teoria più compiutamente esplicativa.

Ma se una teoria trae la sua efficacia innanzitutto dalla sua capacità di individuare e costruire relazioni adeguate, è possibile costruire una teoria del servizio bibliotecario comprensiva, tale cioè – nella sua generalità – da sapere parlare e colloquiare alle diverse realtà e situazioni specifiche, valorizzando il senso di ciascuna di esse?

Tale cioè da non appiattirsi su un mero descrittivismo sostanzialista, ma di essere strumento che, contemporaneamente, è in grado di interrogare i processi reali ricercandone connessioni inesplorate, domande e contraddizioni non esplicitate e di farsi attraversare dalla loro ricchezza?

Ritorniamo ora alla prima forma di scissione sopra ricordata. Per utilizzare in tutta la sua ricchezza il termine aristotelico aporia, questa – nell’ambito delle discipline storico-sociali – è contraddizione “incarnata”, ed è questo il suo tratto distintivo.

Quale è il limite sostanziale, spesso impressionante nella sua reiterazione retorica in diversi contesti elaborativi, di larga parte delle analisi di contesto rispetto alle quali dovrebbe misurarsi il servizio bibliotecario e quindi la definizione di un profilo di mission?

Innanzitutto nell’elencazione di processi e fenomeni sociali privi di soggetti, pertanto senza storia. Né possono considerarsi soggetti (individuali e/o collettivi) mere indicazioni di categorie o gruppi sociali.

Così si perde il legame necessario con la ricchezza delle esperienze e delle biblioteconomie, che risultano appiattite su uno sfondo piatto senza storia. Non siamo infatti in un campo di “datità” (Bourdieu), ma all’interno di relazioni che vanno colte in tutto il loro spessore di bisogni, di domande, di risorse e opportunità, di conflitti e appartenenze sociali, di disuguaglianze.

Le biblioteche (quelle pubbliche in particolare) stanno tutte dentro questo groviglio di questioni.

Ma è un groviglio che, nascendo da un’intersecazione di “campi” diversi, richiede per la sua interpretazione un approccio fondato sul confronto e l’integrazione fra molteplici linee disciplinari.

B) La seconda forma di scissione è rappresentata dall’appiattimento su un tempo breve-medio, con una sollecitazione alla sintesi tutta giocata sul tempo breve.

È necessaria, forse, un’altra tipologia di scrittura: “stati dell’arte”, anche, ma dai quali emerga con chiarezza l’articolazione delle differenze, talora i conflitti, in ogni caso le contraddizioni e, in background, la ricchezza e pluralità delle esperienze.

Anche un problema di narrazione, dunque: come la diversità dei tempi storici richiede (lo richiedeva con forza già sessant’anni fa Fernand Braudel) differenti recitativi, così nell’analisi delle esperienze e dei “modelli” dovremo sperimentare e fare convivere modalità narrative diverse, in un orizzonte metodologico ed espressivo ancora largamente inesplorato, capace però di rappresentare e di fare interagire la varietà dei tempi e dei livelli.

Le biblioteche sono al tempo stesso servizi “pubblici” e strutture “simboliche”.

Simboliche nel senso che, pur nelle contraddizioni di una storia millenaria, in esse si possono individuare funzioni che ne disegnano il ruolo in un equilibrio instabile dato non solo dalle trasformazioni storiche e sociali, ma dalla rete di relazioni. E il pubblico che le frequenta, le “abita”, contribuisce a disegnarne ruoli e mission.

In esse si fondono funzioni di informazione e circolazione della conoscenza, di apprendimento individuale e collettivo, di conservazione e valorizzazione delle memorie, di acquisizione di competenze civiche e di relazione, di costruzione di una cittadinanza consapevole attraverso la condivisione dei contenuti e processi di conoscenza, di sperimentazione di una appartenenza molteplice (al territorio e al mondo) e di dialogo interculturale, di attenzione sia alla attualità che alla stratificazione delle storie collettive, e – fra queste ultime – le proprie collezioni e quelle della rete di riferimento.

Per questo è sempre più essenziale definire mission condivise fra diverse tipologie di istituti documentari e culturali, ricercando nella pratica di cooperazione quel linguaggio profondo che le lega tutte.

Solo in questa prospettiva è possibile condividere un duplice livello di ricchezza: la condivisione della storia e delle autobiografie, quindi delle identità, delle risorse e delle età di ciascuna; la condivisione dei pubblici.

“Piazze del sapere”, resilienza e sapere sociale

[…] arrivò da Atene un altro esercito al comando di Filocrate di Demea, e i Meli ormai furono stretti da assedio a tutta forza; verificatosi anche un tradimento, si arresero agli Ateniesi a condizione che questi decidessero dei Meli secondo la loro discrezione. E gli Ateniesi uccisero tutti i Meli adulti che catturarono e resero schiavi le donne e i bambini; abitarono quindi loro stessi la località dopo avervi inviato cinquecento coloni.

Tucidide, Storie, V, 116 – trad. di Luigi Annibaletto

 

Stolto è fra i mortali colui che distrugge le città e abbandona alla desolazione i templi e le tombe, sacre dimore dei morti; egli stesso è destinato a morire.

Euripide, Troiane, vv. 95-97 – trad. di Ester Cerbo

Le Troiane di Euripide vengono rappresentate nella primavera del 415 a.C., poco dopo lo sterminio e la deportazione in schiavitù della popolazione di Melo avvenuta l’anno precedente.

Per quanto sia oggetto di discussione l’effettiva intensità del legame fra l’evento storico e il dramma euripideo (e quindi la sua dimensione “politica”), i fatti di Melo rappresentarono sicuramente una sorta di “buco nero” per la città di Atene.

L’antichista Christian Meier ha affermato che con la tragedia greca «[…] probabilmente ci troviamo di fronte a un esempio molto singolare di come il lavoro di una collettività sulla sua infrastruttura mentale si compia pubblicamente» chiedendosi poi, «Forse la tragedia rappresentava [...] la specifica forma estetica su cui poggiava la democrazia?»

Gli spazi pubblici (fra questi sicuramente il teatro) sono luoghi di elaborazione e rielaborazione della “infrastruttura mentale” della polis. Oggetto di una discussione che coinvolge, a diverso titolo, tutti i cittadini, sono i sistemi di valori, le rappresentazioni culturali, le modalità politiche di governo della città, le relazioni con gli “altri”.

Anche Martha Craven Nussbaum nella Fragilità del bene (in particolare nella nuova prefazione alla seconda edizione, 2001) pone in risalto la dimensione “politica” della tragedia greca e il suo ruolo nell’espressione della “catastrofe” (etica, valoriale, politica) della polis.

Nella metafora, che tanto riscontro e interesse ha suscitato in questi anni, delle biblioteche pubbliche in quanto “piazze del sapere” ci sono elementi di verità e di suggestione che ritengo vadano difesi dai crescenti rischi di banalizzazione.

L’agorà greca è il luogo delle relazioni, degli incontri e degli scambi fra i cittadini, ma è anche lo spazio del dibattito culturale, della rappresentazione – nelle diverse forme delle arti e del sapere – dei processi elaborativi e di dialettica di una comunità su se stessa. E si rappresenta e discute ciò che per la città e per i suoi equilibri è oggetto di conflitto. Vi è quindi un legame profondo fra processi di trasformazione, crisi culturali e politiche (anche nelle forme di partecipazione) e rappresentazioni artistiche e filosofiche.

Dobbiamo recuperare al significato di “piazza” quella profondità originaria che era propria dell’“agorà” greca, in particolare ateniese; riconcettualizzare le “piazze del sapere” in una accezione ricca, in cui l’elemento di specificazione (“del sapere”) non sia assolutamente accessorio.

Vi sono due elementi che credo debbano essere approfonditi e ricondotti a effettiva integrazione.

Il primo elemento potrebbe essere definito l’“asse della relazione” in cui la piazza opera e vive. È soltanto l’asse “orizzontale” della comunicazione fra soggetti, dello scambio e della conversazione, o esiste anche la dimensione di un asse “verticale”, un principio di profondità costruita nelle relazioni? Non è necessario che tale duplicità di assi sia sempre consapevolmente perseguita dai partecipanti, è necessario però che sia una possibilità praticabile, prevista e favorita.

Vi è una particolare categoria di beni oggetto di crescente interesse teorico: i “beni relazionali”. Il bene relazionale è rappresentato – almeno secondo l’interpretazione qui adottata – sia dal processo di costruzione della relazione, dello scambio sociale e conversazionale che dall’esito dello stesso, valutabile in amicizia, spirito di comunità, desiderio di ravvivare il contatto o di reiterare il contatto con lo spazio di incontro, disponibilità a una operatività comune.

Beni che si pongono a un punto di intersezione con una strategia di promozione delle capability.

La rete di relazioni di una biblioteca è troppo ampia perché questa, anche limitandosi alle relazioni fra i pubblici, possa definirsi nel suo insieme una “comunità di pratiche”.

È criterio di prudenza diffidare dell’utilizzazione genericista di formulazioni nate in contesti a forte densità di appartenenza. “Comunità di pratiche” è una di queste: presuppone comunanza di obiettivi, condivisione di spazi e di stili, orizzonti di sperimentazione e ricerca, continuità di confronto. Ma in una biblioteca, nella sua dimensione di spazio sociale di sapere per una comunità, vi sono segmenti di pubblico che nel tempo si costruiscono come comunità di pratiche, sia pure transeunti: gruppi di lettura, docenti impegnati in sperimentazioni didattiche su Italiano L2, genitori che divengono essi stessi “gruppo di lettori” nei laboratori per bambini, operatori della cultura che co-progettano iniziative con la biblioteca, associazioni e istituzioni partner su progetti, giovani impegnati in laboratori sulle life skill ecc..

Sono queste differenti comunità di pratiche che, convivendo nel medesimo spazio e rese comunicabili fra di loro, contribuiscono a rendere la biblioteca un organismo vivo.

Contribuiscono a costruire e rinnovare, “capitalizzandoli” nella quotidianità, i “beni relazionali”.

Il bene relazionale non si identifica con il processo di relazione, come sostengono alcuni: esso è tale quando si struttura nel tempo, giocando un ruolo essenziale nei processi di formazione dell’identità sociale degli individui e dei gruppi. Nella letteratura si è a lungo parlato di “luoghi terzi”, a partire dalle prime teorizzazioni di Ray Oldenburg sugli elementi costitutivi di tali luoghi.

Vi è una dimensione del modello teorico di Oldenburg, attenuatasi purtroppo sia negli studi successivi che nella “vulgata”: la funzione di costruzione dell’identità sociale. Il luogo è “terzo” rispetto ai primi due (famiglia e lavoro) perché contribuisce, in specificità di forme e con modalità differenti rispetto ai primi due, a strutturare l’identità personale.

Ciò presuppone però, a parer mio, una qualità fondamentale che non appartiene tanto alla caratteristica richiesta al luogo per essere “terzo” (neutralità, accoglienza ecc.), ma alla qualità della relazione del soggetto con il luogo stesso. Nella relazione soggetto/luogo è essenziale rivalutare la dimensione del tempo: non la durata della frequentazione, ma la sua continuità nel tempo.

Anche in questo caso, apparentemente più delimitato, ritorna la lezione di Bourdieu, l’invito ad andare oltre la fallace contrapposizione oggettivismo/soggettivismo. Cosa è che conferisce la dimensione di “terzietà” al luogo? Il valore simbolico, di appartenenza e (auto)conferimento di identità che ha per il soggetto.

È per questo che il primo contatto con le biblioteche è essenziale, sia nel contatto personale (necessario mix fra ascolto, competenza tecnica-culturale e gentilezza partecipe dei bibliotecari) che mediato da quella cultura del servizio incorporata nella sua funzionalità quotidiana, nell’invito non invasivo a entrare e usare le risorse e le opportunità.

È in questa relazione, che si rinnova su un asse duplice di estensione/intensione o, per dirla altrimenti, su una rete di relazioni fatte profondità, che le biblioteche – quelle pubbliche in particolare e comunque le biblioteche in rete – contribuiscono allo sviluppo delle capability di una collettività.

Scrive Nussbaum tentando di definire un concetto (capability) che non trova una esatta correlazione nel nostro “capacità”:

Cosa sono le capacità? Sono le risposte alla domanda: cos’è in grado di fare ed essere questa persona? […] esse non sono semplicemente delle abilità insite nella persona, ma anche le libertà e opportunità create dalla combinazione di abilità personali e ambiente politico, sociale e economico.

Una capability presuppone sempre, per lo sviluppo di processi di emersione di energie, competenze e qualità insite, il riconoscimento preventivo di un contesto di squilibrio.

Possiamo anche dire – ed è concetto presente con forza in Arjun Appadurai, meno nel quadro teorico di Nussbaum – che nell’impegno per superare specifiche diseguaglianze e squilibri e costruire altri equilibri sociali e culturali, si elaborano nuove forme e saperi corrispondenti alla capacità di promuovere le “aspirazioni” delle collettività e dei gruppi come dei singoli.

Arriviamo al secondo elemento, “saperi”.

Parliamo di sapere al plurale perché le biblioteche trovano la loro più intima ragion d’essere proprio in una funzione complessa e globale di accesso, circolazione, riproduzione di saperi di diversa tipologia e varietà.

Quali saperi? Rileggiamo quanto afferma magnificamente Ranganathan nel cap. 8 della seconda edizione delle Five Laws:

Il principio vitale della biblioteca […] è che essa è un mezzo al servizio dell’educazione universale, riunisce insieme e distribuisce liberamente tutti gli strumenti dell’educazione e dissemina la conoscenza grazie ad essi. Questo principio vitale – “lo spirito della biblioteca” – sopravvive in tutte le sue forme, è come l’uomo interiore.

La conoscenza e i saperi come bene comune, dunque, e le biblioteche, come strumenti e luoghi per la loro disseminazione e sviluppo, condividono questa natura intimamente pubblica nella finalità sociale.

Fra le dieci capability centrali che Martha Craven Nussbaum elenca e brevemente concettualizza ciascuna nella propria specificità ve ne sono quattro che sono connaturate alla mission profonda della biblioteca. Esse sono:

  1. «Sensi, immaginazione, pensiero. Poter usare i propri sensi, poter immaginare, pensare e ragionare, avendo la possibilità di farlo in modo “veramente umano”, ossia in modo informato e coltivato da un’istruzione adeguata […] Essere in grado di usare l’immaginazione e il pensiero in collegamento con l’esperienza e la produzione di opere autoespressive, di eventi, scelti aunomamente [...]» (4);
  2. «Sentimenti. Poter provare attaccamento per persone e cose oltre che noi stessi [...]» (5);
  3. «Ragion pratica. Essere in grado di formarsi una concezione di ciò che è bene e impegnarsi in una riflessione critica su come programmare la propria vita [...]» (6);
  4. «Appartenenza; a) Poter vivere con gli altri e per gli altri, riconoscere e preoccuparsi per gli altri esseri umani; impegnarsi in varie forme di interazione sociale; essere in grado di immaginare la condizione altrui [...]» (7).

Altre due trovano ugualmente spazi di dispiegamento nella biblioteca pubblica, sia pure con modalità più mediate rispetto alla formulazione originaria di Nussbaum:

  1. «Gioco» (9);
  2. «Controllo del proprio ambiente: a) Politico», nel significato di partecipazione alla comprensione della vita della comunità (polis).

Certo, i saperi e le competenze, individuali e di gruppo, connaturate a ciascuna capability non si costruiscono né apprendono soltanto nelle biblioteche. Esse presuppongono un’intersecazione e cooperazione fra luoghi, opportunità/risorse e strutture diverse della comunità, innanzitutto con quelle educative.

Ma è altrettanto evidente che le biblioteche, che trovano la loro più intima radice nella duplicità dello sguardo attraverso la conoscenza e il sapere condiviso, lo sguardo sulla comunità e i prossimi, lo sguardo sul mondo, sono luogo privilegiato proprio per lo sviluppo civile e intellettuale della comunità.

Possiamo allora tentare di riformulare la tipologia dei saperi:

  • i saperi della comunità e della consapevolezza civica, esplicitati anche negli stili di convivenza e di relazione reciproca: si pensi al profondo significato che ha, in comunità attraversate da forti presenze migratorie, la contiguità fisica non ansiosamente vissuta fra persone di culture e lingue diverse, o il grande significato del multilinguismo, parlato e scritto, nella vita delle nostre biblioteche. È il mondo che si rende visibile.
  • i saperi riconducibili alle life skill, così che le biblioteche, le scuole e i gruppi di volontariato possano, sia pure in forme diverse, accompagnare i ragazzi e i giovani nella conoscenza di sé e degli altri, nella comunicazione consapevole, nella cooperazione a gruppi, nell’apprendimento di capacità di assumere decisioni;
  • i saperi di vita che nascono dalla capacità di rielaborare e comunicare la propria storia personale nella compenetrazione con altri, nuovi alfabeti;
  • i saperi della partecipazione e della riappropriazione della conoscenza dei territori:
  • i saperi linguistici;
  • i saperi dell’autoconsapevolezza dei propri bisogni di conoscenza, dell’alfabetizzazione informativa e delle strategie di ricerca;
  • i saperi della creatività, delle scienze umane e della scienza, dei processi operativi e della riflessione teorica.

E, naturalmente, in una comunità che si vuole cresca in condizione di rinnovati equilibri sociali e culturali dovranno coesistere i saperi della ricerca e teorici, della divulgazione, della sperimentazione e della prassi operativa, e modalità di apprendimento (formali e informali) sia individuali che collettive, in un processo circolare che mobilita le ricchezze di conoscenza derivanti dall’età, le esperienze di vita e lavoro, le aspettative.

I saperi non sono dati: essi non sono oggetti di mera circolazione, trasferimento e divulgazione. La conoscenza è processualità non solo nella fase di creazione e formazione, ma è essa stessa oggetto di un processo incessante di creazione e di trasformazione.

Laddove vi è condivisione di conoscenze e di saperi, anche nelle forme apparentemente più usuali, è sempre in atto, in maniera più o meno accentuata o visibile, un processo trasformativo sia dei contenuti (e dei confini e relazioni dei saperi) che dei soggetti che vi partecipano.

In questo senso le biblioteche sono “piazze del sapere” perché la dimensione della conoscenza si esplica in tutta la sua ricchezza qualora se ne riconoscano le diverse forme, le relazioni fra le une e le altre, e si approfondiscano le modalità della loro riproduzione e ricreazione sociale.

Ritorniamo al filo conduttore di questo saggio, la connessione fra tematica dei modelli biblioteconomici, capitale sociale e saperi.

Non è neutrale la prevalenza di una teoria del capitale sociale rispetto a un’altra, almeno non lo è stata nella letteratura e riflessione biblioteconomica.

La prevalenza e la maggiore notorietà degli approcci, di Coleman prima, di Putnam dopo, ha visto affermarsi con forza, almeno in area nordamericana, una concezione del capitale sociale come insieme delle risorse civiche e comunitarie derivante dalla rete di relazioni della comunità stessa. Tanto più articolate sono tali relazioni (e quindi il tessuto sociale e istituzionale sottostante), tanto più è forte e ricca una comunità.

Da qui, con riferimento all’ambito più direttamente biblioteconomico, l’affermazione dell’allora Presidente dell’ALA, Nancy Kranich che scrive: «The primary way libraries build social capital is by providing that public space where citizens can work together on personal and community problems».

L’appassionato contributo della Kranich è significativo per due ordini di ragioni: per la sottolineatura netta della necessità che le biblioteche si mettano in gioco in nuove forme di impegno civico e di costruzione della comunità e per la definizione di “capitale sociale”:

The term social capital was coined by social scientist James Coleman. It is defined by Miklos Marschall, former executive director of CIVICUS: World Alliance for Citizen Participation, as the “values and social networks that enable coordination and cooperation within society […] the relationship between people and organizations, which form the glue that strengthens civil society.

Senza togliere alcun merito a James Coleman, il sociologo americano non ha coniato il termine. Gli studi di Coleman sono della seconda parte degli anni Ottanta, Bourdieu pubblica le sue riflessioni fra 1980 e 1986, e riferimenti alla tematica risalgono assai indietro, a partire dalle intuizioni di Hanifan (1916) che ha coniato il termine. Ma il punto non è tanto correggere una informazione errata, peraltro comune nella letteratura sino a metà anni Novanta.

L’elemento essenziale è il riconoscimento della non neutralità e influenza dei modelli teorici rispetto a successivi sviluppi e alla loro ricezione in ambito biblioteconomico.

Rileggiamo Bourdieu:

Il capitale sociale è il complesso di risorse, attuali e potenziali, legate al possesso di una rete durevole di relazioni – più o meno istituzionalizzate – di conoscenze e riconoscimenti reciproci; o, espresso altrimenti, si tratta di risorse che riguardano l’appartenza a un gruppo […] Il capitale sociale poggia pertanto su relazioni di scambio indissolubilmente materiali e simboliche, la stabilità e il mantenimento delle quali presuppone il riconoscimento di una prossimità […] L’entità di capitale sociale che un singolo possiede dipende pertanto sia dall’estensione della rete di relazioni che egli può di fatto mobilitare, che dall’entità di capitale (economico, culturale o simbolico) posseduto da ognuno di loro con i quali è in relazione.

Cosa significa questo per le biblioteche? L’elemento di connessione fra il capitale sociale e il capitale culturale (la risorsa derivante, per lo sviluppo di una comunità, dall’insieme di risorse culturali, date e create) è, ritengo, proprio il “sapere sociale”.

Il sapere sociale è conoscenza condivisa, ricreata e riconosciuta come ricchezza della comunità nella sua capacità trasformatrice dei singoli e degli aggregati sociali. È contenuto, processo e metodo: implica la capacità di impadronirsi di strumenti di conoscenza, di misurarsi – insieme ad altri – con la creazione e condivisione dei saperi, di ricondurli ad ambiti di vita personale e sociale.

Un campo di azione e sperimentazione enorme per le biblioteche se la correlazione fra spazio pubblico e saperi sarà resa sempre più forte. La bella immagine di Vittorio Gregotti dei luoghi pubblici come “condensatori sociali” è suggestiva dell’intreccio fra forza delle relazioni sociali, rigenerazione culturale e urbana, ricchezza delle esperienze.

Nella letteratura da circa quindici anni si discute del significato e del ruolo dei processi di “resilienza di comunità” (community resilience).

Fran H. Norris, in un importante contributo, la definisce “insieme di capacità adattative connesse” che una comunità mobilita nei momenti di crisi e trasformazione. Non può non essere rilevato l’ambiguità del concetto di “adaptative”. La resilienza è processo con profondo valore sociale proprio perché, mobilitando energie della comunità, riesce a supportarla nella creazione di “nuovi equilibri”.

Sia pure interpretando dinamicamente il concetto di “adattamento”, preferiamo parlare di processo creativo che si fa carico, collettivamente, di individuare e costruire nuovi equilibri con i diversi attori e soggetti sociali.

È evidente il legame strettissimo fra questo orizzonte e le riflessioni sull’intreccio fra capitale e sapere sociale e luoghi del sapere. La cultura e la conoscenza, a maggior ragione se condivise, possono contribuire in modo decisivo alla costruzione e alla stabilità di relazioni e di saperi “bridging”: relazioni e saperi che, proprio perché in reciproca correlazione, creano “ponti”.