N.2 2015 - Le forme della lettura

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Leggere nella Prima guerra mondiale. Novità per la lettura dei combattenti

Maria Gioia Tavoni

Università degli studi di Bologna; mariagioia.tavoni@gmail.com

Per tutti i siti web l’ultima consultazione è stata effettuata il 24 ottobre 2015.

Abstract

La necessità di comunicare con chi era lontano e dare voce alla propria esperienza fu comune a tutti i combattenti, dai più acculturati, come Ungaretti e Renato Serra, a quelli minimamente alfabetizzati. Non si può parlare con altrettanta sicurezza di una pratica della lettura universalmente diffusa tra i soldati, ma si può affermare che la lettura era praticata, dato che giornali, opuscoli e molti libri raggiunsero, soprattutto attraverso i Comitati cittadini, i combattenti nei fronti e nelle retrovie. Importanti sono alcune iniziative precedenti a quelle dei vertici militari dopo Caporetto, fra cui l’assistenza «per i bimbi dei richiamati» del Comitato di Bologna e il progetto del Comune di Milano, che costituì anch’esso un Comitato e, tramite la direzione della Biblioteca Braidense, diffuse capillarmente un’ingente quantità di volumi tra tutte le realtà dell’esercito. Leggevano con maggiore sicurezza i militari in un ospedale di Forlì, grazie all’appassionata opera di Evelina Rinaldi, opera che porta a riflettere su quanto poco si sia fatto da allora per la lettura degli Italiani.

English abstract

During the Great War, both educated and barely literate soldiers needed to tell their experience and thoughts. We can assert that soldiers practised reading: many newspapers, booklet, books reach both the frontline and the rear, thanks in particular to civic committees. The civic committee of Bologna gave assistance to soldiers’ children, while the city council of Milan and the Braidense Library supplied a huge number of books to the Italian army. Evelina Rinaldi worked hard to encourage reading among soldiers hospitalised at city hospital of Forlì: her instance helps us reflect on insufficient Italian policies about reading.

Scrivere per non soccombere

Più di qualunque altra narrazione cinematografica, torneranno i prati, l’ultimo film di Olmi, svela come il gelo esistenziale di chi trascorreva le giornate in trincea nella guerra ’15-’18 sia stata la cifra per molti di coloro che avevano a compagnia la rassegnazione, soprattutto a seguito della consapevolezza dell’inganno. Il film di Olmi sconfessa “la guerra eroica”, ma forse non l’eroismo dei soldati, vittime del massacro cui furono condannati in molti fronti.

L’eroismo dell’esercito italiano è stato messo spesso in discussione, ma, per farsi un’idea di come alcuni lo ritennero perfino disincantato, si legga o rilegga Un anno sull’Altipiano di Emilio Lussu, documentaristica descrizione la quale, come il film di Olmi, denuncia anche l’insensatezza della guerra. I militi italiani andavano coraggiosamente a morire, come racconta Lussu, spesso per le bizzarrie di generali ottusi e ignoranti, o per il carrierismo di qualche ufficiale. Fu pertanto con stoicismo che la “carne da cannone” affrontò la trincea, gli assalti alla baionetta e i tentativi di sfondamento delle linee.

Appare in proposito profonda una considerazione di Guido Ceronetti, il quale, a prima vista, sembra spronare perché si continuino a rintracciare documenti, ovvero «interrogare senza posa cimiteri silenziosi, una sterminata letteratura, testimonianze, lettere, testamenti di martiri, oggetti perduti nelle case, responsi, profezie, conseguenze, luoghi», rivelandoci poi che mai si potrà giungere ad alcun risultato perché su tutto «c’è l’ombra dell’Inspiegabile». E l’«inspiegabile» resta tale per molti di coloro che considerano la guerra una grande, disumana e inutile catastrofe.

Grazie alla letteratura sulla Grande Guerra che appare ora smisurata, si sono studiati molti aspetti di quel conflitto, compreso il bisogno impellente dei combattenti di comunicare con chi era lontano. Non fu infatti in un primo momento la propaganda a tener desto l’animo di chi combatteva per una guerra ritenuta inizialmente giusta, ma proprio la necessità avvertita da ciascuno di raccontare la propria esperienza, sia che si trattasse di personalità divenute poi celeberrime, sia che a parlarne fossero personaggi minori, spesso difficili perfino da identificare. Fra gli intellettuali italiani più famosi spiccano Ungaretti, che affidò alle sue liriche a mo’ di “diario”, scritte in un taccuino nascosto nel tascapane e poi stampate nel 1916, col titolo di una omonima poesia, Il porto sepolto, la storia di chi si era arruolato volontario, e Renato Serra, il quale interruppe il suo Diario di trincea solo poche ore prima di morire sotto il fuoco nemico. Il Serra del Diario è tuttavia assai diverso da quello delle precedenti sue opere, e la sua visione della guerra si discosta pure dalle motivazioni iniziali abbracciate da altri intellettuali, i medesimi che poi, ad esclusione dei futuristi, sconfessarono il proprio interventismo. Come invita a riflettere Andrea Battistini, il quale è riuscito a cogliere in profondità il pensiero del celebre scrittore cesenate, la guerra fu dapprima avvertita da Serra in modo etico e ideale, come «una scuola di vita che fortifica il carattere, che fa apprezzare di più le cose, anche le più umili» e il parteciparvi, un «imperativo categorico», un’esperienza pertanto da condividere con i propri soldati romagnoli. Ma quando la guerra ebbe a viverla direttamente al fronte, Serra cambiò radicalmente parere. Al fronte assistette, infatti, all’“imbestiamento” degli uomini, compresi i suoi amati soldati, e il Diario non poté che riflettere questo suo profondo sconcerto.

La scrittura fu praticata non solo dagli intellettuali, ma fu una caratteristica comune a gran parte dei combattenti in tutti i fronti della Grande Guerra. Vi si abbandonarono gli stessi soldati, non solo per tenere i fili sempre vivi con chi era lontano, ma perché scrivere diveniva un insostituibile modo per non perdersi, per non soccombere. Da più parti si è affermato che la Prima guerra mondiale è il teatro bellico che più di ogni altro ha fatto scaturire il bisogno di comunicare attraverso la penna.

Lo scrivere portò perfino all’agnizione di sé, del proprio io più intimo. Un grande della statura di Marc Bloch, combattente nella battaglia della Marna, sentì la necessità di dedicare all’evento, grazie ad appunti e alla memoria, pagine imperniate sulla verità e le atrocità di quel conflitto, durante il quale si scoprì storico a tutti gli effetti.

Anche sul fronte italiano il bisogno di scrivere fu avvertito come una ineludibile necessità e ci si prodigò per agevolare il compito a coloro che poca dimestichezza avevano con lo scrivere.

Vi furono infatti studenti universitari di Siena, accesi interventisti, che si posero al servizio dei militari provenienti prevalentemente dal Sud per tenere, all’interno dell’Università, corsi di scrittura e «assisterli per la stesura delle loro lettere».

E un autore come Antonio Gibelli, il quale ha dato spesso voce e volto a gente comune, ha ricordato che il bisogno di scrivere, ne La guerra grande, fu sinonimo, non solo durante la prigionia, finanche di «sopravvivenza», come provano alcuni racconti autobiografici di soldati italiani, sia pure minimamente alfabetizzati. Viene da Gibelli messo perfino in discussione il grado di analfabetismo dei nostri soldati impegnati al fronte. In effetti, esso era sceso rispetto a precedenti sconfortanti dati.

Nel 1911, all’alba della occupazione italiana in Libia, si era dato vita a uno studio governativo sull’analfabetismo, che permise di stabilire che dalla percentuale di analfabeti da sei anni in su del 74,68% del 1861, si passò, nel 1911, al 43,1%, con punte tuttavia ancora molto alte nel Sud e nelle isole. Ciò giustifica le parole di Gibelli, il quale così si esprime: l’«immenso flusso di corrispondenza, che sembra quasi smentire e offuscare i dati sull’analfabetismo ancora consistente, dipende da un bisogno inesausto di contatto che promana invariabilmente tanto dai fronti quanto dall’interno». Nulla frenò l’urgenza di comunicare e, nonostante i soldati italiani fossero in maggior parte degli “illetterati”, finirono coll’attualizzare quella lingua scritta già viva nel secolo precedente, che si era caratterizzata per essere propria delle classi subalterne.

Scrivere non sempre tuttavia presuppone che vi sia chi voglia e sappia leggere. Va comunque rilevato che non era unicamente la “gente comune” a doversi impegnare nel decifrare i tanti messaggi provenienti soprattutto dai fronti, ma anche altri, ai quali la corrispondenza era diretta, compresi preti e parroci, alla cui misericordia e preghiere spesso i soldati si affidavano. Numerose erano pertanto le persone che leggevano la corrispondenza dei militari.

Difficile è provare, come è stato fatto sempre da Gibelli per la scrittura, se anche la lettura, soprattutto dei soldati in prima linea, avvenisse con l’aiuto di qualcuno che se ne faceva interprete e mediatore. Si spera tuttavia che si possa trovare in fonti, finora non rintracciate, che la lettura sia stato un fenomeno analogo alla scrittura, ovvero che essa avvenisse nei militari non solo come un fatto individuale (lettura silenziosa), ma come atto collettivo svolto da chi sapeva leggere e filtrare agli analfabeti. La lettura ad alta voce, più volte richiamata da autori, in particolare da Roger Chartier anche per il XIX secolo, e in testi divenuti ormai classici sebbene non riferiti al contemporaneo, pensiamo possa rivelarsi pure in questo particolare contesto.

La lettura comunitaria ad alta voce è stata infatti per lungo tempo pratica comune nel mondo popolare, in particolare contadino, soprattutto durante le veglie invernali che avevano luogo nelle stalle. Ed è altresì noto che a partire dal Cinquecento sono state prodotte edizioni destinate alle classi popolari, ad esempio quelle di romanzi cavallereschi come Il Guerrin Meschino e I Reali di Francia di Andrea da Barberino, fino alle edizioni dei romanzi d’appendice ottocenteschi e del primo Novecento, le quali venivano utilizzate proprio per la lettura ad alta voce eseguita dai pochi in grado di leggere correntemente in comunità in gran parte analfabete.

Fra i soldati illetterati c’è comunque chi ha sentito la lettura delle lettere come un processo che rende sonoro, orale il testo scritto. Scrive, ad esempio, un soldato romagnolo alla moglie: «Ora non poi gredere quanta ligreza […] di sentire la tua voce in un pezo di carta», espressione, come suggerisce Giuseppe Bellosi, nella quale si compendiano i due grandi temi della epistolografia popolare nella Grande Guerra: l’oralità e la scrittura. Nulla è finora trapelato dalle lettere dei soldati in merito al gradimento di qualche libro, se non qualche traccia sulla lettura dei giornali, che anch’io e Corubolo abbiamo trovato seppure percorrendo strade diverse.

Mi affido pertanto ad altre fonti per dare documentate informazioni su importanti iniziative relative proprio alla lettura.

La lettura

Sebbene la Grande Guerra sia stata il conflitto globale per eccellenza, in cui si ritrovano molti aspetti comuni nelle persone così come negli eventi, va da sé che quanto a scrittura e letture vi sono molte differenze, a seconda dei vari fronti. Differenze che sono da imputarsi al grado di istruzione, di alfabetizzazione e all’età di coloro che venivano chiamati alle armi nei vari Paesi impegnati nel conflitto.

In Italia il servizio di leva era fissato a 18 anni, ma con il decreto legge 5 gennaio 1917, n. 7 l’estensione alle classi 1874-1875 dell’obbligo del servizio militare venne prolungato fino ai 39 anni.

A 18 anni era normale che potesse albergare nei giovani non solo la paura ma pure l’arditezza e l’incoscienza, mentre i trentenni richiamati, in un’età che presuppone una maggiore consapevolezza di ciò che si rischia e di ciò che si può perdere, sicuramente soffrivano non unicamente per le atrocità del conflitto mondiale, ma anche per aver lasciato a casa famiglie con figli piccoli o grandi, a volte in stato di necessità e del cui affetto temevano di restare privi per sempre.

Ho fra le mani un piccolo gioiello a stampa, ovvero un minuscolo calendario (70x90mm) del 1916 illustrato da Adolfo de Carolis, il quale, all’epoca, lavorava soprattutto per editori anche di giornali, ma fu artista che disegnò e incise xilografie anche per D’Annunzio e Pascoli.

Il calendarietto, réclame di una notissima pasticceria bolognese, come si coglie dalla bustina che lo contiene, reca una breve frase al piatto anteriore inscritta in una cornice con giovani ignudi contornati da racemi vari: «Per i bimbi dei richiamati». All’interno, ogni due mesi, che si succedono con stampa in nero e rosso, alcune poesie: Carducci in primis, ma anche Giuseppe Albini con un carme in latino, Giuseppe Lipparini, Lorenzo Stecchetti, i poeti bolognesi più conosciuti.

Nel piatto posteriore si legge: «Comitato bolognese di azione civile», all’interno di un cartiglio retto questa volta da uomini ignudi. Come è noto, a Bologna dal 28 giugno 1914 si era insediata la prima amministrazione socialista di Francesco Zanardi, che si distinse anche per tutto ciò che fece a favore delle famiglie dei soldati. Gli stessi Comitati e le Associazioni, con l’aiuto prevalentemente di volontarie, signore aristocratiche danarose e generose, riuscirono a gestire una serie di iniziative che si caratterizzarono per essere sociali, umanitarie e anche filantropiche, rese possibili grazie anche alla stretta sinergia con l’Amministrazione pubblica, la quale non fece mai mancare il suo appoggio e la sua disponibilità.

L’omaggio ai «bimbi» dei richiamati si colloca proprio all’interno delle iniziative comunali a favore delle famiglie abbandonate dai soldati in guerra.

Con ogni probabilità, per il tono alto del calendarietto in tutte le sue componenti anche paratestuali, si può avanzare l’ipotesi che esso fosse destinato a persone competenti e danarose per ricavarne sussidi proprio per le famiglie dei richiamati, soprattutto per quelle in cui i «bimbi» erano rimasti senza guida. Al di là di altre considerazioni che si possono fare, il calendario appare un documento che attesta come negli strati alti della società vi fosse una diffusa abitudine alla lettura colta.

Diverse prove addurremo per sfatare l’opinione di chi ha dichiarato che la voglia di leggere nei combattenti italiani fosse inesistente, includendo pure gli intellettuali nella rosa dei non lettori. Basti pensare a come ne aveva parlato lo stesso Lussu sempre in Un anno sull’Altipiano, per il quale leggere in guerra veniva considerato un non senso, sebbene poco dopo si smentisse. Nell’incrociare un piccolo bottino di libri in una villa fra Gallo e Asiago, Lussu si preoccupò infatti di raccogliere in tutta fretta quei volumi che maggiormente lo interessavano e portarli seco. «Quei libri gli saranno compagni per mesi e mesi», così commenta Vittorio Roda, che della lettura di Lussu e di altri intellettuali ha parlato con competenza, fra i primi a sostenere che «la tentazione» della lettura sul fronte italiano s’insinuò «anche in quel mondo abbrutito».

Ma che cosa soprattutto si leggeva sotto il fuoco nemico, indipendentemente da ciò che Roda ha messo in luce, che interessa solo una élite di lettori? E che cosa soprattutto perveniva in trincea e nelle retrovie?

Oltre all’esplosione della comunicazione, che si caratterizzò con la corrispondenza, come succintamente si è riferito, anche libri e opuscoli, oltre ai giornali, raggiunsero i soldati e non furono appannaggio di lettura unicamente di ufficiali acculturati.

Poco ancora si è detto e scritto su questo particolare aspetto sebbene alcuni documenti invitino a una più approfondita analisi del problema. Non si conoscevano, infatti, neppure certe strategie che vogliono che nell’invio dei libri al fronte prevalesse la scelta del formato «tascabile», quando particolari volumi erano destinati a soldati combattenti. Non solo sono in gran parte mute le lettere dei combattenti, ma anche la letteratura specialistica sul tema della lettura al fronte e nelle retrovie, a quanto ci risulta, è molto povera.

Si sa per certo che l’Italia in quel periodo, attraverso numerosi Comitati cittadini, si adoperò non poco per diffondere libri di varia umanità, intesi a sollecitare aspettative, a volte pure bisogni di lettura di chi combatteva lontano. Non fu una prerogativa solo italiana. Relativamente ai fronti di altri Paesi è stata posta medesima attenzione a tali aspetti, considerati in tutta Europa «una iniziativa sorta in forma spontanea dalla società civile per alleviare le sofferenze dei combattenti […]», come ancora nel 2011 un autore spagnolo commentava, dopo aver messo a confronto vari Paesi.

Nessuno dei due progetti su cui mi soffermerò sembra animato da quell’atteggiamento paternalistico e soprattutto propagandistico alla base di altri interventi, come ad esempio il Servizio P, voluto dal Comando Supremo dopo Caporetto e sul quale molti hanno dissertato.

Le iniziative a favore dell’invio di libri ai combattenti, vuoi per i loro contenuti, vuoi anche per chi vi partecipò, si caratterizzarono per essere protese a rischiarare il buio anche esistenziale dei nostri combattenti.

Un Comune e una importante istituzione

Si consideri dapprima il ruolo ricoperto dalla Biblioteca Braidense di Milano e dal Comitato per la raccolta e distribuzione dei libri ai soldati, un progetto facente capo al Comune sempre di Milano, che divenne operativo nel maggio 1915. Il direttore della celebre istituzione, Francesco Carta (1847-1940), incarnò l’ideale dell’intellettuale illuminato, proteso non solo a difendere a Milano il ricchissimo patrimonio demandato alle proprie cure, bensì a sviluppare al massimo dell’efficienza il progetto comunale umanitario. Sebbene gli si addebiti negligenza per l’incendio della Nazionale di Torino (1904) di cui fu direttore, Carta, dopo aver ricoperto anche il ruolo apicale dell’Estense di Modena, diede a Milano, durante gli anni della guerra, forse il meglio di sé. In virtù del fatto che fu nominato vicepresidente del Sotto Comitato III al quale aderirono fra gli altri Achille Bertarelli, Emilio Treves e Filippo Turati, intellettuali di forte spessore con esperienze di collezionismo, di editoria e di biblioteche popolari, Carta s’incaricò infatti di raccogliere da moltissime fonti, editori, intellettuali, e persone semplici, che versarono anche spontaneamente, libri, giornali, opuscoli. Fece in modo poi che si provvedesse a ordinare tutto il materiale in Braidense per farlo pervenire in particolare agli ospedali, molti dei quali improvvisati data la gravità della situazione, che si acuì naturalmente a seguito della disfatta di Caporetto. I libri diretti ai capezzali di coloro che soffrivano non unicamente per le gravi ferite riportate, avrebbero dovuto alleviare anche quei danni psicologici contratti con i vari traumi della guerra, la cui a volte devastante intensità è stata resa nota fin dagli studi psichiatrici dei primi decenni del Novecento.

Che la lettura sia di giornali sia di libri nelle trincee fosse un antidoto alla onnipresenza della morte che si celava dovunque, è quanto anche in Francia è stato autorevolmente affermato da un autore che è riuscito pure a identificare le preferenze dei soldati, molti dei quali sceglievano prevalentemente testi leggeri come i feuilleton o contenuti nelle riviste di vita quotidiana parigina.

Studiare che cosa leggessero i soldati è strada ancora da percorrere anche per l’Italia ma, considerato il poco spazio a disposizione, continueremo nella narrazione di ciò che il Comitato della Braidense mise in opera. Cinquanta furono dapprima gli ospedali raggiunti fra Milano e circondario. Si pensò poi a quelli da campo, difficili spesso da localizzare, dai quali tuttavia partivano lettere di capitani e medici diretti al Comitato per soddisfare le richieste dei feriti che «han bisogno anch’essi di letture, le desiderano, le aspettano».

Fu poi la volta del fronte, dove la lettura dei soldati che combattevano in trincea, a inverno sopraggiunto, si dice, forse un po’ enfaticamente, diventasse non più uno «svago ma un bisogno».

Dal maggio del 1915 all’agosto del 1919 quando si concluse l’iniziativa, il Comitato raccolse e distribuì, sempre grazie al volontariato, alla collaborazione pure del Ministero e alla tenacia di Carta, che gli valse la medaglia d’argento, 584.474 unità bibliografiche prevalentemente costituite da libri ancor più che da giornali e opuscoli.

L’Opera milanese, dapprima circoscritta alla città, si irradiò pure su scala nazionale e internazionale, raggiungendo, dove fu possibile, i nostri connazionali, nei fronti o ancora nelle scuole e nei “ricreatori” delle “terre redente”, come pure nei campi di concentramento.

Il libro dunque, così come il giornale, durante la Prima guerra mondiale fu inteso se non proprio come panacea, sicuramente quale rimedio per molti mali, soccorso per chi nelle gravi difficoltà in cui si trovava, finì con considerarlo un bene in grado di dominare o sprigionare emozioni, un modo per cercare di superare le molte sofferenze e i disagi di vario tipo incontrati durante quel tragico conflitto.

Non stupisce pertanto che quasi tutte le città italiane si adoperassero per sovvenire, attraverso i vari Comitati che vennero costituendosi, a quelle che si pensava, o forse si sperava, fossero le necessità alle quali provvedere.

Così come non stupisce che nel campo di concentramento di Cellelager, dove gli intellettuali italiani erano numerosi, la biblioteca del blocco B venisse chiamata dagli ufficiali «farmacia».

L’altra impresa umanitaria che in qualche modo suffraga quanto finora detto è quella che si attuò grazie all’azione di una donna audace, passionale, non a caso convertitasi al mazzinianesimo, la quale fu insignita, già nel 1911, della medaglia d’argento della Croce Rossa Italiana.

Evelina Rinaldi, classe 1879, nata a Chiaravalle nelle Marche e morta nel 1942 a Genova, storica, ma pure letterata, insegnante, crocerossina, bibliotecaria, è un personaggio sul quale bisognerebbe diffondersi per le molte qualità che la contraddistinsero.

È sufficiente per ora dire che quale storica la Rinaldi ha al suo attivo ricerche insuperate, come gli statuti di Forlì del XIV secolo, usciti nel 1913 nella prestigiosa collana del Corpus statutorum italicorum sotto la direzione di Pietro Sella, i quali rappresentano ancora un punto di riferimento per i medievisti. E che una ricerca sempre archivistica, ma a latere della sua opera maggiore, la Rinaldi la fece sulle donne negli statuti sempre di Forlì, ricerca citata da uno studioso canadese in un’opera recentissima.

Nel ricordo apparso poco dopo la sua morte nel «Giornale storico e letterario della Liguria», della Società Storica ligure di cui Evelina fu socia, così come lo era della Deputazione bolognese di Storia patria, a firma del direttore, A.C. [Arturo Codignola], in toni commossi ed estremamente elogiativi, si rilevavano lo «scrupolo e la diligenza» con cui Evelina intraprese studi di particolare importanza come gli Appunti per una bibliografia mazziniana e molti altri interventi, comprese le numerose recensioni apparse sempre sul «Giornale storico».

La sua onestà viene detta «cristallina» e la sua comprensione «somma», e nel testo che la ricorda non ci sono parole dettate da alcuna piaggeria ma solo da profonda stima e affetto.

«La mia allegria sono i libri»

Ma la signorina Rinaldi, come la chiama Prezzolini, ci ha lasciato soprattutto una preziosa testimonianza sul tema della lettura e dei lettori che, con esemplare chiarezza e senza un grammo di presunzione, sgombra il campo dai lamenti e dai facili giudizi sulla scarsa propensione degli italiani alla lettura. Si tratta di un breve saggio apparso dapprima in «Cultura dello spirito» nel 1917, rivista napoletana di impegno, poi pubblicato a sé e contemplato successivamente nel volume di Prezzolini, vera miniera per i tanti documenti riportati, saggio breve ma molto denso di informazioni su una esperienza condotta da questa insegnante nel 1916.

La signorina dispone, per il lavoro che ha deciso di intraprendere e di annotare, di un campione omogeneo, pur se mutevole, in quanto composto da soldati «colpiti dal male e dal ferro nemico» alle prese con i libri e ciò le consente – con una scrittura particolarmente letteraria – di raccontare il senso e i risultati di ciò che fa.

L’ambiente è quello di un ospedale di Forlì, già convitto nazionale, che vede passare nei suoi letti un universo militare connotato da due caratteristiche: la modesta posizione sociale dei soldati ricoverati e la loro provenienza da ogni regione d’Italia. Non sappiamo in realtà se quell’ospedale ospiti soltanto semplici soldati, o se Evelina scelga di occuparsi di loro tralasciando i gradi più alti e quindi più istruiti, ma da un accenno «qualora si fosse presentata, fra i nostri soldati, qualche persona colta, rara avis […]» sembra di capire che questi rari uccelli non volassero là dentro.

Contadini e operai, dunque, con tutto il peso delle loro storie, la fatica del loro lavoro, i segni della loro esperienza sono il campione su cui la nostra insegnante si rivolge con incredibile entusiasmo.

A costoro Evelina propone libri di vario genere, raccolti con l’intenzione di formare una biblioteca in ospedale. Decisione audace e giusta, ma la modestia dell’insegnante-infermiera-bibliotecaria si limita a sottolineare come sia stato il suo senso del dovere a darle la spinta a sperimentare (ma lei non usa mai questo termine) il suo “disegno”. E sarà in ciò ben ripagata se, dagli analfabeti come dagli istruiti, dai ragazzi come dagli adulti, riuscirà a intravvedere “lampi di genio”. L’accoglienza alla proposta di lettura sarà espressa fragorosamente o sommessamente, con entusiasmo o con esitazione, ma il contatto è stabilito. Via via che scrive la penna di Evelina si fa più scoppiettante e mette a fuoco il senso profondo di alcuni impulsi che regolano o meglio che tolgono regole alla lettura. Pur tra commenti prevedibili, che cioè la lettura favorisca cultura e educazione morale, da tutti i casi narrati emerge un pozzo inesplorabile di reazioni: «Una folla confusa di sentimenti» che mai dovrebbero essere codificati nell’accingersi a un invito alla lettura o nel tentare di spiegare che cosa sia. Evelina attende quindi alla sua descrizione tracciando anche un profilo dei lettori a seconda della zona di provenienza; indimenticabile è ciò che dice dei soldati-lettori veneti «gentili e miti» che valutavano i libri con tre gradazioni di giudizi da riportare nel loro dialetto: «Xè beiin, xè belo, xè beiissimo». Quanto ai rifiuti nei confronti della lettura, pochi in verità – documenta Evelina – valga soprattutto il caso del giovane calabrese che, dopo aver letto due libri uno su Garibaldi e l’altro su Anita, non ne volle più leggere, colpito da malinconia. Qui risalta la discrezione di Evelina che non interviene mai affrettatamente o duramente; neppure (oh vizio antico!) quando i libri spariscono, nella situazione, fenomeno più che comprensibile. Talvolta non sa spiegarsi i motivi di alcune reazioni e, giudiziosamente, tace.

Ci si aspetta rigo dopo rigo che Evelina tocchi la questione dell’analfabetismo e difatti lei ne parla osservando i diversi atteggiamenti dei soldati: vergogna, supponenza, indifferenza, tentativi di nascondere la verità, ma capita ben presto che alcuni analfabeti si trovino il loro personale accesso al libro diventando voraci lettori di libri e riviste illustrati. Sono momenti di felicità quelli in cui scoprono che in un libro si possono leggere le figure e lo possono fare tutti. Del resto oggi non affidiamo ogni tipo di comunicazione alle immagini? Con un percorso à rebours però, il cui esito non è definito, nuovi analfabeti e alfabeti si affacciano al mondo da guardare perdendo la parola.

Il peso dell’analfabetismo nel Sud è bilanciato dal maggior entusiasmo manifestato dai soldati meridionali «forse più desiderosi di sapere».

Un dettaglio non da poco: non è stato possibile a Evelina scegliere i libri per la biblioteca dell’ospedale in quanto i testi raccolti sono stati offerti generosamente da amici e conoscenti, ma questa particolarità forse ha giovato al suo disegno: quando mai avrebbe selezionato un volume quale la Storia d’Italia del Bertolini? O I promessi sposi, pur nelle edizioni corrette e illustrate, difficile tuttavia a nostro avviso da digerire in un ospedale anche se certamente è vero, come ha sottolineato Carlo Ossola, che il romanzo manzoniano è stato uno dei libri su cui si è formata l’identità nazionale? O magari i Calendari-Atlanti De Agostini che passavano «di letto in letto, nella rossa veste smagliante»? E così Evelina scoprì e ci fa scoprire la passione nata fra gli aspiranti cartografi per la geografia e l’astronomia. Per loro infatti organizza una serie di lezioni con l’ingegnosa trovata di disegnare i pianeti su una lavagna che possa essere vista dai letti dei malati attraverso l’ampia finestra del locale e così, sera dopo sera, aggiornate le posizioni dei pianeti, al tramonto, lo spettacolo aveva inizio.

I successi di Evelina sono tanti, fra questi uno si staglia netto. «La mia allegria sono i libri», così si legge su una cartolina inviatale da un soldato siciliano, ormai uscito dall’ospedale dove usava camminare orgogliosamente, già alle sei del mattino, con il libro prediletto sotto il braccio. È infatti la lettura ad aver contribuito alla metamorfosi del soldato, giacché il «piccolo siciliano», dice Evelina, da «sdegnoso e iracondo divenne cortese e paziente», brillando i suoi occhi «d’una luce nuova». Il caso del «piccolo siciliano» non offre solo il destro per capire come la lettura invogliasse gli ospiti dell’ospedale, ma soprattutto appare come una delle rare testimonianze del perché del suo gradimento.

L’attenzione e l’intelligenza di Evelina non la tolgono dal suo tempo, come rivela anche la sua prosa. Convinta che la lettura possa «affinare i sentimenti», di fronte al fascino esercitato sui soldati dai racconti di briganti e delitti, non interviene autoritariamente e non censura, ma cerca di procurare ai suoi «clienti sensazioni diverse alternando i generi di lettura». Ritrovate così «le corde più delicate e più riposte della sua anima» il popolo potrà volgere «a nobili intenti gli impulsi primitivi e talora selvaggi». Ecco dunque chiamato in causa un generico popolo a sostituire soldati in carne e ossa che così bene lei aveva capito e che erano i protagonisti della sua avventura.

Non va taciuto il valore del breve saggio nell’aiutarci a impostare una riflessione sulla non-lettura degli Italiani, rilevata recentemente anche da Giovanni Solimine, statistiche alla mano. Ebbene, quasi senza mezzi, Evelina ha operato una piccola rivoluzione. Ma quante energie sono state sprecate, quanti lampi di genio si sono spenti nel buio di una politica culturale che ha ignorato comportamenti così semplici come quelli fatti emergere dall’autrice. Lampi semplici ma che sono potenzialmente carichi di umori positivi e di aspettative. Proseguendo sul cammino di Evelina e moltiplicando il suo «disegno», gli Italiani sarebbero diventati lettori accaniti. Non solo non si è presa questa strada, se non negli anni Settanta-Ottanta del Novecento che furono anni di piombo ma anche di forti aneliti all’interno delle istituzioni, e si è continuato a considerare rischiose la lettura e l’alfabetizzazione, per non parlare del fastidio, ben radicato, verso una eventuale folla, ritenuta pericolosa, che volesse frequentare le biblioteche. Vi sono state e vi sono notevoli eccezioni, naturalmente, che però non sono mai diventate la via maestra.

Onore quindi all’«egregio colonnello, dottor Colombano Bertaccini» direttore dell’ospedale che capì e lasciò libera la nostra Evelina e riconoscenza a Prezzolini che nel suo avveduto preambolo si chiede: «Che cosa legge il nostro popolo? O meglio: che cosa leggerebbe, se sapesse leggere e se potesse avere libri?», e subito dopo in maniera particolarmente sconsolata: «Il nostro popolo è avido di lettura ma non trova da leggere».