N.2 2020 - La biblioteca nel mondo che verrà

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Interpretazione, interconnessione, empatia: il ruolo delle infrastrutture culturali (e delle biblioteche) per la ricostruzione che verrà

Chiara Faggiolani

Dipartimento di Lettere e culture moderne, Sapienza Università di Roma; chiara.faggiolani@uniroma1.it

Per tutti i siti web l’ultima consultazione è stata effettuata l’11 settembre 2020.

Abstract

Intervista a Enrico Giovannini

English abstract

An interview with Enrico Giovannini

Diverse sono state le tappe salienti del percorso verso lo sviluppo sostenibile che a partire dagli anni Settanta ha avuto come punto di arrivo la data cruciale del 25 settembre 2015, giorno in cui 193 paesi tra cui l’Italia hanno approvato alle Nazioni Unite l’Agenda globale per lo sviluppo sostenibile e i relativi 17 Obiettivi (Sustainable development goals – SDGs nell’acronimo inglese), articolati in 169 target da raggiungere entro il 2030. Come messo in evidenza anche in molti documenti ufficiali, si tratta di un evento storico per almeno tre motivi:

  1. il primo è legato al suo valore simbolico: si esprime in questo documento un giudizio chiaro sull’insostenibilità dell’attuale modello di sviluppo, non solo sul piano ambientale, ma anche su quello economico e sociale;
  2. il secondo motivo è la condivisione del progetto: tutti i paesi sono chiamati a contribuire allo sforzo di portare il mondo su un sentiero di sviluppo sostenibile, senza distinzione tra paesi sviluppati, emergenti e in via di sviluppo. Il principio fondamentale è ben sintetizzato dalla formula “no one left behind” (nessuno sia lasciato indietro);
  3. il terzo motivo è il coinvolgimento: tutte le componenti della società, dalle imprese al settore pubblico, dalla società civile alle istituzioni filantropiche, dalle università e centri di ricerca agli operatori dell’informazione e della cultura sono chiamati a partecipare. Anche le biblioteche.

Non è possibile pensare al mondo che ci aspetta, dopo quella che è stata definita “la grande pausa”, determinata dalla crisi sanitaria da Covid-19, senza prendere atto che stiamo vivendo un profondo cambio di paradigma che impatta su tutte le dimensioni della nostra vita.

Ho evocato il quadro di riferimento globale che l’Agenda 2030 definisce perché esso rappresenta precisamente il paradigma all’interno del quale ci muoveremo. Per questa ragione approfondire il tema dello sviluppo sostenibile è cruciale ed è cruciale uscire definitivamente dall’idea che esso sia legato esclusivamente alle questioni di carattere ambientale, errore concettuale gravissimo che ha avuto ricadute profonde sulle politiche economiche e sociali nel mondo.

La partecipazione culturale e l’accesso all’informazione, citato tra i target dell’Obiettivo 16, sono prerequisiti indispensabili in questo scenario, dunque le biblioteche – come IFLA e AIB hanno messo in evidenza attraverso molteplici attività e una ricchissima documentazione – possono avere un ruolo strategico. Lo stesso ruolo strategico della cultura come motore per uscire dall’emergenza è stato oggetto di discussione in questi mesi, durante l’emergenza sanitaria, durante la quale per esempio sono state ampiamente mappate le attività delle biblioteche, senza tuttavia essere stati in grado di misurare l’impatto determinato.

Proprio a partire da questa considerazione è iniziata la mia intervista a Enrico Giovannini, cofondatore e portavoce dell’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile (Asvis) nonché autore del saggio L’utopia sostenibile già citato in nota e del volume appena uscito, scritto a quattro mani con Fabrizio Barca, Quel mondo diverso. Nata il 3 febbraio del 2016, su iniziativa della Fondazione Unipolis e dell’Università degli studi di Roma “Tor Vergata”, l’Asvis è un unicum a livello internazionale, il cui obiettivo è far crescere nella società italiana, nei soggetti economici e nelle istituzioni la consapevolezza dell’importanza dell’Agenda 2030 e per mobilitarli allo scopo di realizzare gli obiettivi di sviluppo sostenibile.

 

Emergenza Covid-19 e sviluppo sostenibile: nonostante i due temi siano chiaramente legati, nei fatti a volte si ha l’impressione che la crisi sembra stia spazzando via dal dibattito pubblico l’attenzione maturata in questi anni sugli obiettivi dell’Agenda 2030 dell’ONU. È davvero così?

L’attenzione su alcuni temi ha certamente preso il sopravvento su altri, ma sia gli uni che gli altri fanno parte dell’Agenda 2030. Tutti i sondaggi che abbiamo fatto svolgere durante e dopo il lockdown mostrano chiaramente come a seguito della pandemia le persone abbiano collegato molto più che nel passato il tema della qualità dell’ambiente con la qualità dello sviluppo e, dunque, con le condizioni economiche e sociali. I dati lo mostrano chiaramente anche se sul piano scientifico si parla di “correlazioni” tra condizione dell’inquinamento e letalità, nell’immaginario collettivo questa è stata percepita e interpretata come una “causazione”. Questo modo di leggere ciò che è accaduto dà forza a ciò che l’ONU ha spesso enfatizzato, ovvero – come ha ricordato il Papa – «non si può essere sani in un mondo malato». Questo elemento è importante e se si chiede agli italiani il grado di importanza relativa dei 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile, in generale si osserva un rafforzamento dell’attenzione sulle questioni ambientali ma anche un fortissimo interesse sulle questioni economiche e sociali che sono parte dell’Agenda 2030.

La sensazione alla quale lei faceva riferimento nella sua domanda è corretta se si pensa che l’Agenda 2030 riguardi solo le questioni ambientali, ma così non è. L’Obiettivo 8 riguarda l’occupazione e il reddito, l’Obiettivo 9 le infrastrutture e le imprese, l’Obiettivo 4 l’istruzione, l’Obiettivo 3 la salute, l’Obiettivo 5 le disuguaglianze di genere. Sono tutti temi molto rilevanti nel dibattito pubblico ma che non vengono necessariamente connessi tra di loro. Questo è il vero problema.

Se leggiamo i tanti interventi che ci sono stati durante il lockdown e anche in seguito da parte di pensatori di tutto il mondo l’idea che la crisi renda evidente la non sostenibilità dell’attuale modello di sviluppo e del capitalismo, come lo abbiamo conosciuto negli ultimi quarant’anni, appare molto evidente. Questa consapevolezza credo sia anche cresciuta, pensiamo a quanto spazio in televisione è stato dato a tematiche come l’organizzazione del lavoro, la mobilità, l’innovazione, il futuro ecc.

D’altro canto, è importante da sottolineare il ruolo della Commissione europea che ha saputo tenere la barra dritta – come si dice – fin da marzo-aprile quando la Presidente della Commissione Ursula von der Leyen e il Presidente del Consiglio europeo Charles Michel hanno presentato la road map per la ripresa, per costruire una Europa più “sostenibile”, “resiliente” ed “equa”.

Sono questi i termini chiave dell’Agenda 2030, coerentemente con il fatto che prima la Commissione europea e poi l’intera Unione, attraverso i meccanismi istituzionali, aveva già scelto l’Agenda 2030 come quadro di riferimento per tutte le politiche. Il problema semmai è che il nostro Paese non se ne è ancora accorto, non ha ancora capito come mettere insieme i vari tasselli.

A dicembre 2019 la Commissione ha presentato il piano per il Green new deal, immaginato non come un modo per proteggere solo l’ambiente ma come uno strumento per far crescere l’economia e la società europea. Sempre a dicembre ha presentato una comunicazione sul nuovo semestre europeo, cioè il nuovo coordinamento delle politiche economiche e sociali e nelle analisi per paese che la Commissione pubblica all’inizio dell’anno e che stimolano poi tutto il processo ha introdotto la componente ambientale accanto a quella economica e sociale. Scattata la crisi la risposta è stata appunto esattamente nella linea già indicata nelle priorità dello scorso anno e in più con il Recovery and resilience plan – il piano che ogni paese deve formulare per usufruire dei fondi europei – si mettono il contributo alla transizione ecologica e la digitalizzazione come precondizioni dell’accettazione dei vari progetti. Il 30% di quei fondi devono essere spesi nella direzione della lotta all’emergenza climatica. Sono tutti interventi molto forti che obbligheranno i paesi ad andare in questa direzione, basti guardare il piano francese e tedesco per rendersene conto.

Il nostro Paese ha passato mesi a decidere se usare o meno i fondi del MES per la sanità invece di discutere come si sarebbero potuti utilizzare. Poi ha discusso per settimane su chi si sarebbe dovuto occupare della preparazione del Piano nazionale per la ripresa e la resilienza invece di discutere su una strategia di lungo periodo. Noi siamo sempre concentrati su questi temi invece che sui contenuti per cui l’impressione a cui lei faceva riferimento è corretta. Ora che occorre preparare i piani molti si stanno rendendo conto del fatto che bisognerà essere concreti e coerenti tra le politiche finanziate con fondi europei e fondi nazionali. Non credo proprio che l’Europa accetti di darci fondi per fare una transizione ecologica se spendiamo 19 miliardi ogni anno in sussidi che danneggiano l’ambiente. Queste sono potenziali trasformazioni del modo di fare le politiche pubbliche di cui l’Italia deve rendersi conto, pena il rischio di vedere bocciati i progetti che avanzerà.

 

Ha parlato di “tasselli” mettendo in evidenza l’importanza delle connessioni tra i diversi piani. Uno di questi tasselli è senza dubbio la cultura. In Asvis un gruppo di lavoro trasversale coordinato da Paola Dubini è dedicato a questo tema e si sta facendo un intenso lavoro per mettere in evidenza il ruolo strategico che essa può avere e quali possono essere gli strumenti per misurarne il valore. Nella ricostruzione che verrà che ruolo potranno e dovranno avere le infrastrutture culturali?

Un ruolo assolutamente cruciale perché siamo di fronte a un cambio di paradigma del modo di concepire lo sviluppo rispetto a come lo abbiamo concepito negli ultimi quarant’anni, caratterizzati da una visione neo-liberista che è diventata patrimonio comune dopo l’arrivo al potere di Reagan e Thatcher. Questa trasformazione culturale non riguarda solo il modello economico ma anche il modo di concepire il futuro. Non a caso proprio di recente la Commissione europea ha pubblicato il primo Rapporto strategico sul foresight, ovvero la capacità di guardare il futuro e disegnarlo in funzione dei desiderata europei. Il pilastro fondamentale sul quale è costruito il Rapporto è il concetto di “vulnerabilità” e di “resilienza”, sul quale insisto da molto tempo. Da quattro anni lavoriamo con il Joint Research Centre della Commissione europea per far sì che questi principi diventino il paradigma delle politiche europee e finalmente con la pubblicazione questo lavoro è diventato il nuovo modo di impostare l’analisi politica del futuro. Un futuro che sarà pieno di shock – ne dobbiamo prendere atto – e che sarà diverso da come è stato descritto negli ultimi decenni. Questa scelta della Commissione europea così coraggiosa, e che ha richiesto un grandissimo sforzo, non può però limitarsi a trovare spazio soltanto in un documento, per quanto interessante, ma deve diventare patrimonio comune.

Il tweet di Ursula von der Leyen – «contro il virus troveremo un vaccino, contro il cambiamento climatico no» – dà l’idea che il futuro sarà fatto di ondate di problemi rilevanti rispetto ai quali tantissime persone non avranno la capacità di reagire e che forse tanti non riusciranno neppure a comprendere. Nel libro L’utopia sostenibile ho provato ad affrontare questi temi con un titolo, proposto dall’editore, esplicitamente in risposta al libro di Bauman Retrotopia. Qui l’autore sottolineava come, vista la velocità dei cambiamenti che ci fanno capire come siamo tutti relazionati e che non esiste una distinzione tra “noi e loro”, gran parte delle persone non ha le categorie culturali necessarie per gestire una trasformazione e reagisce con un attaccamento al passato preferendo guardare indietro piuttosto che avanti, la “retrotopia” appunto.

A tutto questo aggiungiamo che questa crisi non è solo economica e sociale ma anche culturale. La pandemia è un fenomeno del tutto sconosciuto alla generazione attuale occidentale – abbiamo sentito parlare di Ebola nel 2014 e della SARS nel 2002-2004 come problemi lontani, la generazione che nel 1919 ha vissuto l’epidemia Spagnola è ormai passata – questo determina rischi enormi per la salute mentale, non solo per la salute fisica. Pensiamo al rischio di isolamento, al pessimismo e alla chiusura in sé stessi che i comportamenti protettivi che siamo invitati ad assumere possono generare, questo produce fenomeni tutt’altro che positivi che richiedono un forte investimento in cultura e non solo in istruzione. Ecco dove le biblioteche, e in generale i luoghi in cui la cultura viene trasmessa, possono fare la differenza.

 

Le biblioteche possono quindi giocare un ruolo significativo anche nella ricostruzione delle relazioni sociali?

Non solo nella ricostruzione delle relazioni sociali, direi più in generale nella costruzione della visione degli individui da cui dipende il funzionamento della società del capitale sociale. Possono essere in questa fase e nel futuro straordinariamente importanti.

 

Le faccio una domanda provocatoria: le biblioteche per come ha avuto modo di conoscerle sono all’altezza di questo compito così sfidante?

Nessuno lo è. Siamo tutti dentro una trasformazione, dentro un cambio di paradigma. Per un periodo ho lavorato all’ISCO – Istituto di studi per la congiuntura – e ricordo un bibliotecario che sapeva dirmi a memoria i libri che mi potevano servire, mi accompagnava fisicamente all’interno della biblioteca trovando per me i libri più rilevanti. Non so se i bibliotecari di oggi hanno queste caratteristiche ma è evidente che, come per tutti noi, l’uso degli strumenti informatici ha cambiato il modo di rapportarci ai libri e ai supporti in generale. Sul nostro sito futuranetwork.eu abbiamo pubblicato un servizio realizzato dalla RAI nel 1969 in cui viene descritta la casa del futuro come un “centro di comunicazione” in cui c’è un angolo per l’accesso ai libri attraverso un computer in connessione con un “sistema librario mondiale”, una connessione con tutte le biblioteche del mondo capaci di fornire tutte le informazioni necessarie. Una casa che diventa una biblioteca-scuola. Veramente impressionante da vedere oggi alla luce di quanto è realmente accaduto.

Come sarà il futuro non lo sappiamo ma certamente se, come spero, passeremo a forme di smart working, la disponibilità a visitare biblioteche posizionate al centro dei centri urbani si ridurrà. Sarà una grande opportunità e occasione per immaginare città policentriche e concentrare attività e servizi in luoghi unici e grandi per motivi di efficienza. E c’è una domanda di ripensamento profondo anche delle biblioteche come luoghi di attività culturale, sociale e collettiva non più pensati per una fruizione solipsistica.

 

Nel 2018 lei aprì il 60. Congresso nazionale AIB dal titolo “Che cos’è una biblioteca” ricordando che tre sono gli elementi indispensabili per seguire la strada dello sviluppo sostenibile: 1) tecnologie adeguate per tutti; 2) una governance diversa da quella che stiamo seguendo e 3) un cambiamento di mentalità che potremmo definire “culturale”. Ricordò poi che proprio su questo terzo punto le infrastrutture culturali e le biblioteche in particolare possono giocare un ruolo strategico. Mi colpì moltissimo allora l’accento che lei pose sulla necessità di un “pensiero integrato” affermando che i bibliotecari hanno questo elemento nel proprio DNA. In che direzione dovrà andare la formazione dei professionisti della conoscenza e dell’informazione del futuro, professionisti che devono confrontarsi con queste sfide?

La prima capacità è quella di sapersi porre oggi le domande che gli altri si porranno tra un po’, quando verranno a chiedere informazioni. Essere cioè un passo avanti. Quella della biblioteca non può essere semplicemente una funzione reattiva e neanche è possibile affidarsi solo ai motori di ricerca. Il valore aggiunto di un professionista dell’informazione credo sia quello di interpretare ciò che verrà come domanda dall’utente. Il secondo elemento è riuscire a trasmettere senza determinare un overload di informazioni, una sorta di mappa concettuale per guidare l’utente a capire le interconnessioni, a capire meglio come approfondire la domanda generica che nasce al primo contatto. Poi c’è una terza caratteristica: l’empatia, ovvero entrare in sintonia con persone che si aspettano alcune cose entrando in una biblioteca e magari ne scoprono delle altre. Quella stessa empatia del bibliotecario che ho evocato poco fa. C’è quel bellissimo film Il professore e il pazzo che racconta la vera storia dietro la nascita dell’Oxford English Dictionary, il primo dizionario della lingua inglese redatto dal 1884 al 1928 dal quale si evince il rigore di coloro che si incaponirono nel tentativo di creare il primo dizionario enciclopedico. Rigore ma anche utopia, capacità di guardare avanti. Se siamo in un momento storico di grande cambiamento forse i bibliotecari potrebbero assumere questa funzione di assistenza pionieristica. Essere loro stessi dei pionieri.

 

È una visione veramente affascinante questa che ha descritto e a questo proposito non è banale ricordare le potenzialità della formazione umanistica dei bibliotecari, l’esortazione è dunque a valorizzare e riattivare le proprie capacità interpretative. Gli strumenti interpretativi propri della cultura umanistica, il metodo strutturalista, che abbiamo finora utilizzato per interpretare testi letterari o critici, dovrebbero essere valorizzati e riattivati come una grande opportunità per decodificare la realtà e i bisogni degli utenti. Vengo a un’ultima domanda.

Nel nostro settore si parla tanto della necessità di un riposizionamento per le biblioteche, proprio in relazione alla crisi di legittimazione che da anni le sta investendo. Proviamo a immaginare un posizionamento strategico delle diverse tipologie di biblioteca (biblioteche universitarie, pubbliche e di conservazione) rispetto agli SDGs. Pensa sia utile e possibile?

Credo sarebbe un errore cercare una specializzazione in funzione dei singoli Obiettivi di sviluppo sostenibile perché la potenza dell’Agenda 2030 è proprio l’interconnessione. Bisogna con strumenti e linguaggi diversi aiutare le persone a connettere i puntini nel loro complesso.