N.2 2020 - La biblioteca nel mondo che verrà

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Cambio di paradigma e altri paradigmi

Luca Ferrieri

Fondazione per leggere, Milano; luca.ferrieri@fondazioneperleggere.it

Per tutti i siti web la data di ultima consultazione è il 26 ottobre 2020.

Abstract

La biblioteconomia e la vita quotidiana dei servizi bibliotecari sono entrati in una fase che in termini kuhniani può essere chiamata di “scienza rivoluzionaria” o di “cambio di paradigma”. È un processo che viene da lontano, alimentato dalla crisi irreversibile del modello di public library, su cui la pandemia da Covid-19 ha agito come un potente acceleratore. Per comprendere quello che sta succedendo e per trarne le necessarie conseguenze, non è sufficiente il ricorso agli strumenti della biblioteconomia tradizionale: occorre un approccio fortemente interdisciplinare, un intreccio tra teoria e pratica, una mescola tra biblioteconomia scientifica e letteraria, fenomenologia, metaforologia e perfino fantabiblioteconomia, sorretta da uno sguardo visionario e rigoroso insieme. Di questo progetto si indicano qui alcuni frammenti e il filo che può tenerli insieme: quello di un rapporto temporale e modale tra le categorie di passato, presente e futuro.

English abstract

Library science and the daily life of library services have entered a phase which in Kuhnian terms can be called “revolutionary science” or “paradigm shift”. It is a process that comes from afar, fuelled by the irreversible crisis of the “public library” model, on which the Covid-19 pandemic acted as a powerful accelerator. To understand what is happening and to draw the necessary consequences, it is not enough to use the tools of traditional librarianship: a strongly interdisciplinary approach is needed, an intertwining between theory and practice, a mix of scientific and literary librarianship, phenomenology, metaphorology and even library science-fiction, a visionary and rigorous look at the same time. Some fragments of this project are indicated here with the thread that can hold them together: it is a temporal and modal relationship between the categories of past, present and future.

Corsi e ricorsi paradigmatici

Cambio di paradigma! È la parola d’ordine e la parola chiave che ricorre e si rincorre tra piazze e pagine (mai così vicine, mai così distanti), e a cui è dedicato anche questo numero di «Biblioteche oggi Trends». La centralità e insieme la corrività di questo concetto non nascono oggi, però. Quando Thomas Kuhn, nella sua opera La struttura delle rivoluzioni scientifiche, che è del 1962, formulò l’ipotesi del cambiamento di paradigma come elemento strutturale del “progresso” scientifico, lo fece con l’intento di arginare la deriva neopositivista e la circolarità di cui appariva prigioniera. La biblioteconomia, che ha vissuto, per un lungo periodo, questa esperienza, non può che essere grata del tentativo. Ma, al di là dell’ovvio contrattacco dei seguaci di Popper e dei successivi tentativi di mediazione e composizione messi in atto da diversi filosofi, apparve subito chiaro che le stesse nozioni di paradigma e di cambiamento andavano soggette a una notevole oscillazione di significati. Margaret Masterman, in The nature of a paradigm, enumerò almeno ventuno accezioni diverse del termine nell’opera di Kuhn; questi, in una sua replica, accettò la critica mostrando però come le famiglie semantiche e concettuali fossero in realtà molto meno e tutte riconducibili a un alveo unitario. Ma i ventuno significati di paradigma non appartengono alla stessa tipologia delle sessantasei parole che gli eschimesi posseggono per dire la neve in tutte le sue sfumature: non testimoniano tanto una centralità inesorabile, quanto un’oscillazione strutturale.

Infatti la portata rivoluzionaria delle affermazioni del filosofo statunitense fu subito ridimensionata da alcuni fattori interni alla sua stessa teoria. Tra questi la contrapposizione tra mondo scientifico e mondo umanistico (con la tesi della “incommensurabilità” delle discipline umanistiche, che oggi appare in netto contrasto con il campo di ricerca delle digital humanities, poi estesa da Kuhn a quella dell’incommensurabilità dei diversi paradigmi tra loro). Inoltre Kuhn e soprattutto i suoi epigoni sacrificarono la radicalità dell’ipotesi alla capacità suggestiva ed espansiva del termine, ottenendo senz’altro il risultato che oggi siamo qui a parlare di paradigmi, anche quando conversiamo al bar, ma scontando una certa perdita di rigore, e quindi di efficacia. La stessa distinzione tra scienza “normale” (prima del cambio di paradigma) e “straordinaria” (durante e dopo), potrebbe apparire un tentativo di normalizzare le rotture rivoluzionarie, più che di lavorare nella direzione contraria: oggi i cambi di paradigma vengono individuati al ritmo di uno alla settimana, ma le vere rivoluzioni scientifiche si possono forse contare sulle dita di una mano.

Detto e premesso tutto ciò, di che cosa parliamo quando parliamo di cambio di paradigma? E perché tutto ciò ha a che vedere con il momento storico che stanno attraversando le biblioteche e la biblioteconomia? Ho cercato di approfondire il tema nel libro La biblioteca che verrà e qui proverò ad aggiungere elementi di discussione, alla luce di quanto sta accadendo nel mondo – e non a caso questo numero della rivista si intitola La biblioteca nel mondo che verrà.

Wolfram Horstmann e Jan Brase, in Libraries and data: paradigm shifts and challenges hanno sintetizzato i cambiamenti intervenuti nella storia e nella concezione delle biblioteche riconducendoli ai “quattro paradigmi” della scoperta scientifica enunciati dall’informatico Jim Gray. Occorre notare che Horstmann e Blase descrivono dei mutamenti ricorsivi, che si verificano cioè più volte nella storia delle biblioteche, anche se con modalità diverse. Questa ricorsività produce un’ulteriore incrinatura nel concetto di cambio di paradigma, che, secondo Kuhn, si presenta come una forma di novità quasi assoluta. Nel caso di Horstmann e Blase invece dovremmo concludere che non c’è nulla di nuovo sotto il sole bibliotecario, perché molti mutamenti sembrano semplicemente ricombinare paradigmi precedenti, portando però a situazioni completamente diverse.

Il primo cambio di paradigma, per Gray, è il passaggio da una scienza empirica, che si ferma all’osservazione dei fenomeni, a una teorica, basata su generalizzazioni e modellizzazioni. In ambito bibliotecario, secondo Horstmann e Brase, questo passaggio è rappresentato dalla transizione da una biblioteca concepita come infrastruttura accademica deputata alla conservazione di manoscritti, di esclusivo uso interno, a una biblioteca di collezioni aperte a studiosi e studenti. La centralità del libro, manoscritto o stampato, che regna sia nel primo che nel secondo paradigma, è soggetta ad alcune eccezioni, che non erano neanche sentite come tali; tanto che, ricordano gli autori, le biblioteche ospitano, fin da tempi remoti, anche mappe, disegni e archivi di oggetti, comprese scarpe; così come oggi la New York Public Library presta anche cravatte e hot spot. Questo passaggio dal primo al secondo paradigma – dalla conservazione all’uso, dal possesso all’accesso – quindi si è ripetuto più volte: un certo ritorno contemporaneo e postmoderno alla “biblioteca delle cose” si può leggere anche come la riproposizione di una vocazione museale che caratterizzò (e a volte imprigionò) la biblioteca pubblica ai suoi albori e che oggi torna come elemento di comunicazione e integrazione tra i vari servizi culturali.

Il passaggio dal secondo al terzo paradigma in Gray è rappresentato dalla svolta computazionale; per Horstmann e Brase dal primo ingresso del digitale nelle biblioteche, quando il “numerico” prese possesso sia dei documenti che dei sistemi di gestione. Dal catalogo elettronico alla gestione della biblioteca come un’impresa digitale, dalle prime forme di divisione del lavoro in biblioteca al postfordismo intellettuale corre un filo sottile ma preciso, che è alla base dello sviluppo e poi della crisi del moderno “prestificio”.

Il quarto paradigma, in ambito scientifico, sempre in base alla sintesi di Gray, è quello della ricerca intensiva basata sui dati, che unisce teoria, esperimento e simulazione. Per Horstmann, è quello della biblioteca come hub. Ma questa biblioteca dell’avvenire ha, anche questa volta, radici antiche, perché riposa su una generalizzazione del principio di referral e sul suo trasferimento nel cloud. La biblioteca-hub, la biblioteca delocalizzata e defisicizzata è quella che “rinvia”, che collega i vari gradi di separazione e attua uno dei fondamentali principi del reference: se non ho quello che cerchi, so dove si trova, e so procurartelo, o portarti da lui, so darti il “link”. Attraverso il nuovo paradigma la biblioteca perfeziona così un distacco definitivo dalla sua infrastruttura patrimoniale e monumentale: Horstmann lamenta che essa non abbia ancora capito che deve archiviare e catalogare, non solo i documenti, ma soprattutto le “ricerche” che realizza o ospita, le fonti che scopre, perché questo è il suo patrimonio unico e irripetibile. Questa direzione di cambiamento esprime e moltiplica, sotto mutate spoglie, la potenza dell’antico strumento catalografico del “vedi anche” e quindi apre al principio di serendipità, che è uno dei più importanti e “paradigmatici” aspetti della biblioteca contemporanea, la quale anche in questo modo lavora alacremente per trasformare la quantità in qualità.

Paradigmi per una metaforologia della biblioteca

Ci sono infatti alcuni rischi nell’idea di una scienza che procede a colpi e contraccolpi di paradigmi rivali. Per esempio, come si garantisce la continuità (e si evita la simmetrica prospettiva palingenetica) attraverso i momenti di rottura, se c’è incommensurabilità tra un paradigma e l’altro, se ognuno di questi deve fare terra bruciata intorno a sé, se non esiste nemmeno un linguaggio comune tra i diversi stadi? Attraverso questa domanda non sto sponsorizzando una visione evoluzionistica o teleologica del processo scientifico, tutt’altro. È infatti l’idea di rivoluzione la cruna stretta per cui deve passare, e spesso non ci riesce, la lotta dei paradigmi. Perché ogni teoria della scientificità ristretta rischia di ricondurre, per gradi successivi, a una separazione definitiva, quella tra scienza e filosofia, tra scienze dure e scienze umane, riconsegnandoci all’incubo del dualismo tra le culture. E Kuhn finisce a riportarci dritti alla prospettiva che voleva combattere: quella per cui la filosofia coincide con la filosofia della scienza, un monismo che pensa di risolvere il dualismo con l’annessione.

Per questo è importante accennare a una diversa declinazione del concetto di paradigma, qual è quella offerta da Hans Blumenberg, in un libro significativamente intitolato Paradigmi per una metaforologia, che è anch’esso degli anni Sessanta, anche se non risultano influssi e tracce di letture incrociate tra Blumenberg e Kuhn. La differenza di statuto tra il paradigma scientifico e quello metaforologico, nelle rispettive concezioni di Kuhn e Blumenberg, rende inservibile lo schema classico del cambio di paradigma: si tratterebbe di un caso di incommensurabilità al quadrato. Se per Kuhn (pur nella variabilità delle ventuno accezioni) il paradigma è la base logica e concettuale su cui si fonda una conquista scientifica universalmente riconosciuta, che «per un certo periodo, fornisce un modello di problemi e soluzioni accettabili a coloro che praticano un certo campo di ricerca», per Blumenberg il paradigma è qualcosa di archetipico, di asintotico e di ottativo che anticipa la definizione di Agamben: «una forma di conoscenza né induttiva, né deduttiva, ma analogica, che si muove dalla singolarità alla singolarità». Kuhn lavora intorno a un’analisi storica della scienza che procede per alternanze di paradigmi (almeno, di paradigmi dominanti); Blumenberg a una paradigmatica metaforologica. Ma la distanza non elimina i possibili punti di contatto e non rende impossibile “ipotizzare”, e poi “costruire”, un’integrazione dialogica tra le due sfere. Masterman ha mostrato come il paradigma in Kuhn abbia due funzioni fondamentali: quella di una “immagine” di qualcosa e quella di un “artefatto” che incarna la ricerca e la scoperta scientifica, ed entrambe sono compatibili con l’idea di metafora di Blumenberg. Anche la metaforologia di Blumenberg peraltro è soggetta a una notevole oscillazione di significati: assomiglia a un sistema di classificazione delle metafore (di tipo tematico, però, non sistematico, precisa Melandri), ma è anche la disciplina che si occupa della loro analisi e descrizione, e acquisisce via via un taglio fenomenologico, storico e storicistico.

Sappiamo quanto ricca sia l’elaborazione metaforica dell’idea di biblioteca. Al punto che potremmo parlare, in questo caso, di un piano meta-metaforico, ossia della biblioteca come metafora delle metafore, come “teca metaforica” in quanto tale. Tra le metafore “assolute” che Blumenberg prende in esame vi è quella del libro come metafora della natura, fondata sul paradigma della “leggibilità del mondo”. La piena assunzione e comprensione critica di questo paradigma, nella sua versione ecologico-naturalistica, in quella storico-sociale, in quella linguistica, in quella pedagogica, è essenziale per la svolta a cui è chiamata oggi la biblioteconomia. In questo caso il cambio di paradigma agisce come una diversa declinazione del paradigma stesso. La leggibilità del mondo è il rovescio e la prosecuzione dell’affermazione galileiana per cui la natura è un libro scritto in alfabeto matematico. È la natura alfabetica del mondo a renderlo leggibile. Senza questa corrispondenza, che non sopprime gli scarti e gli attriti, la biblioteca nel mondo che verrà sarebbe un azzardo o un sepolcro imbiancato. Il paradigma della leggibilità ha il compito di scalzare «l’antica inimicizia tra libro e mondo, letteratura e realtà». Con alcune conseguenze: l’assunzione della centralità della lettura nei servizi, nelle strategie e nelle azioni bibliotecarie; la doppiezza del concetto di leggibilità (che ha un’istanza liberatoria e una di dominio); la necessità di confrontarsi sempre col suo opposto, o col suo residuo, la “illeggibilità” che sottrae alla biblioteca la comprensione di certe parti o aspetti del mondo, ma la salva da ogni trionfalismo illuministico.

Il riferimento alla metaforologia di Blumenberg serve anche per superare alcuni dualismi, che sono anche false alternative, come quello tra biblioteconomia scientifica e biblioteconomia “letteraria”. Per ricondurre il pensiero della biblioteca nell’alveo della “svolta linguistica” che ha segnato la filosofia contemporanea. Per andare oltre il paradigma di una biblioteconomia sociale che, dopo averla evocata, rischia di occultare proprio la natura linguistica della biblioteca. È anche per questo che da parte di alcuni studiosi è stato auspicato uno slittamento di paradigma dalla biblioteconomia sociale a quella interpretativa (Giovanni Solimine) e a quella narrativa (Chiara Faggiolani).

La riflessione di Blumenberg, pur non essendosi egli occupato direttamente di biblioteche (ma abbastanza di lettura), funziona anche come prezioso elemento di controllo e di sostegno nella lotta dei paradigmi. La portata politica del suo pensiero, la posizione di lotta all’assolutismo filosofico e a quello politico, sempre strettamente uniti, la volontà di liberare il mondo metaforico e immaginario da ogni sudditanza nei confronti della sfera del concetto, possono essere molto utili per la ricerca di senso e di posizionamento che oggi attraversa le biblioteche e la biblioteconomia. Altri due aspetti della sua filosofia sono da tener presenti: la lotta contro l’indifferenza e l’invisibilità, che è un movente della sua ricerca metaforologica, ma che è anche un passaggio obbligato per le biblioteche, costrette ogni giorno a guadagnarsi la loro quota di attenzione; e il legame che la via metaforica intrattiene con la già citata serendipità bibliotecaria. Un aspetto importante del cambiamento di paradigma che dovremmo perseguire riguarda infatti l’abbandono di una via rettilinea, biunivoca, fondata su un’idea della biblioteca e delle sue collezioni come una sorta di “rispecchiamento” della realtà esterna. A ogni entrata del catalogo corrisponderebbe un libro; a ogni libro la cellula del reale cui esso si riferisce e che rispecchia. Ma le cose non stanno in modo così lineare, neanche in campo bibliotecario: molte linee di collegamento sono cieche, altre si basano su relazioni da uno a molti, con legami a raggera, altre ancora sono nebulose frattali governate dalla fisica del caos e dal caso; la “legge” di Warburg e la logica serendipica della scoperta, che non contrasta ma completa quella scientifica, sono lì a dimostrarlo, perché anche in biblioteca capita di trovare l’America cercando le Indie o di seguire le relazioni di amicizia che legano i libri tra loro e i lettori con essi.

Per fare un esempio di un approccio ibrido e polimorfo al mondo delle biblioteche, capace di mescolare sapidamente biblioteconomia scientifica, biblioteconomia letteraria e fantabiblioteconomia, che poi è la via maestra che ci ha indicato Foucault ogni volta che ha sfiorato il tema, si può dare un’occhiata al libro di Schnapp e Battles, The library beyond the book. Ne esce un ricco repertorio di paradigmi infranti o redivivi, secondo la logica ricorsiva cui abbiamo già accennato, che si addensano proprio intorno all’idea della “teca”, soggetta a un profondo ripensamento, in cui la mutazione va di pari passo con la rivisitazione. La biblioteca, che è stata e continua a essere il luogo della mediazione, acquisisce oggi anche la caratteristica bolteriana della ri-mediazione: i libri non sono affatto scomparsi, né mimetizzati, ma ri-mediati, ossia processati e incorporati all’interno di molti altri “media”, e viceversa, perché c’è anche il cammino che dai media conduce o ritorna al libro. Come dicono gli autori, la biblioteca “oltre il libro” non significa “dopo” il libro. «Dopotutto i libri non sono mai stati “soltanto” dei libri». Il libro di Schnapp e Battles è composito e promiscuo anche nello stile, nella grafica e nell’iconografia: a fianco della trattazione saggistica, sempre in bilico tra descrizione e provocazione (come premettono gli autori), si aprono orizzontalmente, dall’alto verso il basso, piccole e lapidarie finestre sul futuro in atto. Per esempio quella in cui si descrive la memoria lunga dei libri che verranno: «se un visitatore della biblioteca ha cercato nel catalogo un libro che non è disponibile, il libro ricorda. E quando è rientrato sugli scaffali, ogni volta che quel lettore gli passa vicino, gli manda un amichevole promemoria». Ecco una piccola innovazione, ormai tecnologicamente matura, che mentre mette al servizio del lettore il concept della smart library, lo trasporta in un immaginario fatto di conversazione e intimità.

L’altra direzione di mutazione e meticciato riguarda la vicinanza metaforica tra biblioteche e cimiteri. Benché possa comprensibilmente farci storcere il naso, perché tramette un’idea funerea della biblioteca e perché contrasta con un certo vitalismo e giovanilismo bibliotecario, essa continua a essere vera e falsa, nello stesso tempo, ma in un modo completamente diverso rispetto al passato: falsa, se vi leggiamo solo il reliquiario di carte sepolte; vera, se consideriamo le biblioteche come «luoghi di comunione e di conversazione tra i vivi e i morti». Qui Bacone incontra Lankes. Emerge la natura “spettrale” della biblioteca contemporanea, ossia la sovrapposizione di voci vicine e lontane, che non deve inquietarci più di tanto: l’amicizia con i fantasmi è un debito che abbiamo contratto con Marx, Derrida e con la letteratura gotica; una biblioteca in fase di mutazione paradigmatica è infestata da presenze/assenze, è popolata da ciò che non è più vivo ma non è ancora morto, e viceversa; l’insieme dei saperi che la abitano è soggetto a un permanente stato spasmico. Del resto è tipico dei paradigmi, dice l’Enciclopedia Treccani, designare dei rapporti in absentia. Sugli scaffali – già investiti dalle zuffe descritte da Swift ne La battaglia dei libri – va in scena il cortocircuito tra passato e futuro che fa rabbrividire la tautologia del presente continuo in cui siamo immersi. Lisa Blackman ha descritto così la situazione “hauntologica” che riguarda la società dei dati, e, quindi, anche la biblioteca:  

La domanda esplorata in questo libro concerne quali altri tipi di allineamenti non ortodossi o tattici di discipline, sotto-discipline, teorie, prospettive, figure, archivi, entità e pratiche, ci aiuterebbero a sondare la complessità dei media del XXI secolo, la cultura politica dei dati e la questione di ciò che conta come soggetto digitale nel contesto di ciò che chiamo dati infestati. La mia tesi è che c’è molto da raccogliere riunendo i campi degli studi scientifici, degli studi sugli affetti, sulla svolta non umana, insieme a teorie strane, approcci femministi all’automazione, nuovi materialismi, hauntologie e alcune delle diverse e diverse genealogie di soggettività che esistono ai margini di molte discipline e prospettive filosofiche.

Onestamente fa più paura (deve farci più paura) la monumentalità di certe biblioteche assise sul trono di un sapere che divide e impera, protette dalla soglia e dalla paura della soglia, governate dall’élite degli eruditi o dei custodi, platonici e non.

Il libro e la biblioteca a venire

C’è un filo che lega i sommovimenti dei paradigmi con la torsione del futuro che li accoglie o rigetta. Ed è un filo modale e temporale insieme: lo definirei quello del livre à venir. Quando Blanchot scrisse questo libro (1959), che è una raccolta di brevi saggi apparsi in rivista, riprese il titolo da quello su Mallarmé. Quest’autore, infatti, è centrale per tutta l’elaborazione sul libro e sulla lettura di Blanchot, Derrida, Lévinas e Barthes e molti altri. L’idea mallarmeana del “libro assoluto”, inaccessibile, irrealizzabile – quella che traspare in Un colpo di dadi mai abolirà il caso e nei frammenti postumi de Il libro, e che è uno dei fili conduttori di tutta la sua opera – viene in Blanchot spodestata e trasformata nell’allegoria di un libro a venire, che è sempre tale, anche quando sulle sue spalle si è depositata una storia secolare. Calvino, quando tratteggia la sua visione di classicità, riprende la lezione blanchottiana, rivestendola di una particolare leggerezza, come compete appunto a chi fa un primo giro in pista, e non lo guarda nessuno, mentre al secondo tutti lo seguono con il fiato sospeso.

La declinazione “a venire” è “modale” innanzitutto perché esprime un modo di essere profondo del libro e poi perché gravita intorno alla dialettica tra le categorie di possibilità e di necessità in cui il libro vive e di cui vive. Benché siano abbastanza rari i riferimenti diretti alla lettura nelle opere di Blanchot, tutta la sua visione del libro e dell’opera è attraversata dalla presenza-assenza della lettura. Essa rappresenta «la condizione stessa di possibilità dell’opera», perché è «attraverso l’esigenza della lettura» che la scrittura diviene effettivamente possibile e «lo scrittore diviene l’intimità nascente del lettore ancora infinitamente futuro». L’opera, dunque, non è soltanto il testo, che è una entità chiusa e conclusa, è qualcosa di molto più vasto e mutevole, che prende vita e senso proprio dall’interazione con il lettore. E tuttavia questo non è un processo particolarmente “pacifico”, sottolinea Blanchot, muovendosi sulla scia di quella fulminante descrizione della «scena primaria della lettura», evocata da Ricoeur, che assomiglia all’arena di un combattimento. In questo quadro si colloca anche l’alternanza e la dialettica che la lettura instaura tra distanza e prossimità: tra la necessità di tenere una distanza sufficiente alla comprensione e l’intimità del gesto che punta al contatto e all’incorporazione. Ma, come ha sottolineato Ricoeur, è proprio nella natura dell’atto di leggere che insiste la necessità della lotta, che è hegelianamente una lotta per la vita: «ciò che il lavoro di lettura rivela non è soltanto una carenza di determinazione ma anche un eccesso di senso». Qualsiasi testo, infatti, si rivela “inesauribile” per la lettura, ponendola di fronte all’inanità del suo lavoro selettivo e alla prospettiva di soccombere o di “leggere ciò che non è scritto”. Di qui la funzione di ri-scrittura e ri-creazione del testo che la lettura si assume, appunto, per non soccombere (la lettura è sempre sospesa su un abisso, dice Blanchot). Di qui anche la deriva immaginaria, immaginale e immaginifica della lettura a cui abbiamo già accennato.

Tutto ciò tocca le attività, la “presenza”, il senso della biblioteca. Essa non può ritenersi estranea a questo cambiamento e alla lotta per il cambiamento. Per quanto riguarda il “duello” tra autore e lettore, la biblioteca dovrebbe lavorare per schiudere la possibilità della pace, di una pace non irenica e non convenzionale. È di questo che dovrebbe farsi testimone e garante, non delle spoglie e della loro custodia (il libro è anche una spoglia – sia nel senso del bottino che del fantasma). Lo potrà fare con l’allestimento della scena e degli scenari possibili, con le risorse economiche e intellettuali del granaio pubblico, con il soccorso, il rispetto, la fraternizzazione e il riconoscimento del simile nel dissimile, con la spartizione e condivisione dei beni che segue al combattimento, specie se esso è ad armi pari e senza vincitori né vinti. Blanchot e Lévinas, nei modi sottilmente diversi disegnati dalla loro amicizia di pensiero, non fanno che ripeterci che “non si legge senza l’altro”, così come non si scrive senza l’altro. E questo è il senso del libro a venire che è sempre anche un libro fantasma, è sempre un revenant.

La coniugazione a venire ha, ovviamente, anche una dimensione temporale, che è strettamente collegata a quella modale: se bisogna leggere anche ciò che non è (ancora) scritto, se si legge e si scrive sempre ai margini di un altro libro, se ogni libro è sempre parte di un’opera a venire, se è insieme postumo e prodromo, se è parte di quell’utopia di biblioteca universale che, deposta ogni sfumatura autoritaria e riduzionista, diviene il simbolo della diversità e della libertà, è chiaro che è di futuro, in senso forte e proprio, che stiamo parlando. Tanto più se lo facciamo in un momento in cui il futuro è la prospettiva che manca e ci manca. Anche grammaticalmente, dicono gli studiosi, nella semantica del futuro il valore modale è centrale, mentre il valore temporale è derivato e secondario. A di là delle sfumature grammaticali e linguistiche, che pure sfiorano punti importanti della questione, vi sono altri elementi di congiunzione e raccordo tra le due sfere.

Uno ci riporta ancora a Blanchot, che ha sempre messo in evidenza la continuità tra la dimensione collettiva e quella individuale delle pratiche di lettura. La lettura, dice, «è legata alla vita dell’opera, è presente in tutti i suoi momenti, è uno di essi ed è di volta in volta e nello stesso tempo ciascuno di essi»: è radicata quindi nella irriducibile singolarità del lettore e nello stesso tempo è legata a una “intelligenza collettiva”, a un orizzonte condiviso che trascende la individualità. Questa dimensione è emersa prepotentemente, anche in Italia, con la stagione dei gruppi di lettura, che ha investito le biblioteche ponendosi, senza saperlo e volerlo, al centro del cambio di paradigma in atto, chiudendo con la fase delle biblioteche asettiche e neutre, che “dispensano informazioni” e aprendo quella delle biblioteche che creano, condividono e sperimentano. I gruppi di lettura, che operano all’interno delle biblioteche anche quando si collocano all’esterno, sono la prova vivente che tra l’“insensato gioco di leggere” di matrice blanchottiana e l’azione sociale delle biblioteche non c’è contraddizione ma corrispondenza. Questa contiguità è un elemento essenziale della biblioteca a venire, indica con precisione il punto di sutura tra dimensione epistemica e dimensione temporale, mostra il bisogno di futuro e di futuribilità cui oggi anche la biblioteca deve rispondere.

Un secondo elemento è il desiderio. Non a caso il “libro a venire” è stato sovrapposto, o addirittura confuso, con il “desiderio di libro” di origine proustiana. È vero che quest’ultimo, sia nella sua versione bibliofila che in quella letteraria, origina da una mancanza ed è disperatamente proteso verso il futuro. È vero che ogni libro contiene il desiderio di un altro libro. Ma vi è, nella dimensione desiderante, qualcosa che rischia di perdersi nel continuo rinvio, nel lavoro di Sisifo dell’immaginazione, qualcosa di ripetitivo, di meccanico e di strutturalmente incompiuto. La Recherche è un’opera infinita, circolare e frammentaria nello stesso tempo. La frammentarietà costituisce il suo splendore e insieme il prezzo pagato al desiderio che la impregna. Alla fine de Il tempo ritrovato il narratore proustiano annuncia l’intenzione di mettersi al lavoro per il libro futuro, un’opera “romanzesca”, che dovrà avere la forma del Tempo. Naturalmente il sospetto che quell’opera sia quella che il lettore ha appena concluso non fa che rinfocolare l’enigma e il desiderio: in questo caso, le livre à venir è veramente una metamorfosi del libro à relire.

Voltare pagina

Il libro a venire contiene quindi una spinta desiderante ma nella forma preminente della costruzione e del progetto. Qui il nesso con la biblioteca, come dimora del libro a venire, del libro mutante, si fa ancora più stringente. La biblioteca assume su di sé il coté progettuale e si fa protagonista del “design” della lettura, dal ripensamento degli spazi per leggere allo studio e alla valutazione delle interfacce elettroniche, seguendo due direttrici lontane ma comunicanti: quella dell’attenzione all’artefatto, al supporto, al funzionamento tecnico delle pratiche di lettura, e quella che si rivolge alla cornice, al frame, e ipotizza il passaggio da un’estetica a una politica della lettura. È un salto di paradigma cui finora la biblioteca si è dimostrata riluttante. Sul primo fronte (che, ripetiamo, comunica con il secondo) si apre la prospettiva fantastica e fantascientifica del libro futuro, interconnesso, incorporato e innestato nel corpo e nella mente del lettore; il secondo allarga il discorso al rapporto tra il libro come artefatto e i “mondi di sostituzione”, tra le macchine e l’immaginario.

È una prospettiva che potremmo definire retrofuturista, nel senso che congiunge l’analisi di come il futuro è stato immaginato in passato alla tendenza steampunk che segue il movimento inverso e si chiede “come sarebbe stato il passato se il futuro fosse arrivato prima”. Questo punto di vista non lede la fondamentale contemporaneità della biblioteca pubblica, di cui ci parla Paolo Traniello in un’intervista uscita sullo scorso numero di questa rivista. Piuttosto esso intende reagire a una sorta di serpeggiante tirannia del presente gettando un ponte bidirezionale tra passato e futuro. Contro la stanca apologia dell’attualità rivendica, nietzschianamente, il valore dell’inattuale. Per proseguire il parallelismo grammaticale, potremmo collocare quest’angolazione prospettica sotto il dominio del “futuro anteriore”: un tempo che alla funzione futurale, usata però in modo retrospettivo, accosta sfumature epistemiche (come se il parlante, o il leggente, fosse onnisciente), concessive e condizionali. È la miscela giusta per tentare di leggere il futuro nei fondi di biblioteca.

Sebbene questo sia un articolo introduttivo alla necessità teorica e pratica del cambio di paradigma, non si può né si deve evitare del tutto un discorso sui contenuti, o almeno su alcuni contenuti, anche se sarà condensato in forma elencatoria e sintetica, né si potrà lasciare completamente implicito un riferimento alla fase in cui si iscrive il cambio di paradigma. Alludo al fenomeno della pandemia globale, che assume, anche nel nostro contesto, un valore davvero “paradigmatico”, in quanto porta a compimento tendenze e movimenti che vengono da molto lontano, e le riveste di uno stato di necessità non prorogabile. Essa fa emergere sia l’impossibilità di proseguire i servizi bibliotecari (ma anche tutto il resto) nelle forme precedenti, sia la riproposizione dello status quo come baluardo e traguardo. Il refrain “nulla sarà come prima” si accompagna al puntuale tentativo, in tutti i campi, di ripristinare la cosiddetta “normalità” e di ritornare esattamente al punto di partenza, quello che ha generato il disastro, anche sulla base del diffuso negazionismo (“non è successo nulla”).

Il salto di specie di un virus coronato non è sufficiente a spiegare la quantità di fenomeni che si sono messi in atto. La fragilità strutturale delle nostre costruzioni e convenzioni culturali e sociali è stata messa a nudo anche perché esse erano ormai segnate dalla maturità del cambiamento. In ciò non occorre scorgere nessuna ineluttabilità (di questa come di tutte le altre crisi che costellano il nostro tempo e il nostro universo) ma solo la formidabile istanza di accelerazione che è stata impressa.

Tutto ciò vale a maggior ragione per il nostro campo di lavoro e di osservazione e per il cambio dei paradigmi in atto. Dovremo infatti parlarne al plurale, perché sono tanti i paradigmi messi in discussione, ma anche non perdere di vista il legame con la crisi radicale di “un” paradigma, che è quello legato all’antropocene e alle sue convulsioni e contraddizioni (l’idea del dominio dell’uomo sull’uomo, dell’uomo sulla natura, di un genere sull’altro, di una specie sulle altre). Il paradigma antropocentrico è all’origine di questa crisi annunciata, fino al punto di inquinare ogni proposta umanistica o neoumanistica che non faccia i conti in modo risoluto con questa sua natura.

Tra i tentativi più efficaci di annacquare la radicalità del passaggio che stiamo vivendo vi è quello di confondere il cambio di paradigma con una riverniciata metodologica e linguistica, con un aggiornamento delle agende e con qualche ritocco empirico. Vi sono tanti modi, e non tutti evidenti e trasparenti, per riaffermare la continuità attraverso qualche aggiustamento. Uno è quello “gattopardesco”, che proclama la necessità di cambiare tutto per non cambiare niente.

Anche la categoria di innovazione rischia di essere un’arma spuntata o a doppio taglio, quando la sua forza disruptiva viene usata come espediente retorico o come ricostituente per il mercato e la concorrenza. È vero che la biblioteca o innova o non è, ma spesso la spinta a perseverare nel (proprio) essere prevale su quella a innovare. Molte celebrate innovazioni avvengono all’interno del vigente paradigma, sono parte della sua “manutenzione”. Anche nella classica impostazione di Schumpeter, nonostante l’enfasi sulle “ondate di distruzione creatrice” che ne sarebbero alla base, l’innovazione è semplicemente la “applicazione” di un’invenzione, e i criteri di valutazione della sua efficacia sono tutti riferiti all’universo imprenditoriale, economico e tecnologico. In questa accezione tendono a essere fenomeni neutri e an-etici. Giovanni Dosi ha paragonato le varie forme innovative al cambio di paradigma, per concludere però che la più frequente forma di innovazione, che è quella incrementale, viene a collocarsi nella fase che Kuhn definisce di “scienza normale”, ossia fuori e a monte di ogni fase di scienza “rivoluzionaria”. Secondo questa analisi il principio accumulatorio che è alla base dell’innovazione tecnologica, dimostrerebbe che non c’è nessun rapporto con la rottura del paradigma: sarebbe vero anche nel mondo della scienza e dell’economia quel che Brecht sosteneva in poesia e in politica, ossia che «i piccoli mutamenti sono nemici dei grandi mutamenti». O, come dice Schumpeter, difficilmente la ferrovia sarebbe potuta nascere da un perfezionamento delle diligenze a cavallo. Rischiano di non sfuggire a questo destino neanche l’innovazione “radicale” descritta da Schumpeter, o quella disruptiva che si è recentemente aggiunta alla tassonomia innovativa, in quanto anch’esse mantengono una certa autosufficienza e distanza dai cambiamenti sistemici.

Solo nel caso delle innovazioni a grappolo o delle “costellazioni” di innovazioni, è possibile ipotizzare un esito o un’origine paradigmatica. Il cambio di paradigma, se è reale, trascina con sé numerose costellazioni di paradigmi, sia nella discesa al dettaglio che nella risalita ai massimi sistemi. Comporterà quindi un rimescolamento anche dei paradigmi trasversali, mettendo in rapporto e conflitto coppie concettuali come dati e metadati, distanza e prossimità, uguaglianza e differenza, universalismo e relativismo, individuo e società, umano e postumano ecc. La rivoluzione, se sarà bibliotecaria, sarà anche culturale e sociale: non so se “sarà catalogata”, come sostenevano alcuni gruppi di bibliotecari americani negli anni Settanta, ma sarà teletrasmessa, digitalizzata, twittata, e quindi avrà bisogno di ri-mediazione e di vigilanza mediatica.

L’effetto di trascinamento del cambio di paradigma agisce in numerose direzioni, e produce anche dei “falsi movimenti”. Per esempio il confinamento dovuto al Covid-19 ha portato in auge l’idea che la biblioteca debba rinunciare, per un’intera fase storica o addirittura per sempre, ai servizi “in presenza”. Questa deduzione, che si presenta sotto le mentite spoglie di un cambio (totale) di paradigmi, in realtà era già apparsa all’orizzonte ai primi vagiti della rivoluzione digitale. Molti, soprattutto fuori dalle biblioteche, pensarono e sostennero che la digitalizzazione avrebbe mandato in soffitta ogni esigenza “spaziale” o “territoriale” della biblioteca. E invece si è verificato non solo che si sono continuate a costruire nuove e grandi biblioteche “fisiche”, ma che anche l’attenzione alle tematiche spaziali, alla qualità delle scelte operate in questo campo, è cresciuta trasformandosi. Così come è aumentata la necessità di legami territoriali, di radicamento in bacini di utenza reale, con visi e corpi. Alla base di questo falso paradigma vi erano e vi sono due convinzioni entrambe prive di fondamento: che il mondo digitale sia qualcosa di disincarnato e defisicizzato; che la biblioteca sia un mondo a una sola dimensione, e che il passaggio da una dimensione all’altra annulli le precedenti. Se quindi l’idea della rinuncia ai servizi “in presenza” era falsa quando fu enunciata sulla base della presunta immaterialità dei servizi digitali, lo è anche quando ciò avviene in forza di un’interpretazione opinabile dell’emergenza sanitaria. Inoltre, anche in periodo di confinamento, quasi tutti i servizi della biblioteca, con un po’ di fantasia e passione, possono essere convertiti in servizi “a distanza”, ma ugualmente “presenti” nella vita delle persone. La presenza, insomma, non è legata solo al medium, ma anche ai contenuti, alla qualità e vitalità delle interazioni. Un dibattito in parte analogo è quello che si è svolto a proposito della didattica online dei servizi scolastici: in questo caso ha pesato molto negativamente il solco del digital divide e quello dell’insufficiente digital literacy di studenti e insegnanti, ma alcuni giudizi catastrofici appaiono esagerati.

In questo caleidoscopio di veri e falsi cambiamenti occorre tener ferma la necessità di voltare pagina. È il gesto che permette di individuare il punto di separazione e insieme quello di ricostruzione. Voltare pagina non può impedire di voltarci indietro, come ci ricorda l’Orfeo di Blanchot e di Rilke, perché voltarsi è “l’unico modo possibile per avvicinarci” a ciò che abbandoniamo. Voltarsi è un altro modo di essere presenti e prossimi, si potrebbe dire proseguendo il discorso di prima. Il cambio di paradigma non è mai una divisione tra buono e cattivo, è qualcosa di molto più profondo e tentacolare, in cui non si sa chi vince e chi soccombe, o se la Graecia capta ferum victorem cepit. L’angelo della storia vola verso il futuro con la testa voltata e lo sguardo rivolto al passato, diceva Benjamin.

Il libro dei cambiamenti

Ma quali saranno i principali contenuti bibliotecari del cambio di paradigma che verrà? Senza pretese profetiche, e in funzione puramente esemplificativa, mi limito a un elenco approssimato per difetto. Ognuno aggiunga la sua tessera.

  1. Potremmo partire dalla rivoluzione digitale; ma più che di un paradigma si tratta di un metaparadigma, che taglia trasversalmente tutti gli altri, o di una costellazione di paradigmi peraltro spesso condivisi e contesi con il mondo analogico. Il semplice passaggio al digitale è per le biblioteche, e non da ora, un must ineludibile, come ha confermato la fase pandemica. D’altra parte il duro giudizio pronunciato da Alex Wright, secondo cui le biblioteche americane del XXI secolo non sarebbero cambiate di molto rispetto a quelle del XIX, resta vero a maggior ragione per le biblioteche di altri paesi del mondo. La svolta necessaria riguarda quindi la direzione da imprimere alla rivoluzione digitale, il livello di sostituzione e convivenza con l’analogico, il rapporto con i dati, i metadati e i big data, l’applicazione e l’innesto dell’intelligenza artificiale nelle ricerche e nei servizi bibliotecari, la natura della lettura digitale ecc. Per produrre un effettivo cambio di paradigma, l’ingresso del digitale nelle biblioteche dovrebbe da un lato approfondire le sue implicazioni antropologiche e culturali (cioè il suo coefficiente di integrazione e penetrazione), e dall’altro ridimensionare il pathos sostitutivo e apocalittico che lo ha sin qui contrassegnato («questo ucciderà quello»).
  2. La crisi della public library viene da lontano, ma lo stato di sofferenza dei suoi paradigmi ha oggi raggiunto un punto di non ritorno. Alludo al crollo del principio identitario, universalistico, ideologico della “biblioteca per tutti”, e all’emergere della biblioteca “per” e soprattutto “di” ciascuno. Che non è solo la biblioteca “su misura”, ma quella che prende la misura delle cose, che afferma una dimensione partecipata non solo nella forma della cooptazione subalterna degli utenti nella gestione, ma nella creazione dei contenuti, nel “design” della conoscenza, nella scelta delle priorità bibliotecarie. Alludo al passaggio dall’alfabetizzazione alle literacy. Alludo alla fine di un egualitarismo astratto e formale che non ha saputo attaccare e intaccare in profondità i meccanismi riproduttivi delle disuguaglianze, in crescita esplosiva nel mondo. Alludo alla prevalenza del meccanismo distributivo su quello produttivo, fino alla costruzione dei grandi “prestifici” di fine secolo. Non possiamo lamentarci delle biblioteche nei centri commerciali se non sappiamo vedere il grado di penetrazione dei meccanismi di mercato e dell’ideologia neoliberista nel cuore e nel cervello della biblioteca che è avvenuta negli ultimi anni.
  3. Se vogliamo leggere questa lunga crisi della public library sotto una luce più generale, possiamo ricorrere al cambio di paradigma descritto da Giovanni Solimine e Giorgio Zanchini, ossia l’avvento di una cultura “orizzontale”, in cui scompaiono le differenze tra alto e basso, in cui tramonta la “monumentalità” (sia spaziale che concettuale) della biblioteca e in cui anche la sua “documentalità” conosce importanti processi di trasformazione, che richiedono per esempio anche una nuova aggiornata visione delle “collezioni”. Il paradigma di orizzontalità ha aspetti positivi e negativi che sono ben analizzati da Solimine e Zanchini: da un lato vi è il processo di creazione di una “intelligenza collettiva”, come già accennato, dall’altro l’avvento di una “cultura liquida”, disintermediata, fungibile, su cui ha insistito Zygmunt Bauman.
  4. Quindi il paradigma dell’orizzontalità è solo in parte legato ai processi di democratizzazione della biblioteca (un istituto della democrazia che spesso è stato tale solo nelle parole e negli auspici dei suoi più illuminati studiosi). Qui l’implosione del vecchio paradigma ha portato (o è dovuto) a una espansione dei bisogni e della domanda, che ha investito anche il campo dell’officina di lettura e scrittura, cioè quello della democrazia “letteraria”, per dirla con Spinazzola. La trasformazione dell’autorialità – che ha coinciso con la rivoluzione digitale, ma ha percorsi autonomi –, la rivendicazione della parità creativa tra lettore e autore, il riconoscimento dei rispettivi diritti, sono usciti dalle righe dei saggi di semiotica e sono diventati elementi di gestione della biblioteca e di pratica della lettura.
  5. Un altro importante cambio di paradigma è quello che ha portato a sottolineare sempre di più il ruolo attivo della biblioteca nella creazione di contenuti. Anche qui il processo è andato in due direzioni. Da un lato la spinta verso una biblioteca del fare, grazie anche all’apporto della filosofia maker e hacker, dall’altro l’emergenza della necessità non solo di “trasferire”, ma di “trasformare” la conoscenza e i suoi contenuti. La ormai consolidata identificazione della biblioteca con il mondo open e l’alleanza con wikipediani e wikimediani, così come la svolta della scienza verso una modalità di ricerca sul campo aperta ai cittadini (citizen science), testimoniano della fecondità di questo incontro e costituiscono anche il terreno più promettente per un bilancio e un rilancio delle digital humanities. Le biblioteche sono inesorabilmente passate dal paradigma dello scambio di informazioni a quello della condivisione della conoscenza.
  6. L’ingresso della biblioteca nel mondo dei contenuti impone l’assunzione della proprietà intellettuale come campo prioritario di posizionamento e di azione. La difesa del diritto d’autore, soprattutto nella sua calpestata fattispecie di diritto morale, deve andare di pari passo con un altro cambio di paradigma: quello costituito dall’avvento dell’open access, che da un lato prosegue e completa il rovesciamento del paradigma della segretezza (rovesciamento che ha segnato la nascita della scienza moderna), dall’altro introduce il principio di apertura come cardine intorno a cui riorganizzare i processi creativi e conoscitivi, la stessa nozione di autoria, e le modalità di produzione, distribuzione e condivisione delle opere. Si va quindi molto oltre la creazione di una sfera di “pubblico dominio”, verso la costruzione di quelli che Peter Suber ha definito intellectual common.
  7. Legata alla produzione di contenuti è anche la rinnovata centralità di alcuni servizi bibliotecari. Forse la parola centralità è sbagliata, perché la biblioteca è ormai totalmente policentrica e polimorfa; ma tale trasformazione è avvenuta proprio grazie ad alcuni servizi, o aree concettuali prima ancora che professionali, che hanno innervato profondamente tutti gli altri e le altre. Mi riferisco agli sviluppi e ai destini incrociati dei servizi di reference e di lettura, che oggi assicurano di fatto il coordinamento e la leggibilità stessa della biblioteca durante il cambio di paradigma. Il reference è passato dalla centralità ranganathiana (più declamata che agita, anche perché per moltissimi anni la maggioranza delle biblioteche di pubblica lettura è rimasta sostanzialmente priva di questo servizio) a uno stato di diffusione, o meglio di infusione, in tutti gli altri servizi bibliotecari, anche in assenza di sportelli dedicati. In due direzioni: l’utilizzo di forme spontanee e rudimentali di reference in ogni relazione con l’utenza (per esempio: l’intervista, le tecniche di ricerca, la consapevolezza e lo sfruttamento delle interconnessioni ecc.) e lo sviluppo di forme coordinate e cooperative di gestione del servizio, soprattutto online. La prossima tappa sarà probabilmente, anche in Italia, il passaggio e la convergenza tra i servizi di reference e quelli di assistenza e consiglio ai lettori (il readers’ advisory service, da tempo esistente nelle biblioteche anglosassoni). Tra l’altro, il servizio di reference risulta, da una recente inchiesta del Consiglio nazionale delle ricerche, quello che ha subito meno interruzioni durante il periodo di lockdown.
  8. Questo incontro sancisce anche l’avvenuta espansione dei servizi di lettura nelle biblioteche italiane, con un evidente riflesso anche sulle teorie biblioteconomiche. La lettura è passata da suppellettile accessoria a cellula di senso dei servizi bibliotecari, attraversando e lasciandosi alle spalle la stagione della promozione, come un piccolo inferno lastricato di buone intenzioni. Naturalmente esistono ancora i bibliotecari per i quali tutto ciò che avviene tra libro e lettore è cosa che non deve interessare il servizio, ma la loro esistenza è diventata un po’ folcloristica e residuale, meritevole addirittura di un’affettuosa nicchia celebrativa nel pantheon della professione, mentre la vita è altrove. Pulsa dove si esplorano nuovi confini: le mutazioni della lettura, i suoi vagabondaggi desideranti, le avventure del machine learning e delle reading machine (non è solo un chiasmo, è il quadrivio del futuro), le vicissitudini delle forme avanzate di simbiosi tra lettori e servizi bibliotecari, il pullulare delle interfacce ove il testo si innesta nel corpo di un lettore fantasma.
  9. È probabile che il prossimo cambio di paradigma sia quindi interno a questo nuovo paradigma, sia il prodotto della sua partenogenesi critica: la “politica della lettura” potrebbe affermarsi come il nuovo, decisivo terreno su cui è possibile “pensare la lettura più in grande”, come ci ha invitato a fare Carlo Sini. Per farlo bisogna lasciarsi alle spalle l’abitudine a pensare che la politica della lettura sia una questione interna alla “filiera” del libro, una faccenda di scontistica, di guerriglia parlamentare, di commi da inserire in una legislazione peraltro già abbondante e contraddittoria. La politica della lettura è innanzitutto una faccenda teorica (scusate se è poco), come ci insegnano le elaborazioni femministe americane sul gender reading. È ricerca e prassi di un soggetto e la volontà di ascoltarlo e dargli voce. È l’arte di navigare nella galassia di emozioni, sentimenti, passioni che animano e squassano la lettura. Tra bisogni, piaceri e desideri. Nel fondamentale rapporto con la dimensione della quotidianità[19]. Attraverso la politica, questa politica, la lettura torna ad essere un ingrediente della vita quotidiana, sia attraverso l’impegno che la fuga. O le biblioteche sapranno intercettare la politica della lettura anche come educazione sentimentale, o essa resterà il piccolo cabotaggio che abbiamo visto sin qui e le biblioteche ne saranno una cassa di risonanza.
  10. Mi sembra giusto chiudere questa carrellata di paradigmi con quello che forse li riassume e li rilancia tutti e che è anche un tributo e un debito verso la fase dell’epidemia che stiamo attraversando e verso quella di resistenza, con-vivenza e resilienza che ci attende. Detto in estrema sintesi, si tratta di spingere la dimensione ambientale del servizio al salto (un vero salto di specie) dal paradigma della sostenibilità, a quello dell’ecologia profonda. Le due prospettive hanno evidenti elementi di continuità, ma senza la spinta del cambiamento radicale si rischia di fermarsi a una operazione di greenwashing. La sostenibilità, categoria di origine economica, attraverso il suo legame con quella di sviluppo, sottolinea l’importanza dei requisiti di durata, di stabilità, di equilibrio e di compatibilità con le generazioni future. L’ecologia vi aggiunge la coscienza del legame tra organismo e ambiente, della complessità del vivente, del delicato rapporto tra natura e cultura. Le tre dimensioni che Waldemaro Morgese ha posto alla base dell’ecobiblioteca (ecologica per le soluzioni architettoniche, per la specializzazione tematica delle collezioni, per le attività svolte) vanno integrate e “aumentate” con quelle derivanti dall’ecologia testuale e culturale. Così come la biblioteca tende a diventare carbon free nelle sue politiche energetiche, allo stesso modo essa deve ispirare le sue politiche culturali all’ecologia della mente. Di qui l’apertura a pratiche ancora inedite per le biblioteche: il bilancio di impatto (o l’“impronta”) testuale; la lotta contro l’overload informativo, la sovrapproduzione libraria, l’obsolescenza programmata; la scelta del long-seller contro il best seller, la trasparenza, diversificazione e rinnovabilità delle fonti, il riuso testuale (per esempio dei classici), la difesa della bibliodiversità e della biblioteca come sistema “enantiomorfo”, ossia fondato sulla convivenza e sulla integrazione dei contrari, ecc. Dunque una pars destruens (con Franco Fortini: «la disinfestazione e la riduzione della biblioteca immaginaria e intimidatoria che ronza tra una parola e l’altra, detta o stampata dai media») e una costruens (la biblioteca come la “struttura che connette” e tiene insieme il granchio e l’aragosta, l’orchidea e la primula).

Si potrebbe proseguire a lungo, perché quest’elenco è puramente indicativo. Quando lo slittamento di un paradigma ne mette in movimento molti altri, si verifica quella situazione di apertura radicale che rende possibile ciò che fino a poco prima era apparso impensabile. Comprese la catastrofe e la barbarie. Nell’esergo della Grammatologia, Derrida è andato al punto: il mondo, come il libro, è sempre “irriducibilmente a venire”, ed è questo che lo mette in uno stato di “assoluto pericolo”. Infatti: «per questo mondo a venire e per ciò che in lui avrà fatto tremare i valori di segno, di parola e di scrittura, per quello che conduce qui il nostro futuro anteriore, non c’è ancora nessun esergo».

Ciò che non ha ancora un esergo potrà avere un post-ergo, questa è la speranza: sarà quindi la scia dei cambiamenti futuri a retroagire fantasticamente sul presente. Ecco la dimensione del retrofuturismo che torna, o, se preferite, quella dei viaggi nel tempo e dei mondi di sostituzione che sperimentiamo quotidianamente, quando la dimensione del “libro a venire” irrompe nel presente. Keynes, dal punto di vista dell’economista, e con le migliori intenzioni, ebbe un giorno a liquidare la questione, dicendo che tanto nel lungo periodo saremo tutti morti. Ma c’è qualcuno che può negare che la scoperta di decine di pianeti “superabitabili”, a solo cento anni luce da noi, cambi, qui e ora, il modo in cui alziamo gli occhi al cielo?