Biblioteche: accesso alla conoscenza tra dimensione locale e globale
Biblioteca del Senato Giovanni Spadolini; anna.galluzzi@gmail.com
Tutti i siti citati sono stati consultati l’ultima volta il 6 maggio 2015. Tutte le traduzioni dall’inglese sono dell’autrice. Colgo l’occasione per ringraziare Valeria Lo Castro per gli spunti e i proficui confronti sui temi trattati in questo articolo, Sara Chiessi per l’attenta lettura della prima bozza e i puntuali suggerimenti, e Serafina Spinelli perché non le sfugge mai niente.
Abstract
A partire dal tradizionale ruolo svolto dalle biblioteche nei processi di accesso alla conoscenza, l’articolo si interroga su come cambia tale posizionamento nell’ecosistema informativo determinato dall’avvento del digitale. L’obiettivo è quello di valutare le possibili strategie per ricondurre a unità il piano di azione locale e quello globale, avendo chiari i diversi livelli a cui può essere declinata la mission delle biblioteche (da quello socio-culturale a quello tipologico, infine a quello istituzionale) e le relazioni tra governance e azioni intraprese. In particolare si propongono percorsi di sviluppo, a livello territoriale e di rete, in quattro aree: semplicità, visibilità, partecipazione e inclusività. Dopo una breve ricognizione degli ostacoli interni ed esterni al raggiungimento di tali obiettivi, l’articolo propone alcune raccomandazioni utili per i bibliotecari.
English abstract
Starting from the traditional role of libraries in accessing knowledge, the article wonders about how their positioning changes in the new information environment of the digital era. The aim is to evaluate the possible strategies to conciliate the local and global action, in the light of the many levels of the library mission (the socio-cultural, the typological and the institutional) and of the connections between governance and policies. In particular, four areas of development at territorial and network level are suggested: simplicity, visibility, participation and inclusion. After a short consideration of the internal and external obstacles to the achievement of these objectives, the article proposes some useful recommendations for librarians.
Le biblioteche e l’accesso alla conoscenza
L’accesso alla conoscenza fa parte del DNA delle biblioteche. Le origini stesse dell’istituzione biblioteca si possono far risalire al momento in cui – con la nascita della scrittura – emerse la necessità di raccogliere, conservare e rendere accessibili le testimonianze scritte che società più o meno estese e complesse realizzavano come sottoprodotto della vita sociale e civile e come strumento di registrazione dei progressi della conoscenza.
Intorno a questa esigenza originaria si è andata costruendo nel tempo la stessa definizione della biblioteca come istituzione deputata alla raccolta, all’organizzazione e alla conservazione dei documenti per consentire – attraverso un adeguato sistema di rappresentazione degli stessi – l’accesso ai contenuti che siano di volta in volta utili per i potenziali fruitori contemporanei e futuri.
Nel corso dei secoli, man mano che i supporti per la registrazione della conoscenza si sono modificati e diversificati, la produzione documentaria è progressivamente aumentata e i pubblici di riferimento si sono ampliati, anche le biblioteche sono andate crescendo in numero e livello di specializzazione, nella consapevolezza che l’utopia di una biblioteca universale che desse accesso a tutta la conoscenza prodotta dall’umanità non fosse più realizzabile se non in una forma distribuita.
Sebbene il contesto della produzione della conoscenza sia andato diventando così complesso e ingovernabile da rendere le biblioteche sempre più “inadeguate” a garantire e confermare il loro ruolo di punti privilegiati di accesso alla conoscenza, il sogno del biblioteca- rio di realizzare un controllo bibliografico universale, ossia «un sistema internazionale finalizzato a rendere universalmente e immediatamente disponibili [...] le registrazioni bibliografiche delle pubblicazioni prodotte in tutti i paesi», e una disponibilità universale delle pubblicazioni, ossia la possibilità non solo di individuare ma anche di accedere al documento di interesse dovunque esso sia localizzato, resta ancora oggi la mission ideale cui il sistema delle biblioteche nel suo complesso tende.
Negli ultimi decenni, però, i processi di convergenza al digitale dei contenuti (testuali e non) e la conseguente facilità di riprodurli e trasmetterli (a costi molto bassi, se non prossimi allo zero) hanno rivelato appieno e in qualche modo trasformato in opzione operativa la natura della conoscenza come bene puramente pubblico, ossia non scarso, non rivale e non escludibile, favorendo e incoraggiando la circolazione, il consumo e la condivisione dei contenuti, e conseguentemente aumentando le possibilità di creare nuova conoscenza. Tale processo è andato di pari passo con una profonda trasformazione del panorama socio-economico nella direzione di una crescente centralità dell’informazione e della conoscenza, ormai considerati i principali motori di innovazione e ricchezza di quella che di volta in volta viene definita “economia della conoscenza” o “network economy”.
In un contesto nel quale l’importanza dell’accesso alla conoscenza in termini non soltanto ideali, ma anche economici è ormai ampiamente e diffusamente riconosciuta, verrebbe naturale pensare che le biblioteche – insieme agli altri soggetti tradizionalmente coinvolti nel cosiddetto ciclo del sapere, ossia il processo virtuoso che attraverso produzione, organizzazione, circolazione e assimilazione della conoscenza produce nuovi contenuti – vedano definitivamente riconosciuto il loro ruolo e siano destinate a un futuro radioso. «Organizzare le informazioni a livello mondiale e renderle universalmente accessibili e utili» potrebbe tranquillamente essere la nuova formulazione del programma bibliotecario internazionale che si occupa del “controllo bibliografico universale”, ovvero la mission dichiarata di un sistema cooperativo internazionale delle biblioteche. E invece è la mission che Google si auto-attribuisce e propone in bella evidenza sul proprio sito. In un mondo nel quale la convergenza al digitale ha disarticolato e rimescolato i ruoli previsti dal tradizionale ciclo del sapere e la rete si struttura sempre più intorno a veri e propri hub gravitazionali che inglobano, metabolizzano, elaborano e mettono a disposizione una quantità di risorse sempre più ampia attraverso un unico punto di accesso il cui meccanismo di funzionamento è sempre più sofisticato in termini di precisione e pertinenza, l’approccio distribuito che la fisicità dei contenuti fin qui prevalentemente prodotti ha imposto alle biblioteche viene percepita come frammentazione e rende le biblioteche sempre meno in linea con le aspettative contemporanee di accesso alla conoscenza.
I livelli di governance e di azione delle biblioteche
Per ridefinire il ruolo delle biblioteche in questo rinnovato scenario, e in particolar modo rispetto all’accesso alla conoscenza, è necessario tornare a focalizzarsi sulla natura delle biblioteche e sulle loro caratteristiche più peculiari. Partendo dal presupposto che le biblioteche sono istituzioni locali in un mercato dell’informazione e della conoscenza che viaggia sempre di più sulla rete globale, si tratta di comprendere come evitare che quello che da numerosi punti di vista è un tradizionale e ancora attuale punto di forza delle biblioteche – ossia il loro localismo – si trasformi in un punto debole.
Da sempre e per loro stessa natura intrinseca le biblioteche si muovono su molteplici livelli di governance e di azione, non sempre corrispondenti. Tale molteplicità di livelli si riflette anche in una composita definizione della mission. Si potrebbe dire infatti che esiste una mission che accomuna tutte le biblioteche, indipendentemente dalla loro tipologia e dalla loro appartenenza istituzionale, e riguarda la funzione socio-culturale che viene riconosciuta alle biblioteche in quanto tali e che scaturisce dalle motivazioni originarie con cui l’istituzione biblioteca è nata. Tale mission generale ha a che fare con la raccolta, l’organizzazione e la messa a disposizione dei contenuti registrati della conoscenza. All’interno di questa finalità generale, in concomitanza con il processo di diversificazione tipologica delle biblioteche, si è andata definendo una mission che accomuna tutte le biblioteche di una medesima tipologia e che, per alcune tipologie che hanno assunto un ruolo trasversalmente importante a livello internazionale, come ad esempio le biblioteche pubbliche e le accademiche, ha trovato una sua formulazione anche in documenti ufficiali da parte di organismi di riferimento a livello nazionale e internazionale.
Il piano delle finalità generali, legato alla tipologia di appartenenza della biblioteca, non consente però da solo di rispondere alle domande centrali che la definizione della mission richiede: chi siamo, cosa facciamo, perché esistiamo, dove vogliamo andare.
Il ruolo, la funzione e il posizionamento di una biblioteca sono, infatti, determinati non solo e non tanto dal compito istituzionale generale, comune a tutte le biblioteche della stessa tipologia, ma soprattutto dallo specifico ruolo che la biblioteca assume o sceglie all’interno del proprio contesto di riferimento.
Resta dunque la necessità per ciascuna biblioteca di definire – all’interno dei confini complessivamente richiamati dai precedenti livelli socio-culturale e tipologico – la propria specifica mission che deve coerentemente incardinarsi nelle finalità e nelle politiche definite dall’istituzione di appartenenza e non può non fare i conti con i bisogni e le caratteristiche della comunità locale di riferimento.
Questi articolati livelli di mission richiedono di volta in volta una riflessione relativa a quale sia il piano di azione più efficace per perseguire gli obiettivi da essi implicati, se cioè a livello istituzionale (e dunque di singola biblioteca), ovvero a livello di gruppo più o meno esteso di biblioteche (su base territoriale o di area di interesse), o ancora a livello di rete globale. Nello scenario attuale, come ci ricorda Lorcan Dempsey, sono sempre più numerose (in particolare sul fronte dell’accesso e della ricerca dei documenti) le attività per le quali la scala di azione più opportuna è quella della rete globale: «Come in altri ambiti della nostra attività, dobbiamo pensare a come quelle attività il cui naturale livello un tempo era locale si stanno ora spostando a livello di rete».
La necessità imposta dalla rete di operare su molteplici livelli e di trasferire parte delle attività alla scala più elevata, ossia quella del web, ha progressivamente determinato una divaricazione e una polarizzazione nelle funzioni e nella percezione della biblioteca fisica e di quella digitale. Mentre infatti la biblioteca fisica – “liberata” o “esautorata” (a seconda dei punti di vista) dalla gestione locale di alcuni processi e servizi – si è andata concentrando sulla valorizzazione del suo ruolo di spazio fisico di socializzazione e condivisione, la biblioteca digitale ha tentato di riprodurre e poi ampliare nell’ambiente web la sua tradizionale funzione di punto privilegiato di raccolta, organizzazione, conservazione e messa a disposizione dei contenuti, ossia di gateway di accesso alla conoscenza sia nella sua forma nativamente digitale sia nella traduzione digitalizzata dei documenti sui supporti tradizionali. L’evoluzione del mondo della rete, soprattutto negli ultimi anni, ha però reso evidente che l’ambiente digitale ha caratteristiche e modalità di funzionamento che rendono la presunta competizione delle biblioteche digitali di matrice bibliotecaria con gli altri canali di accesso all’informazione e alla conoscenza, soprattutto quelli che Lorcan Dempsey chiama i grandi hub gravitazionali (Google, Amazon ecc.) del tutto velleitaria, se non addirittura controproducente. E questo perché la presenza delle biblioteche e dei loro contenuti (in termini di dati e di documenti) in rete appare frammentata, parziale, tendenzialmente statica dal punto di vista tecnologico, incapace di realizzare massa critica, poco trasparente e aperta.
È dunque arrivato il momento per le biblioteche di attuare una vera e propria rivoluzione copernicana nel modo di concepire se stesse e il proprio rapporto con il ruolo di canale di accesso alla conoscenza. Come ha opportunamente osservato David Lankes nel suo The Atlas of New Librarianship (nell’edizione italiana L’Atlante della biblioteconomia moderna), le biblioteche dovrebbero sempre più pensare a se stesse e proporsi all’esterno non tanto come “cuore” della comunità, bensì come “sistema circolatorio”, dal momento che non dovrebbero più puntare a essere il punto di confluenza dei flussi informativi, bensì dei canali di trasmissione. Questo perché mentre un tempo «gli utenti costruivano i propri percorsi di lavoro intorno alle biblioteche, ora la biblioteca deve costruire servizi intorno ai percorsi degli utenti, in particolare lì dove questi percorsi si formano intorno a più ampi servizi di rete».
Ricongiungere locale e globale
In questo rinnovato scenario, la tendenza delle biblioteche fisiche e digitali a viaggiare su canali sempre più paralleli e a ricercare la propria identità in ruoli parzialmente differenti non è una strategia efficace né destinata ad avere un lungo respiro.
Al contrario, le biblioteche dovrebbero puntare a ricongiungere il piano di azione locale con quello globale, uscendo dall’isolamento che spesso le caratterizza sia sul piano territoriale sia su quello di rete. All’interno del medesimo cambio di prospettiva si colloca anche la necessità per le biblioteche di combinare il tradizionale approccio “outside in” con un nuovo approccio “inside out”, ossia non solo acquisire risorse dall’esterno e renderle disponibili in maniera integrata per gli utenti locali, ma anche fare in modo che risorse e dati prodotti internamente siano resi disponibili all’esterno, attraverso i canali che gli utenti normalmente utilizzano.
Solo un approccio che promuova i bisogni degli individui al di sopra di quelli delle istituzioni e renda contenuti e servizi meno monolitici e potenzialmente ricombinabili in molteplici modi per venire incontro in maniera più flessibile ai possibili usi e applicazioni che le persone e la rete ne possono fare potrà scongiurare il rischio che le biblioteche siano percepite come «televisioni in bianco e nero in un mondo a colori», ovvero come «mausolei ridondanti e obsoleti» destinate a fare «la fine dei dinosauri».
Per ricongiungere i piani di azione locale e globale delle biblioteche è essenziale riformulare ruolo e funzione delle biblioteche fisiche e digitali in maniera unitaria e coerente. A questo scopo si ritiene utile ripartire da alcuni concetti chiave che negli ultimi anni hanno variamente popolato il dibattito sul futuro delle biblioteche, restando però oggetto di riflessioni frammentarie o parziali e che dunque può essere opportuno ricomporre all’interno di una visione unitaria dell’istituzione biblioteca nella sua dimensione locale e globale.
Nei paragrafi che seguono si prenderanno in considerazione quattro caratteristiche ritenute essenziali in una concezione innovativa della biblioteca contemporanea, ossia semplicità, visibilità, partecipazione, inclusività, e per ciascuna di esse si proverà a riflettere su come tali faccette interpretative possano essere declinate parallelamente in riferimento alla biblioteca fisica nella sua dimensione locale e alla biblioteca digitale nella sua dimensione globale.
Biblioteche semplici
Semplicità non vuol dire assenza di complessità ovvero banalizzazione, bensì capacità di rendere la complessità leggibile e accessibile. In un mercato informativo in cui tutto comunica la (falsa) impressione che trovare la risposta giusta sia semplice e che la conoscenza sia la naturale conseguenza della maggiore disponibilità di informazioni, l’approccio critico ai contenuti e alle fonti che le biblioteche hanno sempre promosso («La biblioteca non dovrebbe fornire una tesi per una particolare domanda, ma dimostrare che c’è sempre un’altra domanda possibile») rappresenta certamente un valore aggiunto, ma non deve diventare un alibi per costringere il lettore a un percorso accidentato anche lì dove la complessità non è intrinseca all’oggetto, bensì risultato di un’inadeguata organizzazione o di rigidità istituzionali.
Essere semplice per una biblioteca fisica significherà dunque, innanzitutto, semplificare procedure e modalità di accesso, dal momento che l’accessibilità fisica è la precondizione per la buona riuscita di qualunque politica di servizio e di accesso alla conoscenza.
Superare la frammentarietà è una seconda condizione indispensabile per comunicare semplicità. La forte distribuzione delle biblioteche sul territorio è un valore aggiunto se permette alle biblioteche fisiche di configurarsi come punto di accesso a un insieme di risorse e servizi più ampio, sportello di un servizio bibliotecario diffuso capace di volta in volta di scalarsi secondo gli interessi e le necessità degli utenti. Si tratta dunque di interrogarsi costantemente su quale sia il livello territoriale o di gruppo più adatto per condurre ciascuna attività e dunque favorire un approccio cooperativo meno totalizzante ed esclusivo che in passato, bensì caratterizzato da un assetto variabile. In particolare, dal punto di vista dell’accesso e della ricerca delle risorse documentarie è essenziale ragionare sempre di più in termini di “collezione collettiva”, ossia partire dalla consapevolezza che le proprie raccolte non esauriscono le loro potenzialità – e anzi in qualche modo le vedono compresse – finché restano isolate e dentro i confini della singola biblioteca fisica, mentre vanno rese parte di più ampi processi di discoverability.
D’altra parte, semplificare l’accesso attraverso la cooperazione non significa annullare le identità delle singole biblioteche, bensì lavorare sulla complementarità tra di esse e al contempo tesaurizzare il valore aggiunto garantito da una maggiore uniformità delle procedure e dunque una migliore leggibilità dei servizi.
La scelta cooperativa – anche di tipo interistituzionale – è dunque ormai un percorso non negoziabile per le biblioteche, in quanto costituisce la via maestra verso semplicità e uniformità, nonché verso un’offerta di risorse e servizi che possa risultare attrattiva per utenti potenziali ormai abituati ad avere rapidamente a portata di click una straordinaria ampiezza di informazioni e possibilità. Va però assolutamente evitato – attraverso le opportune scelte organizzative – che la cooperazione sia essa stessa causa di rigidità e stratificazione di procedure e che aggiunga complessità alla complessità, in conseguenza della ricerca di un compromesso accettabile da parte di tutti i partner ovvero della necessità di garantire autonomia a livello locale e un sufficiente grado di controllo delle procedure a livello cooperativo. Anche e soprattutto in un’organizzazione cooperativa è essenziale conciliare virtuosamente le diverse mission della biblioteca, cosa realizzabile solo nella misura in cui i bibliotecari siano in grado di far condividere politicamente e strategicamente alla propria istituzione le ricadute locali delle finalità più generali di carattere socio-culturale. La maggiore semplicità e leggibilità che ciascuna biblioteca deve perseguire nella sua dimensione fisica e territoriale costituisce un obiettivo primario anche della strategia adottata dalla biblioteca rispetto alla presenza in rete. I due maggiori fattori di complessità che caratterizzano la ricerca in rete delle risorse bibliografiche delle biblioteche sono le interfacce poco amichevoli e la frammentazione dell’accesso ai contenuti. L’utente della rete che voglia esplorare le risorse della biblioteca non solo dovrà necessariamente passare attraverso il sito della biblioteca, ma quasi certamente sarà costretto a ripetere la ricerca su più portali e interfacce, corrispondenti ai diversi tipi di materiali gestiti, in particolare la raccolta acquisita in via stabile, le risorse messe a disposizione sulla base di licenze di accesso, la collezione locale digitalizzata e l’eventuale collezione di risorse istituzionali. A ciascuno di questi insiemi corrisponderanno in molti casi interfacce diverse, in buona parte tra l’altro costruite da soggetti terzi (editori e fornitori) e con limitate possibilità di personalizzazione, costringendo dunque l’utente non solo a dover individuare l’insieme giusto da interrogare di volta in volta, ma anche a imparare linguaggi e percorsi diversi. Negli ultimi anni, molte biblioteche hanno lavorato a un processo di “ricucitura”, adottando – spesso su scala cooperativa – strumenti tecnologici capaci di ridurre a una le interfacce di ricerca e privilegiando le modalità di ricerca del tipo Google-like. Nonostante gli sforzi compiuti che, tra l’altro, spesso si scontrano con rigidità tecnologiche e commerciali imputabili non solo alle biblioteche stesse, ma anche a editori e fornitori, resta indubbio che quest’opera di ricucitura si colloca a una scala ancora troppo limitata che certo non può competere con la capacità attrattiva e la semplicità dei principali punti di accesso alle risorse di rete. Un passo avanti dunque nella direzione della semplicità e dell’efficacia richiederebbe alle biblioteche uno sforzo e un’azione specifica per mettere i propri dati, metadati e contenuti digitali dentro le principali piattaforme e strumenti di ricerca della rete, in modo da rendersi ricercabili all’interno dei normali percorsi di ricerca degli utenti sul web.
Biblioteche visibili
La ricerca della semplicità deve andare di pari passo con la necessità per le biblioteche di rendersi più visibili agli occhi dei loro fruitori potenziali, sul piano sia locale sia di rete.
La visibilità delle biblioteche a livello locale aumenta infatti quanto più esse escono dal loro isolamento e dalla loro nicchia per fare rete. Della necessità di perseguire strategie cooperative su diverse attività e servizi con altre biblioteche della medesima o di altra appartenenza istituzionale, sia a livello territoriale in senso stretto sia su scale più ampie, si è già detto.
Per rendersi visibili, però, è anche indispensabile diventare parte dell’offerta culturale e sociale complessiva del proprio territorio, ossia non essere percepiti come un canale parallelo avulso dal contesto di riferimento. Le biblioteche sono dunque chiamate a fare rete innanzitutto all’interno della propria istituzione di appartenenza con gli altri soggetti che operano in settori in qualche modo assimilabili ovvero con cui condividono – anche solo in via temporanea – obiettivi comuni rispetto al territorio e alle comunità di riferimento. Allo stesso modo e per gli stessi motivi, le biblioteche devono attivare collaborazioni con gli altri soggetti pubblici e privati che operano sul territorio, anche al di fuori dell’istituzione, con cui sia possibile realizzare un gioco win-win, ossia mettere in comune risorse e competenze per ottenerne reciprocamente un beneficio in termini di efficacia e di visibilità.
A livello di rete globale, la sfida principale consiste nel rendere la propria presenza in rete più integrata e trasparente. Poiché molte delle finalità tradizionalmente perseguite dalle biblioteche e delle funzioni da loro esercitate trovano nella rete la scala e le condizioni giuste per la loro massima realizzazione, è lì che le biblioteche devono provare a stare e a mettere a disposizione risorse documentarie e competenze. Si pensi in particolare ai grandi progetti di digitalizzazione, di archiviazione e conservazione dei contenuti digitali, ai progetti di organizzazione dei contenuti informativi per rendere l’accesso alla conoscenza sempre più ampio e più significativo, alle occasioni che la rete realizza per potenziare l’apprendimento formale e informale. Tutto questo evidentemente riguarda le biblioteche e la loro originaria mission socio-culturale, ma in qualche modo la rete ha reso possibile perseguire tali finalità anche al di là e al di fuori dei suoi confini fisici, nonché da soggetti diversi da biblioteche e bibliotecari. Dalle biblioteche ci si aspetta dunque che non si arrocchino nella loro torre d’avorio, ma escano allo scoperto – anche a rischio di perdere qualche loro tradizionale prerogativa – per consentire che il patrimonio di contenuti e competenze accumulato nei secoli stia dentro questi progetti e sia adeguatamente conosciuto e valorizzato.
Se dunque è certamente essenziale per le biblioteche fare massa critica mettendo in comune risorse e servizi e proporsi – sia sul territorio che in rete – come canale integrato e riconoscibile di accesso a un patrimonio ampio e significativo, si deve però sottolineare che paga ancora di più, in termini di visibilità, una strategia più coerente con la natura “liquida” non solo della rete, ma anche della società contemporanea. In un mondo nel quale gli utenti si aspettano che siano i contenuti ad aggregarsi dinamicamente intorno alle proprie esigenze di ricerca e non viceversa, l’offerta informativa è sempre meno catalizzata attorno al soggetto che la mette a disposizione e sempre più strutturata in modo da essere scomponibile e ricomponi- bile all’occorrenza nei diversi ambienti fisici e digitali. Tale strategia consiste dunque nel rinunciare – almeno parzialmente – alla naturale configurazione della biblioteca come pacchetto di dati e servizi concepito unitariamente e offerto monoliticamente ai propri potenziali fruitori. Di fronte al timore di una parziale perdita di identità istituzionale, è opportuno sottolineare che rendere dati e servizi disponibili in maniera atomizzata lì dove coerentemente si integrano con altri contenuti e servizi di diversa provenienza è oggi la strategia migliore per una loro reale valorizzazione e un ritorno di immagine ancora maggiore – seppure indiretto – per la biblioteca.
Biblioteche partecipative
Una strategia che spinge le biblioteche nella direzione di concepirsi in maniera più flessibile per mettere a disposizione di chiunque ne abbia bisogno, sul territorio o in rete, i propri dati e servizi è perfettamente coerente con un’altra dimensione cui le biblioteche sono sempre più sensibili e intorno alla quale si coagulano molti dei modi in cui oggi le biblioteche possono realizzare la loro funzione di “apparato circolatorio” dell’ecosistema della conoscenza, ossia quella partecipativa.
In un contesto nel quale la variabile principale del cosiddetto “ciclo del sapere” non è più tanto l’accesso alla conoscenza, bensì la capacità di fare un uso significativo e distintivo dei contenuti informativi presenti pervasivamente nelle nostre vite, e nel quale tale disponibilità allargata tende a far convergere in un unico ruolo consumatori e produttori di contenuti e informazioni, la biblioteca è chiamata ad andare al di là delle tradizionali funzioni di raccolta, organizzazione e messa a disposizione di collezioni più o meno ampie. Ripensare le biblioteche in un’ottica partecipativa a livello locale può significare potenziare, nella comunità di riferimento, il loro ruolo come partner, come piattaforme e come “beni comuni”.
In una concezione della biblioteca come partner, il tradizionale meccanismo unidirezionale sulla base del quale le biblioteche mettono a disposizione le proprie risorse e competenze per consentire all’utente di fruire dei contenuti si evolve in un rapporto bidirezionale nel quale anche il tempo, la disponibilità e l’expertise degli utenti diventano delle risorse per arricchire l’offerta della biblioteca.
La partecipazione degli utenti alla vita della biblioteca può anche essere interpretata in una prospettiva ancora più ampia. Se infatti in una partnership il coinvolgimento si basa sulle possibilità e le necessità reciproche all’interno di confini prestabiliti, nel momento in cui la biblioteca si propone come piattaforma essa accetta di lasciare spazio alla creatività e alla sperimentazione delle persone, mettendo a loro disposizione ambienti e strumenti sulla base dei quali gli utenti potranno inventare usi, possibilità, modalità di espressione e di interazione non sempre prevedibili. E d’altronde la partecipazione attiva e libera è condizione essenziale per creare senso di appartenenza a un’istituzione, nonché occasione per sperimentare percorsi di conoscenza e di apprendimento personali e alternativi rispetto a quelli formalizzati e progettati a tavolino.
Il livello più alto di partecipazione delle comunità che si può sperimentare nelle biblioteche è il coinvolgimento dei suoi membri nella progettazione, nello sviluppo e nella gestione degli spazi e dei servizi. In questo senso, potrebbe essere il caso di parlare delle biblioteche come “beni comuni”, ispirandosi alla nota teoria di Elinor Ostrom in merito alla possibilità che alcuni beni e servizi possano collocarsi al di fuori della tradizionale gestione strettamente pubblica o privata per approdare a un regime di gestione condivisa da parte degli stakeholders. Nel caso delle biblioteche, come è evidente, stiamo parlando di soluzioni sperimentali che sono ben al di qua dei casi giuridici descritti dalla Ostrom; nondimeno, il coinvolgimento degli utenti resta una strada da verificare sia in risposta al progressivo ritirarsi delle istituzioni pubbliche dalle responsabilità di gestione di questi servizi, a causa della crisi e del ridimensionamento dei sistemi di welfare, sia in conseguenza della consapevolezza che nella società contemporanea la partecipazione è una delle condizioni essenziali dell’innovazione. D’altra parte, di fronte a queste soluzioni sono pienamente condivisibili le parole di Raphaëlle Bats quando invita a
conservare una certa distanza da un entusiasmo contagioso nei confronti di elementi nuovi, che restano da esplorare e analizzare: progetti partecipativi, biblioteca come terzo luogo, impatto territoriale, cittadinanza locale ecc. Questo sguardo critico non avrà l’obiettivo di limitare l’entusiasmo, ma semplicemente di ri-contestualizzare in modo adeguato le condizioni di comparsa di questi termini, affinché l’entusiasmo perduri e la biblioteca sia confortata negli indirizzi che corrispondono alla sua missione.
Non v’è dubbio che le biblioteche fisiche debbano mettere fortemente l’accento sul loro ruolo di luoghi di partecipazione attiva della comunità e incubatrici di innovazione e sperimentazione, anche in risposta alla crisi di identità che le ha colpite e alla necessità di riaccreditarsi in forme nuove nella società contemporanea. E certamente si tratta di una strada che le biblioteche fanno bene a percorrere. D’altra parte, si deve evitare che questa strategia costituisca la risposta sul piano locale all’incapacità o impossibilità delle biblioteche di svolgere un ruolo nei processi globali di gestione della conoscenza, ossia che le biblioteche si ripieghino su loro stesse, abdicando rispetto alla loro funzione di aprire i loro patrimoni di dati e di contenuti alla più ampia comunità possibile di utenti e dunque agli utenti della rete.
Una strategia partecipativa a livello locale deve poi andare di pari passo con una vocazione partecipativa anche sul piano globale, che potrà essere perseguita in prima battuta mettendo a disposizione della comunità della rete le proprie risorse digitali (dati, metadati, contenuti) nella maniera più ampia e libera possibile (fatti salvi i limiti imposti dalle normative sul diritto d’autore). Tale scelta è infatti l’unica che permette di ottenere due importanti risultati: innanzitutto, aprirsi alla possibilità e alla necessità di gestire l’abbondanza informativa in modalità partecipata (e non solo professionale), consentendo che il patrimonio reso disponibile nelle varie comunità di rete sia arricchito e la sua discoverability sia potenziata dal crowdsourcing; in secondo luogo, lasciare che gli utenti della rete facciano di questo patrimonio qualunque uso ritengano opportuno, perché è solo offrendo i contenuti liberamente in pasto alla creatività collettiva che si creano le condizioni per produrre nuova conoscenza (pur mescolata a prodotti di scarsa utilità o di discutibile interesse).
Biblioteche inclusive
Semplicità, visibilità e partecipazione sono caratteristiche che insieme concorrono a realizzare un’altra dimensione che fa parte del tessuto originario e costitutivo delle biblioteche, ossia l’inclusività.
Oggi più che mai le biblioteche hanno il dovere di potenziare la loro vocazione inclusiva, se si considera che la crescita esponenziale delle possibilità di accesso alle informazioni e alla conoscenza va di pari passo con una spietata competizione – con finalità non sempre nobili e disinteressate – per l’accaparramento dei dati personali e l’esclusività di gestione delle nuove forme di intermediazione, nonché con la crescente e in qualche modo subdola privatizzazione di spazi, servizi e contenuti dentro una cornice di apparente apertura e libertà. Sul piano locale, si tratta di valorizzare la natura delle biblioteche fisiche come spazi neutrali e sicuri di confronto delle idee, il cui principale obiettivo è creare opportunità per tutti. La sfida più impegnativa cui le biblioteche non possono sottrarsi consiste nell’essere in grado di proporsi a segmenti di pubblico molto diversi ed eterogenei, nei bisogni, nelle condizioni di partenza, nelle finalità e nel livello di servizio richiesto. Tale obiettivo presuppone che si compia quel processo di convergenza e di integrazione di funzioni e servizi sul piano territoriale che – come si è visto – è anche un passaggio necessario per rendersi il più possibile semplici e visibili, ma tanto più comunica all’esterno l’idea di biblioteche inclusive e accessibili per tutti, anche al di là della loro appartenenza tipologica.
In un’epoca nella quale non sono le risorse informative a essere scarse, bensì l’attenzione, le competenze e – in certi casi – le infrastrutture necessarie per accedervi, selezionarle e valutarle, la capacità della biblioteca di essere inclusiva consiste anche nel contribuire attivamente – mettendo a disposizione strumenti e servizi – ad accrescere il livello di alfabetizzazione informativa e digitale (information and digital literacy), nonché a rimuovere o ridurre il digital divide a livello sia infrastrutturale sia funzionale.
Nella dimensione locale rivolgersi a tutti significa essere consapevoli della varietà dei bisogni espressi e inespressi che caratterizzano la comunità di riferimento e adottare metodi di indagine il più possibile accurati per comprenderne la composizione e le caratterizzazioni; su questi presupposti – non sempre facili da realizzare per le biblioteche, talvolta neppure a livello cooperativo – è possibile identificare i segmenti di pubblico cui il servizio bibliotecario territoriale potenzialmente si rivolge e tracciare fisionomie di servizio e strategie che non lascino indietro nessuno e non trascurino alcuna delle nicchie potenziali.
Quando ci si sposta a livello di rete i “tutti” potenziali ai quali ci si rivolge sono difficilmente conoscibili nei termini in cui è possibile conoscere la propria comunità di riferimento e sono sostanzialmente identificabili con tutti coloro – ovunque collocati geograficamente purché connessi alla rete – che in un qualche momento del loro percorso (di studio, di apprendimento, di curiosità ecc.) possono aver bisogno delle risorse informative di cui una certa biblioteca dispone. Dunque, su scala globale, per poter essere realmente inclusiva, una biblioteca dovrebbe scegliere la massima apertura (tecnologica, giuridica, concettuale) dei propri dati, risorse e sistemi. In quest’ottica le biblioteche non possono restare estranee al movimento degli open data all’interno del quale i propri archivi di dati strutturati e controllati dovrebbero certamente e rapidamente confluire; allo stesso modo, le biblioteche dovrebbero essere tra i principali promotori dell’accesso aperto a tutti i contenuti che siano prodotti da loro o dalle loro istituzioni di riferimento; e ancora tutti i contenuti che le biblioteche riversano sulla rete dovrebbero essere resi disponibili con le più liberali tra le licenze creative commons disponibili; infine, nelle scelte tecnologiche la preferenza dovrebbe sempre andare a sistemi aperti e soluzioni standard che accrescano la discoverability delle risorse e consentano il riutilizzo dei dati. Non esiste altro modo a livello di rete globale per dare testimonianza del fatto che il patrimonio delle biblioteche appartiene a tutti e che l’opera di raccolta, organizzazione e conservazione della conoscenza registrata, realizzata nei secoli dalle biblioteche, ha rappresentato e rappresenta un investimento di grandissimo valore per l’umanità. Del resto, la sostanziale inconoscibilità e imprevedibilità delle esigenze, dei bisogni e degli usi possibili dei dati e dei contenuti da parte della variegata utenza di rete e soprattutto le possibilità inedite che si possono creare quando dati e contenuti vengono resi comunicanti con altri insiemi di dati non possono che spingere nella direzione di aprire – tecnologicamente, concettualmente e giuridicamente – le risorse bibliotecarie a tutti gli usi possibili, lasciando che sia la rete a valorizzarli in modi consueti o imprevedibili.
Minacce interne ed esterne
Da quanto fin qui analizzato emerge che il ruolo delle biblioteche nel nuovo ecosistema della conoscenza che la rete è andata modellando ruota attorno a due principi fondamentali: da un lato un rafforzamento dei piani collaborativi sia a livello locale che globale, a partire dalla convinzione che oggi l’accesso alla conoscenza e i servizi a esso connessi si realizzano in maniera più efficiente ed efficace su scala più ampia se non globale, dall’altro una scelta di crescente apertura sia nella messa a disposizione di dati e contenuti sia nei processi gestionali, organizzativi e di servizio. In quest’ottica la singola biblioteca svolge la fondamentale funzione di anello di congiunzione tra i circuiti globali di accesso alla conoscenza e le esigenze e le caratteristiche della comunità territoriale. Secondo una suggestiva definizione elaborata in tempi non sospetti (era il lontano 1976) da Virginia Carini Dainotti, la biblioteca fisica potrebbe funzionare come «stazione a terra di tutti i circuiti culturali». Questo ricongiungimento virtuoso della dimensione locale e globale della biblioteca – che appare oggi come la strategia che meglio è in grado di combinare la sua funzione socio-culturale generale e la sua mission istituzionale – può incontrare una serie di ostacoli realizzativi, legati in parte alle caratteristiche intrinseche e contingenti delle biblioteche, in parte a fattori di contesto che impattano sull’azione delle biblioteche pur essendo indipendenti da esse, sebbene non sia sempre evidente la natura endogena o esogena delle situazioni che limitano le prospettive di sviluppo delle biblioteche. Esistono dunque minacce interne ed esterne alla possibilità effettiva per le biblioteche di essere semplici, visibili, partecipative e inclusive.
Tra le prime si devono considerare innanzitutto la rigidità istituzionale e la ridotta flessibilità organizzativa. Le istituzioni cui le biblioteche appartengono e da cui ricevono i finanziamenti sono spesso strutture con orizzonti temporali e territoriali piuttosto ristretti; i loro vertici decisionali difficilmente proiettano la propria azione molto al di là di qualche anno e normalmente si rivolgono quasi esclusivamente alle proprie comunità di riferimento dalla cui approvazione spesso dipende il loro stesso futuro. Di conseguenza, solo in particolari circostanze le istituzioni di riferimento vedono con favore meccanismi di apertura e di cooperazione interistituzionale; allo stesso modo esse sono disponibili a investire nella partecipazione a iniziative su scala globale soltanto nel caso in cui questo produca un ritorno di immagine anche a livello locale. Istituzioni che devono fare continuamente i conti con i loro bacini di riferimento tendono dunque a rallentare se non addirittura a ostacolare iniziative di carattere sovraterritoriale, a meno che questo non produca già nel breve termine un risparmio in termini economici.
A questo si aggiunga che sia le istituzioni di riferimento sia le stesse biblioteche sono strutture organizzative complesse innestate in sistemi burocratici più o meno articolati e dunque si caratterizzano per una ridotta flessibilità e una limitata rapidità di risposta e di adattamento ai cambiamenti, cui si aggiunge un altrettanto limitato margine di rischio ammissibile. In un contesto nel quale il tasso di innovazione e la rapidità con cui cambiano gli scenari sono elevatissimi per effetto dei meccanismi di funzionamento della rete e dell’economia della conoscenza, le biblioteche – soprattutto se guardate all’interno del loro quadro istituzionale – rischiano di apparire strutture elefantiache nei casi peggiori, e in ogni caso di non avere l’agilità e la leggerezza sufficienti per rinnovare se stesse. Ci si potrebbe perfino interrogare sull’opportunità che le biblioteche inseguano tutte le mode che via via sembrano dominare il mercato della conoscenza e dell’offerta culturale, rischiando ogni volta non solo di sprecare tempo e risorse, ma anche di rinnegare alcune delle specificità che esse dovrebbero invece preservare e valorizzare. Essere consapevoli che le biblioteche non sono start-up, bensì si muovono su orizzonti tempora- li che oltrepassano istituzioni e generazioni dovrebbe spingere nella direzione di farne piattaforme capaci di accogliere la sperimentazione e l’innovazione, ma anche di garantire durata e continuità ai cambiamenti.
La ridotta capacità delle biblioteche di stare al passo con i tempi appare oggi particolarmente accentuata dalle difficili condizioni nelle quali esse operano all’interno di politiche di austerity che assottigliano sempre di più la spesa pubblica e di una disponibilità di risorse umane qualificate sempre più risicata e senza prospettive di rinnovamento all’orizzonte.
Vero è che la crisi economica, che restringe sempre di più l’ambito del welfare mettendo in discussione il mantenimento in mano pubblica dei beni meritori e finanche dei beni sociali puri, rappresenta uno straordinario stimolo nella direzione della cooperazione, del superamento delle rigidità istituzionali e della realizzazione di economie di scala. D’altronde, un approccio non superficiale a una strategia che voglia superare la frammentazione dell’accesso alle risorse informative delle biblioteche per ricondurlo alla giusta scala e ottimizzarne la ricercabilità non può non tenere conto di quelli che, con Dempsey, chiameremo switching e stitching costs. Si tratta dei costi (in termini economici, psicologici, di tempo) generati, da un lato, dai cambiamenti di sistemi o di procedure, dall’altro dalla ricucitura e integrazione tra sistemi o contenitori non comunicanti; costi che si rendono entrambi necessari ogniqualvolta soggetti organizzativi diversi devono uniformarsi all’interno di una struttura organizzativa integrata e si proceda a un adeguamento di scala dei servizi e degli strumenti di ricerca.
Ancora, qualunque prospettiva di adeguamento del sistema bibliotecario ai nuovi meccanismi di produzione, consumo e circolazione della conoscenza deve fare i conti con lo stato effettivo delle biblioteche nel loro complesso, nella consapevolezza che, al di là di un certo numero di realtà avanzate e di biblioteche di eccellenza che – nonostante il difficile momento storico – hanno le potenzialità e la mentalità giusta per rinnovarsi e assumere un ruolo trainante, il panorama d’insieme è spesso fatto di biblioteche piccole e piccolissime in condizioni al di sotto della sussistenza sia sul piano delle risorse economiche che umane. Si tratta di biblioteche che in molti casi si configurano poco più che come magazzini di libri, spesso isolate dal contesto e sostanzialmente tagliate fuori da qualunque iniziativa di più ampio respiro, e che dunque richiederebbero strategie di sistema capaci di bypassare l’inerzia della singola istituzione.
Per quanto riguarda i fattori esogeni che rendono arduo e accidentato il percorso che le biblioteche devono seguire per ridefinire in maniera rinnovata e significativa il loro ruolo nei processi di accesso alla conoscenza, è certamente determinante lo scenario fortemente competitivo che si sta delineando nel mercato della conoscenza.
Sebbene infatti la smaterializzazione dei contenuti abbia – come si è visto – definitivamente rivelato e reso concreta la natura della conoscenza come bene pubblico puro, proprio su questo terreno e tanto più in questa fase sono in atto processi di privatizzazione che possono assumere forme diverse. Da un lato, altri tradizionali attori del ciclo del sapere, come ad esempio editori, librerie commissionarie e fornitori di servizi di intermediazione, essi stessi messi in crisi dai processi di disintermediazione della conoscenza innescati dalla rete, cercano di riconquistare un proprio ruolo anche invadendo i territori di confine e accaparrandosi funzioni prima appartenenti ad altri soggetti, ovvero impongono sui contenuti digitali limitazioni e restrizioni d’uso che i documenti cartacei non consentivano di praticare. Di fronte a questa controffensiva, soggetti tendenzialmente deboli e la cui governance risulta molto frammentata come sono le biblioteche rischiano di essere fortemente penalizzati da condizioni proibitive in termini economici e di fruibilità dei contenuti, fino a essere parzialmente esautorati da alcune delle loro funzioni più proprie. Dall’altro lato, i nuovi attori del mercato della conoscenza, quelli che operano esclusivamente sulla rete e secondo la filosofia della rete, se da un lato sposano il principio dell’accesso libero, gratuito e universale ai contenuti, dall’altro esercitano veri e propri monopoli i cui esiti futuri non sono del tutto prevedibili e che fin d’ora suscitano interrogativi rispetto ad alcuni usi e pratiche che, pur non traducendosi in un costo economico per l’utente finale, si configurano comunque come pratiche commerciali.
All’interno di questo mercato in cui convivono paradossalmente la spinta alla più ampia disponibilità dei contenuti e la massima competizione tra i protagonisti, la variabile indipendente che condiziona profondamente gli equilibri del sistema e contribuirà certamente a determinare gli scenari futuri è la normativa sul copyright, materia controversa, nonché caratterizzata da significative differenze nazionali ormai incompatibili con un mercato globale dell’informazione e da un impianto, a detta di molti, obsoleto e che necessita di un complessivo ripensamento. Allo stato attuale, la normativa sul copyright costituisce il terreno di scontro tra gli attori del mercato della conoscenza, ciascuno portatore di interessi diversi a seconda della strategia e filosofia perseguita. Accade così che, in particolare nell’ambiente digitale e di rete, le biblioteche subiscano le conseguenze negative sia di una normativa generale che limita le possibilità di accesso e di uso ai contenuti digitali senza tener conto di un contesto profondamente trasformato, sia delle politiche di inasprimento e di riduzione delle eccezioni a loro favore messe in atto da editori e fornitori e rese possibili proprio dalle caratteristiche dell’ambiente digitale.
L’insieme di questi fattori richiede, da parte delle biblioteche, un’attenta considerazione e un approccio sistemico che soli sono in grado di ritagliare loro uno spazio di senso a livello sia locale sia globale.
Qualche raccomandazione
Tenuto conto del quadro di riferimento fin qui delineato, in particolare del fatto che le biblioteche – nate in un mondo di “scarsità informativa” nella quale costituivano naturalmente il punto di confluenza quasi obbligato dei percorsi di conoscenza e di apprendimento individuali – sono oggi immerse in un ecosistema caratterizzato dall’abbondanza (se non sovrabbondanza) di informazioni e contenuti, non esistono ricette sicuramente vincenti. Nondimeno, è opportuno che le biblioteche definiscano alcune linee di orientamento e di azione generali che siano coerenti con le tendenze di fondo dello scenario di riferimento.
In particolare, se è vero che viviamo in un’epoca in cui il problema non è l’accesso all’informazione, ma la sua selezione e comprensione, è indubbio che le biblioteche debbano valorizzare il loro ruolo di spazi fisici e virtuali deputati o concorrenti ad accrescere i livelli di information e digital literacy delle comunità.
D’altra parte, poiché anche le modalità complessive e gli ambienti in cui si svolge l’apprendimento in generale non sono più inscrivibili in confini ben delimitati né dal punto di vista spaziale né temporale (al punto che oggi si parla di “apprendimento dappertutto”), è essenziale che sappiano sia offrirsi come spazi fisici di socialità e condivisione, sia essere presenti con le proprie risorse e le proprie competenze in tutti gli altri contesti dove si realizzano i processi di apprendimento delle persone.
Tenendo conto che sono i membri delle nostre comunità a decidere se lasciarci o meno partecipare ai loro processi di apprendimento e visto che si tratta di percorsi liberi e individuali, le biblioteche devono abbandonare la presunzione di essere luoghi di passaggio obbligati, bensì proporsi come vere e proprie piattaforme di partecipazione, sperimentazione e creazione per tutti i modi e gli strumenti attraverso cui oggi si produce conoscenza e tutti gli stili di apprendimento possibili.
Se dunque fino a qualche decennio fa le biblioteche potevano contare sulla loro centralità all’interno di alcuni percorsi di conoscenza e apprendimento, oggi esse devono partire dal presupposto che sono loro a essere remote rispetto alle proprie comunità di riferimento (e non viceversa); di conseguenza, lo splendido isolamento non è certamente una strategia vincente, mentre è essenziale se non addirittura imprescindibile uscire dalla propria nicchia, fare massa critica, diventare accessibili, far convergere i servizi, mettere a disposizione di tutti spazi, risorse e strumenti.
In conclusione, è oggi essenziale per le biblioteche tornare a riflettere sul proprio posizionamento all’interno di un ecosistema informativo profondamente rinnovato e su come tale posizionamento interagisca con le loro finalità generali e istituzionali. Acquisire la consapevolezza che il passaggio da un’identità locale fortemente integrata a una dispersa in mille rivoli territoriali e virtuali, ma non per questo meno ricca di significati, rappresenta la condizione essenziale per ripensare opportunamente le proprie strategie di azione.
Il fatto è che in un universo informativo com’era quello di qualche decennio fa, strutturato sul tradizionale ciclo del sapere e fondato sulla divisione dei ruoli tra i vari attori, un modello inevitabilmente distribuito in conseguenza della fisicità dei documenti e caratterizzato dalle necessarie mediazioni volte a rendere più efficace l’accesso alla conoscenza, la mission socio- culturale/tipologica e quella specifica della singola biblioteca coincidevano o trovavano coerente collocazione in un approccio unitario. Invece, in un panorama come quello che si è già andato delineando e che non è possibile del tutto prevedere nelle sue future evoluzioni, i piani al contempo si mescolano e si separano, producendo da un lato intersezioni con attori, ambiti, terreni e contesti in passato solo confinanti o addirittura estranei, dall’altro una polarizzazione di ruoli e funzioni che sembrano disgregare il senso unitario dell’istituzione bibliotecaria.
È imprescindibile oggi che la consapevolezza di questa molteplicità di piani di azione e la necessità di una costante riflessione in merito siano chiare nei bibliotecari affinché possano essere in qualche modo condivise con le istituzioni di riferimento. Comprendere e far comprendere – in chiave rinnovata e non miope – come l’investimento locale sulle biblioteche non risponde solo a obiettivi meramente territoriali ma può ricollocare biblioteca e istituzione in una dimensione di dialogo con l’offerta culturale globale e con gli altri attori che operano a questo livello è la sfida cui i bibliotecari sono chiamati a rispondere sia nell’immediato sia nel prossimo futuro. E, volendo sintetizzare unitariamente le diverse mission delle biblioteche, potrebbe essere utile ripartire dalla formulazione proposta qualche anno fa da Dan Chudnov: «Help people build their own libraries» (aiutare le persone a costruire le proprie biblioteche). Oggi più che mai le biblioteche e le istituzioni cui appartengono devono prendere coscienza di essere strumenti e possibilità offerte alle persone (tutte!) per costruire il proprio universo di senso conoscitivo in maniere diverse e imprevedibili, e devono concepire il loro ruolo a livello locale e globale in questa prospettiva.