N.1 2018 - I modelli biblioteconomici

Navigazione dei contenuti del fascicolo

Parlare d’altro. I fatti della biblioteca e la loro interpretazione

Maurizio Vivarelli

Dipartimento di Studi storici, Università di Torino, maurizio.vivarelli@unito.it

Per tutti i siti web l’ultima consultazione è stata effettuata il 27 marzo 2018.

 

Abstract

Il contributo si sviluppa discutendo tre temi principali, tutti accomunati dal fatto che le diverse procedure argomentative utilizzate si basano su concetti e in senso lato fonti di natura linguistica. In primo luogo si cerca di individuare la natura dei “fatti”, localizzati nello spazio fisico, architettonico, bibliografico e metaforico della biblioteca, secondo due punti di vista: quello dei biblioteconomi e quello delle persone che di quegli spazi sono utilizzatori empirici. In particolare si farà riferimento alle “parole” utilizzate per rappresentare e descrivere le “cose” cui quelle parole si riferiscono, cercando di individuare elementi di orientamento significativi nei “paesaggi linguistici” che in tal modo vengono costituiti. In secondo luogo viene proposta una analisi ragionata del termine e del concetto di “modello”, da un punto di vista in senso lato teoretico, e in senso più specifico epistemologico. In terzo luogo si effettueranno alcune considerazioni conclusive relative alla configurazione delle pratiche disciplinari in grado di ospitare al proprio interno prospettive di analisi e di ricerca ispirate a questi principi e a queste metodologie, con particolare riferimento all’ambito della biblioteconomia sociale.

English abstract

The article examines the concept of “model” and some of its most significant implications, discussed in particular from a linguistic point of view. The aim is to contribute to the discussion on the identity of the public library, analysing the foundational methods through which the perception and interpretation of the “facts” that occur in the space of the library occur. In the first place we try to identify the nature of the “facts”, that happens in the physical, architectural, bibliographic and metaphorical space of the library, according to two points of view: that of the librarians and that of the people who are empirical users of those spaces. Secondly, is proposed a reasoned analysis of the term and the concept of “model” – used to understand the “facts” indicated above –, their theoretical characteristics, and the relationships between models and other concepts closely intertwined with them, the “metaphors” and the “archetypes”. Finally will be made some conclusive considerations regarding the configuration of the disciplinary profile able to host research perspectives inspired by these principles and methodologies, with particular reference to the field of social librarianship.

Premessa

L’obiettivo di questo contributo è quello di proporre alcune considerazioni, di natura prevalentemente teorica, sulle “modalità” con le quali le biblioteche sono osservate, percepite, interpretate, in relazione particolare con l’uso del concetto di “modello”. Il termine “modalità”, già nella sua configurazione etimologica, è evidentemente correlato a quello di “modello”, la cui complessità emerge già dalla presa d’atto della struttura di alcuni elementi della definizione nel Vocabolario Treccani:

modèllo s. m. [lat. *modellus, dim. di modulus: v. modulo]. – 1. a. In genere, qualsiasi oggetto reale che l’artista si propone di ritrarre, o che un artigiano, un operaio abbia dinanzi a sé per costruirne un altro uguale o simile, con la stessa materia o con materia diversa, nelle stesse dimensioni o in dimensioni diverse, generalmente maggiori […] e. fig. Persona o cosa scelta come esempio da seguire e da imitare, spec. dal punto di vista intellettuale o morale […] g. Per estens. (e sempre con uso fig.), persona o cosa ritenuta perfetta e degna di servire d’esempio e d’essere imitata […] 2. a. Costruzione che riproduce, di solito in scala diversa dall’originale (per lo più ridotta), le forme esatte e le caratteristiche di un’opera, d’arte o della tecnica, in fase di progettazione o già esistente, a scopo illustrativo, talvolta pubblicitario, o anche come oggetto di hobby (modellismo) […] 6. Nel linguaggio scient., il termine viene riferito a un’ampia classe di ipotesi e costruzioni complesse e articolate, ideali o rappresentate materialmente, di origine anche intuitiva e creativa, proprie di una determinata scienza o specializzazione ma tali da poter essere estese ad altri campi (di validità all’inizio provvisoria ma sempre meglio adeguate all’esperienza attraverso successive verifiche e modificazioni), con cui viene rappresentato tutto o in parte l’oggetto di una ricerca che si propone di organizzare dati e conoscenze, ma anche di sperimentare ulteriormente, per poi interpretare, spiegare, generalizzare, confrontare ed esemplificare didatticamente […] Nelle scienze notevolmente assiomatizzate, quali la matematica e la fisica, il modello costituisce una possibile interpretazione (o realizzazione) di una teoria, intesa come sistema puramente simbolico e astratto di assiomi e teoremi, in quanto stabilisce un universo di enti per i quali gli assiomi e i teoremi della teoria sono veri o, il che è lo stesso, presenta la stessa struttura logica della teoria […].

“Modello”, potremmo provvisoriamente concludere, è dunque nel linguaggio naturale ciò che viene realizzato e utilizzato al posto di qualcosa d’altro, ad esso uguale o simile; inoltre, è caratterizzato dall’essere “esemplare”, o “perfetto” rispetto all’oggetto rappresentato. Nel linguaggio della scienza il modello è parte di un’ampia gamma di «ipotesi e costruzioni complesse e articolate», realizzate per «interpretare, spiegare, generalizzare, confrontare ed esemplificare». Al di là di, ad auspicabilmente oltre, questo primo colpo d’occhio panoramico e sintetico, già intravediamo in questa base linguistica una fitta rete di implicazioni, riferite in vario modo alle peculiarità secondo le quali si qualifica, attraverso attività cui potremmo riferirci con il termine e il concetto di “modello”, la percezione della biblioteca e della sua identità; argomento rispetto al quale esiste come è evidente una letteratura di riferimento assai ampia. Questo coacervo di procedure argomentative si è caratterizzato secondo presupposti, metodi e risultati profondamente diversi. In certi casi la riflessione sulla identità della biblioteca si è articolata e collocata direttamente sul piano e sul livello delle opinioni; in altri casi, invece, il ragionamento è stato maggiormente sviluppato secondo punti di vista storici, o sociologici; in altri casi ancora, secondo traiettorie diverse, si è iniziato a cercare di delineare il profilo di un’area disciplinare, la “biblioteconomia sociale”, cui tuttavia corrispondono modelli teorici e definizioni che divergono in modo molto significativo. In ogni caso ciò che accomuna tutte queste procedure argomentative è che esse sono state espresse attraverso pratiche linguistiche, inserite a loro volta in campi retorici peculiari, vicini al linguaggio naturale o alle caratteristiche dei diversi linguaggi gergalmente definite nelle prassi d’uso delle diverse discipline. In tal modo al sostantivo “biblioteca” sono stati associati elementi diversi di natura aggettivale, la cui funzione era evidentemente quella di modificare il significato del sostantivo. A questi termini, nel loro insieme, potremmo attribuire una funzione in senso lato metaforica, e come vedremo le funzioni linguistiche e retoriche della metafora sono strettamente collegate a quelle del modello. Le specifiche metafore riferite alla biblioteca, che connotano la percezione della sua identità, si fondano dunque su una similitudine o analogia veicolata da aggettivi come “meccanizzata”, “elettronica”, “digitale”, “ipertestuale”, “sociale”, oppure da espressioni in senso lato riconducibili a complementi di modo, come ad esempio “biblioteca” in quanto “piazza del sapere”, o “terzo luogo”, o “sistema”. Varianti lessicali omologhe hanno complementarmente avuto per oggetto il termine che designa la disciplina che di questi oggetti si occupa; ecco dunque costituirsi espressioni come “biblioteconomia digitale”, e poi ancora “ipertestuale”, “partecipativa”, “documentale”, “gestionale”, “sociale”. L’obiettivo dei diversi autori era evidentemente quello di suscitare nei lettori nuove associazioni e inferenze rispetto a quelle che sarebbe state probabilisticamente garantite dal sostantivo base utilizzato per la formulazione delle diverse espressioni. In tal modo sono stati definiti una serie di “giochi linguistici” che invitavano a interpretare la biblioteca come se fosse qualcosa di altro e ulteriore, con un “parlare d’altro”, evocato nel titolo di questo contributo, che ci conduce direttamente nei territori del pensiero metaforico.

Tenendo dunque conto di queste generalissime premesse, qui richiamate in modo necessariamente molto sintetico, questo contributo si sviluppa discutendo tre temi principali, tutti accomunati dal fatto che le diverse procedure argomentative utilizzate si basano su concetti e considerazioni di natura linguistica. Il primo cerca di individuare la natura dei “fatti”, localizzati nello spazio fisico, architettonico, bibliografico e metaforico della biblioteca, secondo due punti di vista: quello dei biblioteconomi e quello delle persone che di quegli spazi sono utilizzatori empirici. In particolare si farà riferimento alle “parole” utilizzate per rappresentare e descrivere le “cose” cui quelle parole si riferiscono, cercando di individuare elementi di orientamento significativi nei “paesaggi linguistici” che in tal modo vengono costituiti. Il secondo è costituito da una analisi ragionata del termine e del concetto di “modello”, da un punto di vista in senso lato teoretico, e in senso più specifico epistemologico. Il terzo proporrà infine alcune considerazioni conclusive relative alla configurazione delle pratiche disciplinari in grado di ospitare al proprio interno prospettive di analisi e di ricerca ispirate a questi principi e a queste metodologie, con particolare riferimento all’ambito della biblioteconomia sociale.

Paesaggi linguistici: le parole dei biblioteconomi e le parole delle persone

Giovanni Solimine e Chiara Faggiolani, in un interessante articolo pubblicato dalla rivista «Ciencias de la documentación», hanno convincentemente illustrato l’evoluzione di alcuni tratti del lessico della biblioteconomia italiana, prendendo in esame le mutazioni della frequenza d’uso delle parole (e dunque, inferenzialmente, dei concetti) in due manuali largamente diffusi nella comunità biblioteconomica italiana: Biblioteconomia: principi e questioni e Biblioteche e biblioteconomia: principi e questioni, ambedue editi da Carocci. Uno degli aspetti più significativi, tra quelli messi in evidenza, riguarda la frequenza d’uso delle parole che designano le specifiche e peculiari “cose” di cui le “parole” della biblioteconomia parlano (Fig. 1).

–       

–      Edizione 2007

–      Edizione 2015

–       

–      1

–      Biblioteca

–      1.458

–      Biblioteca

–      1.705

–      2

–      Servizio

–      936

–      Servizio

–      575

–      3

–      Bibliotecario

–      418

–      Informazione

–      440

–      4

–      Utente

–      386

–      Dato

–      419

–      5

–      Pubblico

–      343

–      Pubblico

–      418

–      6

–      Catalogo

–      336

–      Digitale

–      411

–      7

–      Diverso

–      332

–      Utente

–      409

–      8

–      Libro

–      318

–      Culturale

–      408

–      9

–      Informazione

–      316

–      Library

–      388

–      10

–      Bibliografico

–      309

–      Documento

–      387

–      11

–      Proprio

–      296

–      Ricerca

–      379

–      12

–      Documento

–      294

–      Nuovo

–      369

–      13

–      Culturale

–      286

–      Risorsa

–      353

–      14

–      Venire

–      280

–      Bibliotecario

–      351

–      15

–      Primo

–      265

–      Bibliografico

–      326

–      16

–      Risorsa

–      257

–      Diverso

–      324

–      17

–      Sistema

–      255

–      Attività

–      305

–      18

–      Attività

–      255

–      Primo

–      303

–      19

–      Nuovo

–      254

–      IFLA

–      302

–      20

–      Lettura

–      254

–      Web

–      284

–      21

–      Funzione

–      253

–      Proprio

–      279

–      22

–      Qualità

–      248

–      Libro

–      277

–      23

–      Strumento

–      241

–      Strumento

–      274

–      24

–      Gestione

–      238

–      Reference

–      267

–      25

–      Ricerca

–      236

–      Opera

–      256

–      26

–      Secondo

–      230

–      Conservazione

–      250

–      27

–      Livello

–      229

–      Dare

–      240

–      28

–      Collezione

–      220

–      Catalogo

–      233

–      29

–      Digitale

–      216

–      Italiano

–      227

–      30

–      Dato

–      216

–      Gestione

–      226

Fig. 1: Le 30 parole più frequentemente utilizzate nei due manuali.

La frequenza d’uso delle parole riportate nella tabella mostra alcune linee di tendenza che qui di seguito vengono sinteticamente riepilogate:

  • “bibliotecario” passa dal terzo al quattordicesimo del 2015; “utente” passa dal quarto al settimo posto;
  • “catalogo” passa dal sesto al ventottesimo posto;
  • “informazione” sale dal nono posto al quarto posto; “dato” dal trentesimo al quinto posto; “ricerca” sale dal venticinquesimo all’undicesimo posto;
  • nell’edizione 2015 esce di scena la parola “lettura” (ventesimo posto nel 2007) ed entra “web” (ventesimo posto nel 2015): la parola “digitale” sale dal ventinovesimo al sesto posto e “libro” scende dall’ottavo al ventiduesimo;
  • nell’edizione 2015 esce di scena la parola “collezione”, ventottesima nel 2007; “reference” compare in ventiquattresima posizione.

Altre considerazioni interessanti possono essere effettuate a partire dall’analisi di specificità (Fig. 2), in base alla quale viene definita “specifica” o caratteristica di un testo ogni parola o espressione sovra o sotto utilizzata rispetto a una norma di riferimento, che ad esempio può essere costituita da un valore medio della parola, o dal valore assunto all’interno di un modello di riferimento.

TYPE

Edizione 2007

Edizione 2015

 

WEB

-21,7377

21,7377

REFERENCE

-11,1821

11,1821

DATO

-8,2966

8,2966

DIGITALE

-7,5211

7,5211

RICERCA

-3,5016

3,5016

INFORMAZIONE

-1,489

1,489

UTENTE

1,4674

-1,4674

COLLEZIONE

3,0386

-3,0386

LIBRO

4,5747

-4,5747

BIBLIOTECARIO

6,5821

-6,5821

CATALOGO

10,7849

-10,7849

LETTURA

14,6018

-14,6018

Fig. 2: Analisi di specificità per variabile delle edizioni 2007 e 2015 sulle 12 parole selezionate come guida. Le parole sono disposte in ordine decrescente, definito nella edizione 2015.

Viene attribuita la qualità della “specificità positiva” (sovra-utilizzo) a una parola o una espressione quando il suo uso è superiore a quello atteso, e quella della “specificità negativa” quando si è in presenza di un sotto-utilizzo rispetto al valore atteso, valutato in termini probabilistici. Le parole “web”, “dato”, “digitale” e “ricerca” sono caratterizzate da “specificità positiva” nel 2015, mentre sono sotto-rappresentate (“specificità negativa”) le parole “collezione”, “libro”, “lettura”. “Catalogo” e “bibliotecario”, specifiche positivamente nel 2007, cambiano di segno, in ordine alla specificità, nel 2015.

Ciò detto, che cosa accade se ci spostiamo dai campi linguistici dei “biblioteconomi”, intendendo con questo termine gli autori dei contributi il cui linguaggio è stato preso in esame, a quelli delle persone che vivono nel mondo reale, e che degli “oggetti” della biblioteconomia sono gli utilizzatori empirici? Quali sono le parole e i concetti mobilitati dalle “cornici sociali” attivate per percepire e interpretare la biblioteca, nelle sue multiple e variegate determinazioni?

Un assaggio di quanto accade può essere tratto da una stimolante indagine promossa dalla Regione Toscana, e presentata anche su «Biblioteche oggi», in particolare con riferimento alla sezione 2.5. L’immagine della biblioteca (p. 40 e seguenti). Per valutare come vengono percepite le molte faccette della biblioteca è stato chiesto ai partecipanti all’indagine di associare alla parola “biblioteca” altre parole liberamente scelte, non tratte da un elenco predefinito, fino a un massimo di cinque parole. In questo modo sono state selezionate e raccolte 300 parole; il 54,1% degli intervistati ha indicato una sola parola; circa il 25% ne ha utilizzate 2; il 6% ne ha indicate 4 o 5. Le 300 parole sono state poi raggruppate fino a ottenere nove categorie semantiche: Libri e lettura; Informarsi e conoscere; Studiare e lavorare; La sede biblioteca; Immagini e servizi tradizionali; Media e supporti multimediali; Socialità e servizi alla collettività; Immagine e atmosfera positiva; Immagine e atmosfera negativa. Infine sono state calcolate le percentuali secondo cui le parole sono state utilizzate dai membri del campione. Come si può vedere nelle Fig. 3-4 le parole che in misura prevalente sono associate al termine “biblioteca” continuano a essere “libro” e “lettura”, e ciò con scarse oscillazioni riferibili sia alla frequenza della biblioteca (Fig. 5), sia alla fascia di età (Fig. 6).

Figura 3 Le principali parole associate al termine “biblioteca”, anno 2015 (% calcolate sul totale popolazione 14-80 anni).
Figura 4 Persone che hanno associato la parola “biblioteca” alle diverse aree tematiche, anno 2015 (% calcolate sul totale popolazione 14-80 anni).
Figura 5 Le principali parole associate al termine “biblioteca”, per frequentazione o meno della biblioteca comunale, anno 2015 (% calcolate su frequentatori, non frequentatori e totale).
Figura 6 Le principali parole associate al termine “biblioteca”, per classe di età, anno 2015 (% calcolate sulla popolazione delle classi di età e sulla popolazione 14-80 anni).

La valutazione di questi risultati è certamente piuttosto delicata. In primo luogo, infatti, è ragionevole ritenere che le parole selezionate su base associativa tengano conto della identità percettiva e visiva della biblioteca, per come questa in via ordinaria si configura. Le parole, in tal senso, danno conto di una sorta di effetto di rispecchiamento, in base al quale le persone interpretano la biblioteca per come essa è, e non in base a ciò che dovrebbe o potrebbe essere. In tal senso sarebbe interessante valutare, su base comparativa, se le parole cambiano quando cambia il modello estetico della biblioteca cui esse sono riferite; ma, all’interno del ragionamento che in questa sede viene proposto, emerge ancora con prepotenza una forte e stretta associazione tra il campo semantico di “biblioteca” e quello di “libro” e di “lettura”; mentre di natura percentualmente meno significativa sono le relazioni della “biblioteca” con “informazione”, che come abbiamo visto è invece uno dei termini la cui frequenza d’uso cresce nel lessico dei biblioteconomi.

Dal confronto, sia pure per vaga approssimazione, di queste mappe linguistiche sembra dunque emergere una significativa divergenza tra “parole” dei biblioteconomi e “parole” delle persone; e questa asimmetria, probabilmente, va ben al di là del semplice uso, da parte dei biblioteconomi, di un linguaggio gergale formalmente definito. Sulla base di queste premesse sembra dunque ragionevole inferire che le “parole” dei biblioteconomi e quelle delle persone facciano riferimento a “modelli” linguistici non omogenei. Per questo risulta evidente la necessità di definire, o almeno di descrivere, il termine e il concetto di “modello”.

Modelli, metafore, archetipi

Da un punto di vista strettamente lessicografico, già richiamato in apertura, possiamo partire della presa d’atto del significato di “modello” come «qualsiasi cosa fatta, o proposta, o assunta per servire come esemplare da riprodurre, da imitare, da tener presente per conformare ad esso altre cose». Alberto Salarelli, in due suoi contributi già richiamati, ha proposto interessanti considerazioni su alcune applicazioni all’ambito della biblioteconomia, richiamando la distinzione tra discipline (e “modelli”) nomotetiche, che aspirano a individuare leggi universalmente valide, e idiografiche (che si occupano di fenomeni unici e contingenti). In tal senso, dunque, i modelli nomotetici, dotati di valore predittivo «servono a formulare ipotesi e leggi in base a procedimenti logici in cui ogni passaggio deve essere esplicito e verificabile». Lo scopo dei modelli idiografici, invece, riguarda la possibilità di «ordinare e spiegare la realtà fenomenica così come essa si presenta in una determinata condizione storica e sociale»; questi modelli, caratterizzati da «molteplici accidenti spaziali e temporali», non sono da intendere come previsionali. Sulla base di queste premesse Salarelli prende poi in esame “modelli” a base idiografica utilizzati per tipizzare e comunicare in modalità nomotetica contenuti riferiti a una specifica determinazione dell’identità della biblioteca: è il caso ad esempio dell’espressione “piazza del sapere”, e in tal modo si collega a una linea di riflessione per certi aspetti simile sviluppata alcuni anni fa da Anna Galluzzi, quando nel suo Biblioteche per la città aveva cercato di individuare i “tipi ideali” cui potevano essere ricondotte le più significative tipologie di biblioteche pubbliche contemporanee, e soprattutto la fisionomia di una sorta di metamodello di sintesi, denominato multipurpose library.

Per quanto mi riguarda, ed è ciò che intendo sostenere in questa sede, credo che sia necessaria preliminarmente una chiarificazione del significato del termine e del concetto di “modello”, e in particolare delle sue funzioni interne alla qualificazione dei “paesaggi linguistici” richiamati in apertura; e per muoversi secondo questa traiettoria farò riferimento in particolare a un volume del filosofo analitico angloamericano Max Black, tradotto con il titolo italiano Modelli archetipi metafore. Black, in primo luogo, introduce un esempio tipico del concetto di “modello”, cioè quello di «una nave esposta nella vetrine di un’agenzia viaggi» o di un «aeroplano che vien fuori da una piccola scatola di montaggio per ragazzi», e specifica poi che noi utilizziamo la parola “modello” per riferirci a un tipo di design nel campo della moda, o ancora per designare qualcosa di esemplare (“un marito modello”). Alcune di queste entità sono definite “modelli in scala”, sono sempre poste in relazione a qualcosa d’altro e, soprattutto, servono per uno scopo, che semplificando un po’ può essere individuato in una sorta di facilitazione nella comprensione dell’oggetto. Per ottenere questo risultato il modello seleziona alcuni elementi dei “fatti” che debbono essere rappresentati, ai quali si riferisce la decodifica dei contenuti informativi del modello nel suo insieme. Questi modelli in scala possono essere denominati “icone” dell’oggetto rappresentato, in un senso simile a quello utilizzato da Peirce nell’ambito della semiotica. Altre tipologie di modelli sono quelli “analogici”, in cui si passa da un medium a un altro: «Un modello analogico è un soggetto materiale, un sistema, o un processo designati a riprodurre il più fedelmente possibile in un nuovo medium la struttura o la trama di relazioni dell’originale». I modelli in scala, iconici, imitano l’originale; i modelli analogici si pongono invece l’obiettivo di riprodurre la struttura dell’originale, secondo modalità che potremmo qualificare come isomorfiche. La natura astratta dei modelli analogici da un lato facilita il processo di rappresentazione dei contenuti della struttura ma, nello stesso tempo, aumenta la possibilità che possa essere favorita la generazione di inferenze sbagliate, a partire dalla decodifica del modello stesso. Black censisce anche i “modelli matematici”, caratterizzati da un livello di astrazione ancora maggiore, che consentono di rappresentare i “fatti” di un fenomeno sulla base della individuazione di variabili ad essi pertinenti, di costruire equazioni, e poi di applicare i risultati delle equazioni nuovamente alla realtà dell’originale. I vantaggi di un modello, dunque, possono essere individuati nel suo disporre di «implicazioni abbastanza ricche da suggerire nuove ipotesi e speculazioni nel campo primario di ricerca». Questa funzione specificamente euristica collega il modello, e i suoi usi, a quello della metafora: e questo ci consente di rientrare in un modo maggiormente esplicito nei territori linguistici a partire dal quale le considerazioni qui proposte traggono origine.

«Una metafora – scrive Black – ha il potere di mettere due domini separati in relazione cognitiva usando il linguaggio direttamente appropriato all’uno come una lente per vedere l’altro; le implicazioni, le associazioni, i valori costitutivi intrecciati all’uso letterale dell’espressione metaforica ci permettono di vedere un nuovo argomento in un nuovo modo». Per questi motivi il pensiero metaforico migliora la capacità della nostra comprensione; inoltre, traslando le parole da un dominio a un altro, siamo facilitati nel verificare l’esistenza di elementi comuni tra i due domini.

Sia i diversi tipi di modelli che la metafora possono inoltre essere collegati a un elemento ad essi soggiacente, a una sorta di ulteriore modello, implicito e profondo, che agisce nella psiche di chi elabora il modello stesso, e/o le metafore ad esso inerenti. Black fa riferimento a queste entità chiamandole prima, provvisoriamente, “metafore radicali”, secondo la definizione proposta dal filosofo statunitense Stephen Pepper, e poi propone di denominarle con il termine “archetipo”: «Con archetipo intendo un repertorio sistematico di idee per mezzo delle quali un dato pensatore descrive, per estensione analogica, un dominio al quale quelle idee non si applicano immediatamente e letteralmente». L’archetipo è in primo luogo un’immagine; esso, frutto dunque dell’azione dell’immaginazione, diviene poi un elemento su cui si fondono ulteriori processi cognitivi, correlati all’uso delle diverse tipologie di modelli, inclusi naturalmente quelli relativi al nostro specifico campo di applicazione.

Tornando ora al tema specifico di questo contributo, che riguarda le applicazioni di questo profilo argomentativo alle biblioteche, vorrei ricordare un denso articolo di Robert F. Nardini, pubblicato in «The library quarterly», che ha mostrato la rilevanza dell’uso delle metafore nei primi cinquant’anni della storia della public library statunitense. Nardini aveva messo in evidenza il fatto che «To think, write or speak about the library in terms of another thing often has been the way that librarians proposing change have assembled and expressed their ideas». Ciò emerge, ad esempio, dalla citazione di un testo di Melvil Dewey, quando stentoreamente annunciava che «The time was when a library was very like a museum, and a librarian was a mouser in musty book […] The time is when a library is a school, and the librarian is in the highest sense a teacher». Le parole dunque – e non poteva essere altrimenti – furono lo strumento essenziale di cui ci si avvalse per prefigurare il profilo del modello di biblioteca che si intendeva promuovere e realizzare. Nardini, a partire da queste premesse, effettua una interessante analisi fondata sulle metafore utilizzate in due periodici rappresentativi del settore, «Library journal» e «Public libraries». Tra le numerose metafore censite e descritte possiamo ricordare anche l’uso di parole come “custode”, “museum”, “mouser”, “antiquarian museum”, collocate all’interno di una sfera metaforica che, semplificando, potremmo definire di natura negativa; queste parole, nel loro valore archetipico e metaforico, sono tutte nel loro insieme collegate a immagini originarie come «remoteness, imprisonment, storage, stillness, death», che vengono retoricamente polarizzate rispetto a quelle, metaforicamente positive, incaricate di descrivere, auroralmente, il nuovo modello. Le prime prese in esame sono le parole correlate alla scuola e alla chiesa; il bibliotecario insegnante è anche un po’ prete, dal momento che opera «in the parish churches of literature and education»; la biblioteca, dotatasi di questa nuova aura, «is becoming a temple comprehensive of all knowledges». Un altro campo metaforico utilizzato, di segno prevalentemente positivo, è collegato all’industria e al mondo del lavoro. Charles A. Cutter, nel suo discorso di insediamento all’American Library Association nel 1889, affermò che «Our libraries have been our railroads», e che i dispositivi tecnici delle biblioteche sono «as the working of an elevator or the building of a coal dump». Accanto a questo dominio si collocano le metafore radicate nell’ambito delle culture organizzative: «The modern librarian […] must be a good business man». Nardini mostra poi come, dall’età dell’oro della fase fondativa, le metafore si siano trasformate, anche sulla base del confronto tra le prefigurazioni immaginate e la concretezza delle determinazioni realizzate negli effettivi contesti istituzionali. Con il passare degli anni si intensificò anche l’impiego di metafore a base più specificamente tecnica e professionale. Nel 1916 Frank K. Walter, vicedirettore della New York State Library School, scriveva che i bibliotecari del nuovo secolo potevano essere pensati come «intensive library farmers and specialized tradesmen in he circulation of books». Accanto a queste metafore vengono infine richiamate quelle connesse all’immaginario delle macchine, con connotazioni a volte negative come quando si scrive, nel «Library journal» del 1889, che il bibliotecario non deve limitarsi ad essere una «cataloging machine».

Le parole della biblioteconomia

Le diverse tipologie di parole e di espressioni che abbiamo fin qui preso in esame sono importanti, dunque, come elementi in cui si rende visibile e percepibile l’identità della biblioteca, e tuttavia, per descrivere i molti “giochi linguistici” connessi a quella identità non disponiamo di un linguaggio comune. Possiamo utilizzare i lessici e le retoriche di numerose discipline, eppure sembra di percepire, proprio per la varietà dei lessici e delle retoriche, una sorta di dissonanza, che si moltiplica e si amplifica nelle particelle sfrangiate, e spesso incomunicanti, dei saperi speciali. Rimane in tal modo non elaborata la tensione, tipica di tutti i percorsi orientati al conseguimento della conoscenza, verso una conoscenza unitaria e olistica, la cui eco, storica e cognitiva, possiamo intuire nelle architetture visionarie dei teatri della memoria e della letteratura mnemotecnica della prima età moderna, o nelle parole del generale Stumm von Bordwehr, che nelle pagine dell’Uomo senza qualità vagheggia la possibilità di «vedere l’assieme» della kaiserliche Hofbibliothek di Vienna. L’insistenza sugli aspetti in senso lato linguistici continua a sembrarmi necessaria per comprendere meglio le molte “cose” che alle parole “biblioteca” e “biblioteche” vengono associate, sia nella letteratura scientifica che nelle diverse espressioni del linguaggio naturale. Il richiamo alle relazioni tra “parole” e “cose” evoca evidentemente la prospettiva degli studi di Michel Foucault, in cui uno degli obiettivi fondamentali è quello di capire come i «codici fondamentali di una cultura – quelli che ne governano il linguaggio, gli schemi percettivi, gli scambi, le tecniche, i valori, la gerarchia delle sue pratiche – definiscono fin dall’inizio, per ogni uomo, gli ordini empirici con cui avrà a che fare ed in cui si ritroverà», e come dunque, archeologicamente, è possibile cercare di rintracciare in quale «spazio d’ordine» si è definito e strutturato il sapere, e quale “episteme”, individuata con l’uso di una metodologica “archeologica”, ne caratterizzi il profilo. Alla luce di questo intreccio di tanti possibili “discorsi”, in senso foucaultiano, con gli argomenti proposti in questa sede ciò che mi pare interessante è la possibilità di individuare non tanto le linee di un ulteriore “modello” concettuale, neppure quando questo “modello” nega in parte se stesso acquisendo i tratti della “flessibilità”, quanto piuttosto quelle di un linguaggio che aiuti a rappresentare meglio che cosa accade nello spazio antropologico della “biblioteca” e delle “biblioteche”; e come si è cercato di mostrare in questo contributo per far ciò è necessario anzitutto cercare di “ascoltare” i linguaggi che a quei “fatti” fanno riferimento.

Su di una prospettiva non distante a questa prospettiva di analisi si situa il campo della “biblioteconomia sociale”, il cui perimetro può essere esplorato a partire da questa definizione proposta da Giovanni Solimine e Chiara Faggiolani: «[…] possiamo affermare che oggi la biblioteconomia si trovi di fronte ad uno scenario di mutamento: gli strumenti di analisi tradizionale non bastano più, la prospettiva con la quale si analizzano i problemi sta cambiando, ed essa è sempre più orientata all’esterno della biblioteca, sempre più attenta ai segnali della società»; lo scopo delle biblioteche è individuato sostanzialmente nella loro capacità di generare benessere, e per questo diviene necessario prendere in esame, teoricamente e metodologicamente, le diverse dimensioni simboliche ed esperienziali nelle quali l’identità della biblioteca si manifesta. La biblioteconomia sociale in tal modo prefigurata si colloca dunque nella prospettiva di un paradigma sociale e antropologico articolato in una serie di valori che ruotano intorno al campo dell’utilità e del benessere individuali e collettivi, ma la cui dimensione teorica credo debba essere ulteriormente precisata, tenendo conto anche della configurazione dei campi disciplinari e delle pratiche linguistiche individuabili a livello sovranazionale e comparativo. Ciò che invece si può accertare è la distanza che separa la biblioteconomia sociale dagli ambiti di riferimento dell’espressione “biblioteca sociale”, come ha precisato con efficace chiarezza Anna Galluzzi, quando scrive che

negli ultimi anni la tendenziale trasformazione degli spazi bibliotecari in spazi polifunzionali e la necessità di far convergere all’interno dei medesimi spazi un’offerta culturale diversificata e prima facente capo a strutture diverse siano state sintetizzate nel concetto – spesso semplificato – di biblioteca “sociale”, implicando anche un parallelismo con la nascita di una biblioteconomia “sociale” e di un bibliotecario “sociale”. Il risultato è stato una sovrapposizione di piani che certamente non ha contribuito né alla chiarezza teorica né alla efficacia della strategia.

Sulla base di queste premesse si definisce dunque un territorio d’indagine ai cui estremi possiamo posizionare le “cose”, cioè le diverse tipologie di oggetti, e le “parole”, cioè i concetti e i termini utilizzati per rappresentarli e descriverli. Ipotizzare di voler dar conto di questa varietà di “fatti”, non può che implicare un occhio interpretativo oscillante tra la tensione di una comprensione sintetica e panoramica, e la presa d’atto della sterminata quantità delle microstorie granulari che affiorano sulla superficie dei fenomeni.

Osservazioni conclusive

La traiettoria percorsa in questo contributo approda dunque a un campo, ampio ed eterogeneo, dai caratteri fortemente interdisciplinari, entro il quale è la natura delle “cose” ad attrarre le “parole” che a quelle “cose” sono riferite. In questo modo, come si è detto, si originano una pluralità indefinita di “giochi linguistici”, all’interno dei quali operano con le loro diverse caratteristiche i modelli, le metafore, gli archetipi; e, come ha mostrato Wittgenstein, è in questi “giochi” che si manifesta il significato dei “fatti”, e che possiamo aspirare a comprendere proprio indagandone le “parentele”, cioè le relazioni che proprio a livello di “paesaggio linguistico” si manifestano. Che la prospettiva non sia semplice è evidente; ne era del resto ben consapevole lo stesso Wittgenstein quando scriveva:

Mi si potrebbe obiettare: «Te la fai facile! Parli di ogni sorta di giochi linguistici, ma non hai ancora detto che cosa sia l’essenziale del gioco linguistico, e quindi del linguaggio; che cosa sia comune a tutti questi processi, e ne faccia un linguaggio o parte di un linguaggio. Così ti esoneri proprio da quella parte della ricerca che a suo tempo ti ha dato i maggiori grattacapi: cioè quella riguardante la forma generale della proposizione e del linguaggio». E questo è vero. – Invece di mostrare quello che è comune a tutto ciò che chiamiamo linguaggio, io dico che questi fenomeni non hanno affatto in comune qualcosa, in base al quale impieghiamo per tutti la stessa parola, – ma che sono imparentati l’uno con l’altro in molti modi differenti. E grazie a questa parentela, o a queste parentele, li chiamiamo tutti «linguaggi».

In questo modo è possibile individuare delle «somiglianze di famiglia», che «si sovrappongono e si incrociano a vicenda. Somiglianze in grande e in piccolo», simili alle «somiglianze che sussistono tra i membri di una famiglia» che «si sovrappongono e s’incrociano nello stesso modo: corporatura, tratti del volto, colore degli occhi, modo di camminare, temperamento, ecc. ecc.».

L’obiettivo di questa perlustrazione e aggregazione di parole è dunque quello, alla fine, di individuare le “famiglie” formate dai diversi “giochi”, consapevoli della sterminata dimensione dell’insieme di queste manifestazioni di senso, che trovano nel linguaggio la loro prima e immediata esteriorizzazione, entro la quale le immagini, le parole, i modelli, le metafore che le collegano danno origine a dinamiche di riflessione reciproca, in una incessante dialettica tra ricerca di una “identità” della biblioteca auspicata come dotata di una sua stabile e tendenzialmente oggettiva fisionomia e presa d’atto della varietà indeterminata delle parole relative ai “fatti” nei quali i fenomeni si manifestano. Ed è appunto in questo rispecchiamento che si colloca la radice originaria di quel “parlare d’altro” evocato già a partire dal titolo di questo contributo, e che ne costituisce anche il temporaneo punto di arrivo.