N.1 2020 - La produzione di contenuti in biblioteca

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Cultura è cura: la biblioteca biomedica come soggetto attivo nei percorsi di cura del XXI secolo

Antonio Maconi

amaconi@ospedale.al.it

Mariasilvia Como

mariasilvia.como@gmail.com

Mariateresa Dacquino

mdacquino@ospedale.al.it

Federica Viazzi

federica.viazzi@esterni.ospedale.al.it Infrastruttura ricerca formazione innovazione (IRFI), Azienda ospedaliera SS. Antonio e Biagio e Cesare Arrigo, Alessandria

Per tutti i siti web l’ultima consultazione è stata effettuata il 4 maggio 2020.

Abstract

Le biblioteche biomediche e i loro professionisti hanno vissuto, nel giro di pochi anni, trasformazioni forse più profonde rispetto a quelle che hanno coinvolto gli altri istituti culturali.

L’articolo riflette sul ruolo dei bibliotecari biomedici nell’era della disintermediazione e sul loro valore aggiunto nei contesti sanitari. Analizzando i temi della health literacy e delle medical humanities, se ne evidenzia l’importanza durante tutto il processo terapeutico e il ruolo svolto dalla biblioteca a supporto dei professionisti sanitari su entrambi i fronti. A tal proposito, l’Azienda ospedaliera SS. Antonio e Biagio e Cesare Arrigo di Alessandria costituisce un caso di studio significativo in relazione al processo di trasformazione in ospedale health literate e ai progetti dedicati alle medical humanities.

English abstract

Within a few years, profound transformations have involved biomedical libraries and their librarians more than other cultural institutes.

The article aims to reflect on the role of biomedical librarians in the era of disintermediation, investigating the added value of their presence in healthcare context. We analyse and discuss also the two topics of “health literacy” and “medical humanities” and their importance throughout the therapeutic process. The SS. Antonio e Biagio e Cesare Arrigo hospital at Alessandria is considered as a case study about the process of transformation into a “health literate hospital” and as institution active in medical humanities projects.

Le biblioteche biomediche hanno vissuto, nel giro di pochi anni, una trasformazione forse ancora più profonda rispetto a quella che ha coinvolto gli altri istituti culturali e i professionisti dell’informazione che vi lavorano. Si pensi, tra i tanti esempi possibili, alla quasi completa dematerializzazione dell’accesso alle risorse, con le sottoscrizioni di riviste cartacee che sono state quasi completamente abbandonate, fatte salve alcune eccezioni, a favore dell’accesso alle banche dati online. Questa dematerializzazione non sempre procede parallelamente all’alfabetizzazione informatica e a competenze di information literacy. In tutto questo, gli ospedali, sempre più robotizzati, continuano a essere carichi di significati simbolici negativi, rischiando inoltre di perdere quella carica di umanità che fa del rapporto medico-paziente il fulcro del percorso terapeutico.

Bibliotecari biomedici, diversi eppure uguali

Fatti amico un bibliotecario.

Dean Giustini

Il dibattito sul ruolo delle biblioteche e dei bibliotecari nella cosiddetta società della disintermediazione è ricco e oggetto di numerose pubblicazioni ma se anche la nostra professione, come tutte le altre, rispettasse la regola “adattati o muori”, cosa farebbero i bibliotecari del XXI secolo? La risposta è semplice: prima di tutto «fanno quello che hanno sempre fatto», cioè soddisfare le esigenze informative dei loro utenti, il più velocemente possibile e nel formato che trovano più utile.

Alla base della continuità di servizi offerti agli utenti però c’è un profondo cambio di prospettiva. Infatti, se per comprendere e soddisfare i bisogni dei lettori sino a qualche tempo fa si è potuto far riferimento al paradigma che la scienza dell’informazione definisce un «modello incentrato sul sistema», oggi ci troviamo a lavorare con un «modello centrato sull’utente».

Quando parliamo di un modello incentrato sul sistema ci riferiamo a un modello concettuale che prevede che l’informazione e il medium col quale veicolarla siano individuati dal fornitore – in questo caso il bibliotecario – e che l’informazione sortisca gli stessi risultati per tutti i lettori: auspicabilmente, la soddisfazione del bisogno informativo. Va da sé che questo modello incardinato non sia più applicabile alla quotidianità contemporanea.

Il modello centrato sull’utente, come descrive la parola stessa, vede invece protagonista l’utente, affiancato da un bibliotecario reflective – capace di ripensare alle proprie azioni, metodi e prassi di lavoro e analizzarli in maniera obiettiva, critica e costruttiva, in modo da impegnarsi in un processo di apprendimento continuo – un bibliotecario che contestualizza e interpreta i bisogni informativi dell’utente, offrendo poi una risposta “personalizzata”, la più adatta possibile all’esigenza del lettore, sia come contenuti sia come supporti. Per fare un esempio concreto e calato nella nostra quotidianità. Il risultato della stessa ricerca sui dispositivi di protezione per limitare il rischio di contagio da coronavirus sarà diverso a seconda del destinatario: se è un infermiere, che dispone di un certo tipo di competenze iniziali ma può accedere alla risorsa solo da uno smartphone perché si trova in corsia; se è una persona anziana, per la quale, per esempio, occorre ipotizzare la presenza di presbiopia; se è il preside di un istituto scolastico, che dovrà caricare il documento sul sito web della scuola o su una piattaforma social.

Il ruolo del bibliotecario, in un contesto di lavoro così sartoriale, si è trasformato quindi da “fornitore” di contenuti a “mediatore” degli stessi, senza ovviamente mai perdere di vista l’obiettivo primario, che per chi opera in un contesto sanitario è quello di recuperare informazioni per il costante miglioramento della qualità dell’attività clinica. La sinergia tra il personale e i bibliotecari, o il bibliotecario, della struttura è un meccanismo che si olia con l’esperienza, perché il bibliotecario e l’utente si completano reciprocamente: al medico o all’infermiere, infatti, spetta il compito di sostenere le ricerche dei bibliotecari con un vocabolario tecnico che si arricchisce e aggiorna costantemente. Una sinergia che con il tempo crea un circolo virtuoso che ricade positivamente sui veri e unici utenti finali della filiera: i pazienti, ovvero i cittadini. La letteratura conforta queste affermazioni: una revisione sistematica del 2014 conferma come la presenza di servizi bibliotecari porti effetti positivi su cure mediche, assistenza sanitaria e ricerca clinica; oppure in uno studio del 2011 dell’University of Calgary (Canada), si può leggere che:

The clinical librarian intervention had a significant positive effect on medical trainees’ self-reported ability to independently locate and evaluate evidence resources to support patient care decisions. Notably, 30 of 34 (88%) reported having changed a treatment plan based on skills taught by the clinical librarian, and 27 of 34 (79%) changed a treatment plan based on the librarian’s mediated search support.

Clinical librarians on the care team led to positive effects on self-reported provider attitudes, provider information retrieval tendencies, and, notably, clinical decision making. Future research should evaluate economic effects of widespread implementation of on-site clinical librarians.

Un altro ruolo importante che vede protagonista il bibliotecario biomedico è quello del formatore: abbiamo già sottolineato l’utilità della presenza in organico di un professionista dell’informazione in ambito ospedaliero/biomedico, ma lo svolgimento delle attività quotidiane e di ricerca non sarebbero sostenibili se il personale si affidasse esclusivamente ai servizi offerti dalla biblioteca (soprattutto in Italia dove le strutture sanitarie dotate di una biblioteca sono una minima parte): è quindi di vitale importanza che il personale sia formato almeno alla ricerca sulle banche dati. Anche se tutti i principali editori mettono a disposizione dei clienti alcuni tutorial che illustrano le funzionalità dei loro prodotti, spesso questi non sono sufficienti a soddisfare le esigenze informative degli utenti. Al tutorial è importante affiancare uno o più momenti di confronto frontale tra professionisti. Il bibliotecario, infatti, conosce per esperienza, ad esempio, quali possono essere gli ostacoli nella consultazione di una banca dati o le strategie di ricerca più efficaci. Un’altra componente da non dimenticare è il fattore umano: non è necessario esplicitare ulteriormente quanta differenza ci sia tra il visualizzare un video o delle slide e l’interazione con una persona alla quale esprime dubbi, perplessità od obiezioni.

Il ruolo del formatore però non si esaurisce con l’affiancamento all’uso delle banche dati. Una volta reperite, infatti, le informazioni vanno selezionate sulla base di competenze di information literacy che non si improvvisano. Donna Gibson, direttore dei servizi bibliotecari alla Nathan Cummings Library del Memorial Sloan Kettering Cancer Center, sottolinea quanto sia importante formare preliminarmente le persone nell’utilizzare gli strumenti giusti, non solo per riuscire a trovare le informazioni ma anche per riuscire a selezionarle, soprattutto quando, un giorno, gli algoritmi diventeranno così sofisticati da rendere superfluo istruire le persone su come si sviluppa una stringa di ricerca; insegnare l’information literacy sarà sempre più importante, data la crescita esponenziale del numero delle informazioni alle quali abbiamo accesso. Mai come oggi ha più valore insegnare a una persona a riconoscere i funghi velenosi, piuttosto che regalarle tutti i giorni un cestino di porcini.

La componente della nostra professione legata alla formazione, però, non si limita all’information literacy e all’uso corretto delle banche dati: le evidenze e la letteratura stanno dimostrando che la presenza di un professionista dell’informazione porta del valore aggiunto anche in ambiti non prettamente ospedalieri, come quello accademico, in progetti di engagement dei cittadini o di health literacy, della quale parleremo tra poco. Parlando di “coinvolgimento ed educazione”, vale la pena rammentare l’organizzazione di un hackathon che ha avuto come protagonisti i cittadini di aree rurali intorno a Washington e la Washington State University e come obiettivo la diffusione di buone pratiche legate alla salute. Per ottimizzare i risultati della competizione e rendere i cittadini più consapevoli e critici nei confronti dell’informazione medica, i professionisti delle varie aree disciplinari (economia, igiene e salute), di concerto con i bibliotecari, hanno allestito una research station per i partecipanti, mettendo loro a disposizione strumenti di ricerca e competenze.

I bibliotecari garantiscono dunque rigore scientifico nel processo di reperimento delle informazioni e, successivamente, nella gestione delle citazioni (e dei dati) che emergono dalle ricerche; contribuiscono inoltre alla formazione di professionisti, studenti e cittadini, contaminandosi con le scienze sociali e mutuando competenze fino a poco tempo fa ritenute distanti dalla professione.

Un’ultima importante attività nella quale la nostra professione ricopre – o dovrebbe ricoprire – un ruolo da protagonista è quella della produzione di contenuti scientifici. A tal proposito ci limitiamo a indicare quelli che, a nostro avviso, sono gli ambiti nei quali i bibliotecari potrebbero fornire un valore aggiunto: scelta della sede di pubblicazione (bibliometria, classificazione di riviste ecc.); “manutenzione” del profilo scientifico degli autori (aggiornamenti ORCID, Wikidata ecc.); eventuale scelta di un modello di pubblicazione open access; stesura dell’articolo (editing, normalizzazione della bibliografia ecc.); monitoraggio successivo alla pubblicazione (andamento delle citazioni, raffronto con articoli della stessa area disciplinare ecc.); contributo alla stesura di revisioni sistematiche e metanalisi.

Prima di esaminare il contributo delle biblioteche biomediche nel campo dell’health literacy, è necessario chiedersi quali saranno le competenze necessarie ai bibliotecari del XXI secolo. La risposta corretta sarebbe “tutte”. Jean-Paul de Gua de Malves e i colleghi enciclopedici sarebbero orgogliosi di una categoria così eclettica ma, visto che siamo bibliotecari e come tali abbiamo la necessità fisiologica di classificare e suddividere, riportiamo di seguito le categorie di competenze individuate dalla Medical Library Association (MLA) per il professionista delle informazioni sanitarie: 

  • information service: individua, valuta, sintetizza e fornisce informazioni autorevoli in risposta a indagini biomediche e sanitarie;
  • information management: cura e rende accessibili dati, informazioni e conoscenze sulla bioscienza, sulle informazioni cliniche e sulla salute;
  • instruction & instructional design: forma gli altri professionisti nelle competenze di bioscienza, alfabetizzazione clinica e informativa sanitaria;
  • leadership & management: gestisce personale, tempo, budget, strutture e tecnologia, definisce obiettivi e ne monitora il raggiungimento;
  • evidence-based practice & research: valuta studi di ricerca, utilizza la ricerca per migliorare la pratica, conduce ricerche e comunica i risultati della ricerca;
  • health information professionalism: promuove lo sviluppo delle professioni dell’informazione sanitaria e collabora con altri professionisti per migliorare l’assistenza sanitaria e l’accesso alle informazioni sanitarie.

La biblioteca e la health literacy

Good information is the best medicine.

Donald A.B. Lindberg 

Con il termine health literacy si intende il livello di capacità degli individui di ottenere, elaborare e comprendere le informazioni basilari sulla salute, nonché rendere disponibili i servizi necessari per poter accedere correttamente alle prestazioni sanitarie e promuovere un salutare stile di vita tra la popolazione.

Il concetto è stato elaborato a partire dagli anni Settanta del Novecento da Scott K. Simonds e nel 1998 l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha inserito il termine nel Glossario di promozione della salute.

L’idea di health literacy, però, muta e si sviluppa in relazione diretta con i cambiamenti del tessuto sociale di riferimento; l’applicazione del concetto, infatti, varia a seconda della nazione, del contesto (sanità pubblica o privata), del livello di coordinamento delle azioni (siano esse di ambito governativo o frutto dell’iniziativa di associazioni private), della composizione della popolazione, del livello di alfabetizzazione informatica (digital health literacy) ecc. È chiaro, quindi, come si debba parlare di health literacy senza poter prescindere dal pubblico di riferimento.

Una società – sia essa un’intera nazione, una città, un quartiere – con uno scarso livello di health literacy presenta un triplice ordine di problemi.

Il primo è quello di carattere più astratto ed etico: nel documento programmatico del 2016 emanato dall’OMS, infatti, si legge che è necessario «leaving no one behind», che nessuno rimanga indietro, ossia la pari dignità che ciascuna persona – indipendentemente dalle sue pregresse condizioni sociali, culturali, economiche – deve poter avere sulla base dell’effettivo bisogno di salute e non su quanto sia in grado di esprimerlo. Il primo problema, quindi, possiamo affermare coinvolga e metta in discussione il concetto stesso di società civile.

Il secondo e il terzo ordine di problemi che si pongono, invece, sono legati alla salute delle persone e alla gestione del sistema sanitario. Negli ultimi dieci anni sono almeno tre le revisioni sistematiche Cochrane che sottolineano l’importanza della qualità dell’informazione e dell’alfabetizzazione dei cittadini: una persona poco informata o con una scarsa health literacy, quindi non perfettamente in grado di comprendere le indicazioni che le vengono fornite, si cura peggio, si ammala di più e grava economicamente sul sistema sanitario (nel caso dell’Italia) con esami superflui o errati, spreco di farmaci ecc. Per questo motivo una limitata health literacy è considerata un “fattore di rischio”, di scarsa salute e di poca aderenza alle indicazioni fornite dagli operatori sanitari.

Un problema di «garanzia di cittadinanza» quindi, ma anche di costi: «una bassa health literacy tra la popolazione in un contesto di alta prevalenza di malattie croniche e di multimorbosità produce danni non solo alla salute, ma anche all’economia».

Nel 2000 Don Nutbeam propose un modello a tre stadi per classificare i livelli di alfabetizzazione dei cittadini. Il modello definisce, in maniera progressiva, l’autonomia e la consapevolezza che i singoli – e la comunità, di conseguenza – sviluppano per poter prendere decisioni riguardanti la loro salute e incrementare l’empowerment personale: il primo livello è definito functional health literacy, e si riferisce alla capacità di leggere e comprendere informazioni legate alla vita quotidiana, fornite da medici, farmacisti o altri operatori della salute e di agire di conseguenza.

Il secondo livello è quello dell’interactive health literacy e riguarda la capacità di «comprendere, valutare e utilizzare informazioni derivanti da fonti diverse, per scegliere in modo consapevole, riducendo i rischi e migliorando la qualità di vita. A questo livello l’individuo è in grado di confrontarsi col medico, estrarre informazioni e rielaborarle per poterle eventualmente condividere con i pari».

Il terzo e più avanzato livello è definito come critical health literacy e prevede il possesso di abilità cognitive unite ad abilità sociali da applicare per analizzare criticamente le informazioni ricevute o reperite e poter, di conseguenza, esercitare un maggior controllo sulle situazioni e sulla vita.

Un cittadino dotato di un livello di critical health literacy è capace di «muoversi all’interno del sistema sanitario essendo a conoscenza dei propri diritti di paziente; di riconoscere la qualità dei servizi offerti; valutare in modo critico le informazioni ed i messaggi di salute; di agire per il miglioramento del benessere individuale e collettivo prendendo parte in modo attivo al sistema sociale e politico».

Vari livelli di health literacy che si innestano su competenze pregresse di cittadini consapevoli dei loro diritti alla salute e che esprimono le proprie opinioni in modo consapevole e critico. Cittadini che possono trasformarsi in pazienti, pazienti in grado di orientarsi nel sistema sanitario, confrontarsi attivamente ed essere collaborativi con i professionisti della sanità. Cittadini e pazienti che sono consumatori, in grado di prendere decisioni sulla propria salute scegliendo in modo critico prodotti e servizi nonché in grado, se necessario, di far valere i propri diritti.

Mentre si sta concludendo il progetto Health literacy population based survey-Hls19, lo studio trasversale che l’Istituto superiore di sanità ha avviato nel 2019 sulla popolazione italiana adulta per raccogliere dati affidabili e confrontabili sul livello di health literacy dei vari stati membri, uno studio dell’organizzazione Cittadinanza attiva del 2017 ci dice che solo il 54,61% dei medici si accerta sempre che il paziente abbia compreso tutto (il 55% dei medici si accerta con domande che il paziente abbia compreso tutto, il 54% lascia suggerimenti scritti oltre alla prescrizione e il 57% consente che un familiare partecipi alla visita)

La biblioteca e le medical humanities

The good physician treats the disease; the great physician treats the patient who has the disease.

William Osler

Secondo l’OMS la medicina moderna non ha solo il compito di curare la malattia, ma anche quello di conservare la salute, intesa come «stato dinamico di completo benessere fisico, mentale, sociale e spirituale, non mera assenza di malattia». In questo contesto, che possiamo definire “olistico”, si collocano le medical humanities: l’unione di scienze naturali e di scienze umane che lavorano in sinergia per guadagnare e mantenere quello stato di benessere fisico, mentale, sociale e spirituale del quale parla l’OMS, recuperando quel che si è perso nella seconda metà del XX secolo con l’avvento della tecnologia, quando il modello di cura si stava allontanando da una “medicina per l’uomo” per avvicinarsi pericolosamente a quello meccanicistico della riparazione di un danno.

Medicina fatta dall’uomo e per l’uomo, non solo nella sua fisicità ma nella sua complessità, riconducendo nel concetto di health l’assenza o la gestione di ciò che il mondo anglofono definisce disease, illness e sickness.

Assenza o gestione come ha sottolineato Alfredo Zuppiroli, cardiologo e collaboratore dell’Agenzia regionale di sanità della Toscana, al 2. Congresso nazionale della Società italiana di medicina narrativa (Simen), nell’ambito delle patologie croniche:

appare inadeguata anche la definizione proposta ormai settant’anni fa dall’Organizzazione Mondiale della Sanità: quello stato di completo benessere fisico, psichico e sociale appare oggi sempre più come una bella visione utopica. [...] Ricordiamoci invece delle parole di Ivan Illich, la salute è un compito: si è in salute se si è capaci di adattarci ai nostri limiti. [... si deve quindi ...] abbandonare l’idea statica di salute come una condizione di completo benessere fisico, psichico e sociale ed adottare prospettive nuove, più realistiche e sostenibili, basate sulla promozione e sul sostegno delle capacità delle persone di mantenere e/o ripristinare la propria integrità, il proprio equilibrio e senso di benessere, di affrontare e gestire le malattie.

Medical humanities che trasformano, o riconducono, la medicina a somma di molti saperi, complementari tra loro, che lavorano per raggiungere l’obiettivo di semplificare il dialogo tra medici e pazienti, a livello più profondo rispetto a quello del quale si è parlato nel paragrafo dedicato all’health literacy: con le medical humanities si vanno a toccare corde più irrazionali, legate alla comprensione empatica di sé, dell’altro e del processo terapeutico.

È necessario approcciare le medical humanities non solo in corsia, ma già nei percorsi accademici, come spiega il direttore dell’Istituto di bioetica e medical humanities dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, Antonio G. Spagnolo:

devono diventare sempre più un percorso fondamentale dei curricula formativi dei futuri professionisti in area sanitaria, in virtù del loro contributo essenziale per una compiuta analisi dei reali bisogni dei pazienti e dei loro familiari, per la promozione di percorsi assistenziali rispettosi della dignità umana, per il miglioramento della relazione empatica tra la persona bisognosa di cure e i professionisti clinici.

Medical humanities, quindi, per un approccio terapeutico omnicomprensivo che costruisca una relazione empatica tra il paziente e un medico consapevole del fattore umano: un medico che, nella valutazione di una cura, saprà riconoscere il giusto equilibrio tra personal skill e medical skill, in modo che il paziente non debba sentirsi mai trascurato o addirittura maltrattato.

Una terapia multidisciplinare che sta alla base della evidence-based medicine nell’idea originaria di David Lawrence Sackett, dove per medicina intendiamo «un approccio alla pratica clinica dove le decisioni cliniche risultano dall’integrazione tra l’esperienza del medico e l’utilizzo coscienzioso, esplicito e giudizioso delle migliori evidenze scientifiche disponibili, mediate dalle preferenze del paziente».

Finora abbiamo scritto dell’importanza della presenza delle medical humanities nei percorsi di cura, ma per stimolare il dibattito è fondamentale segnalare che non mancano i detrattori, soprattutto nel mondo anglosassone.

Un recente studio di D. Shalev, volto a dimostrare quali cambiamenti avvengano nel nostro cervello quando si intraprendono percorsi multidisciplinari, testimonia come, tra le principali obiezioni mosse a chi sostiene l’efficacia dell’applicazione delle medical humanities, vi sia la carenza di “dati oggettivi”, cui fanno da contraltare gli oggettivi benefici che le medical humanities portano in tutta la struttura di scienze biomediche, che «non hanno risultati misurabili» e non posseggano ancora «operatività standardizzate e oggettive», quest’ultima osservazione in palese contraddizione con la natura stessa delle medical humanities.

Proprio lo stesso testo dimostra, grazie a dei tracciati neurologici – quindi dati oggettivi – che l’empatia si possa insegnare, che abbia un suo preciso tracciato neuronale e sottolinea come attività tipiche della cultura umanistica – come ad esempio la lettura di romanzi e il successivo dialogo di gruppo – possano aiutare ad accrescere l’empatia, o scambiarsi le reciproche esperienze aiuti a immedesimarsi nell’altro.

Raccontare le proprie esperienze o scriverle. È il momento di introdurre il concetto di “medicina narrativa”, che altro non è che uno dei modi per dare voce alla sofferenza, sviluppando la capacità di riconoscere, assorbire (ma senza interiorizzare) e interpretare il proprio dolore, per poi andare ad agire (anche per esorcizzare) sulle storie e i problemi, propri e degli altri. Scrittura come valvola di sfogo per esperienze traumatiche, come sarà, ad esempio, la pandemia di Covid-19 quando ne saremo finalmente usciti.

Fare medicina narrativa non significa raccogliere le storie dei pazienti. Questa esperienza deve far nascere un’esigenza comune del medico – che ascolta empaticamente – e del paziente di stabilire una vera relazione fra due persone, per poter «costruire, attraverso la “relazione narrativa”, un progetto diagnostico-terapeutico sempre più personalizzato», rendendo il paziente un soggetto attivo nel suo percorso di cura, insieme al proprio nucleo familiare, consolidando infine l’alleanza terapeutica.

La medicina narrativa, o meglio le medical humanities, sono (anche) «commitment to understanding patients’ lives, caring for the caregivers, and giving voice to the suffering». La narrazione è qualcosa di cui abbiamo bisogno per dare senso alla nostra esperienza di vita. Essa può avere varie manifestazioni: il teatro, ad esempio, migliora le capacità di autorappresentazione; l’arte e la fotografia aumentano la capacità di osservazione; la storia sottolinea l’importanza di saper contestualizzare e delle relazioni interpersonali.

Anima e corpo comunicano in armonia: il progetto di health literacy e il Centro studi spedalità cura e comunità per le medical humanities dell’Ospedale di Alessandria

L’Azienda ospedaliera SS. Antonio e Biagio e Cesare Arrigo ha una storia lunga e profondamente legata alle vicissitudini cittadine. Le date fondamentali da ricordare sono quattro: il 1493 è l’anno nel quale per la prima volta viene citato in un documento l’Ospedale di Sant’Antonio e nel 1579 entra ufficialmente in funzione lo “Spedale grande” dei Santi Antonio e Biagio, il 1790 è l’anno nel quale nasce l’Ospedale dei Santi Antonio e Biagio come lo conosciamo ora. L’ultima data importante è il 1885, anno che vede nascere ad Alessandria una delle prime strutture ospedaliere destinate all’infanzia. Attualmente l’ospedale occupa una posizione di rilievo nel panorama sanitario regionale e nazionale, grazie a «competenze di alta specializzazione nei campi delle emergenze, ivi comprese quelle pediatriche, della cardiochirurgia, della neurochirurgia, nefro-urologia, anche pediatrica, della neuro riabilitazione, dell’oncoematologia, della pneumologia oncologica, della radioterapia oncologica, delle malattie vascolari, della chirurgia e ginecologia oncologica».

In un contesto con solide basi storiche e animato dalla costante tensione al miglioramento, anche in virtù della candidatura a primo istituto di ricovero e cura a carattere scientifico (Irccs) pubblico del Piemonte, non poteva non esserci attenzione nei confronti di temi attuali quali l’alfabetizzazione sanitaria dei cittadini e le medical humanities.

L’azienda ospedaliera, infatti, ha adottato un modello di comunicazione e divulgazione del sapere scientifico che possiamo definire di “comunicazione per la documentazione”. L’Ufficio stampa e comunicazione e la Biblioteca si trovano negli stessi locali e la coabitazione ha creato una condivisione di saperi e una fruttuosa, reciproca, contaminazione di buone pratiche. La pubblicazione di un documento, dall’opuscolo all’articolo scientifico, e la sua comunicazione procedono infatti in contemporanea, così da ottenere il triplice risultato di valizzare il lavoro dei professionisti, renderlo accesibile al pubblico e, contemporaneamente, creare engagement, coinvolgere i cittadini rendendoli partecipi della vita del loro presidio di cura; è inoltre importante ricordare che senza il supporto dell’Ufficio stampa e comunicazione la Biblioteca rischierebbe di non vedere valorizzato a pieno il suo ruolo di divulgatore di buona informazione scientifica.

Dopo la doverosa premessa legata alla presentazione dell’istituzione e al modus operandi di chi vi lavora, per illustrare il progetto legato all’health literacy è necessario fare un passo indietro e ricordare che un’organizzazione sanitaria si può definire health-literate se:

  • assicura un facile accesso alle informazioni e ai servizi sanitari e fornisce supporto alla “navigazione” all’interno della propria struttura; progetta e utilizza immagini, video, contenuti multimediali facili da comprendere ed utilizzare;
  • utilizza l’health literacy nelle situazioni ad alto rischio (come trasferimenti interni o dimissioni ospedaliere verso residenze sanitarie a minor complessità o verso il domicilio, trasferimenti ad altri istituti, comunicazioni e informazioni sull’utilizzo di farmaci);
  • comunica chiaramente che cosa viene offerto dal servizio sanitario e quali sono invece i costi a carico del cittadino.

Nell’ottica di un miglioramento dei servizi e della qualità delle cure, è nato il progetto volto ad aumentare il livello di alfabetizzazione dei pazienti, a partire dagli strumenti informativi utilizzati dall’azienda, rivolgendo una particolare attenzione verso gli strumenti di comunicazione digitale, all’uso che viene fatto delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione a sostegno dei diversi settori inerenti la salute: l’assistenza sanitaria, l’educazione alla salute, la sensibilizzazione e la ricerca.

Il concetto di patient education su cui si fonda il progetto è inteso come “educazione terapeutica”, dove gli operatori e i pazienti instaurano un dialogo, si confrontano e accrescono le reciproche competenze. Uno dei punti di forza del progetto, infatti, è che non solo i pazienti, ma anche gli operatori migliorano le proprie competenze, gli uni aumentando il loro livello di alfabetizzazione sanitaria, gli altri accrescendo il livello di capacità comunicativa e competenze relazionali.

Se gli operatori sanitari possono e devono istruire i pazienti su come utilizzare al meglio i presidi di cura, dando consigli o spiegazioni, i pazienti possono aiutare i sanitari a migliorare il loro modo di fare medicina, insegnando loro a parlare (o a migliorare) la lingua dei pazienti con il fine ultimo di trovare punti di incontro utili alla costruzione di un’effettiva alleanza terapeutica.

Per elaborare e sviluppare questo progetto è stato necessario prima di tutto valutare la qualità del materiale informativo, in particolare del materiale scritto (pieghevoli, brochure, cartellonistica, sezioni del sito web) utilizzato dai professionisti dell’azienda per fornire informazioni sulla salute ai pazienti e/o cittadini.

In questa fase di valutazione del materiale prodotto è stato necessario costituire un gruppo di lavoro multidisciplinare che ha visto coinvolte numerose figure professionali aziendali e non: medici, giornalisti, esperti di comunicazione, bibliotecari, psicologi, volontari, pazienti, familiari, farmacisti, biologi. La valutazione riguardava tre ambiti: gli aspetti formali, lo stile comunicativo, l’aspetto contenutistico.

Il ruolo giocato dallo staff in organico alla biblioteca ha riguardato il reperimento di bibliografia aggiornata e linee guida, cui hanno fatto seguito l’analisi dei testi e dei contenuti secondo l’Indice di leggibilità Gulpease.

Un gruppo di lavoro composto da professionisti sanitari, esperti di comunicazione e di comunicazione visiva ha poi cominciato a realizzare del materiale informativo nuovo, creando codici visivi per identificare questi nuovi materiali all’interno delle strutture, preparando brochure e questionari multilingue per minimizzare le barriere linguistiche, redigendo materiali pensati per particolari categorie quali, per esempio, gli ipovedenti. Si sta inoltre riorganizzando il sito web istituzionale.

Da questo progetto l’azienda si aspetta che anche i professionisti, soggetti attivi nella redazione di testi scientificamente affidabili ma comprensibili, acquisiscano maggiore consapevolezza sulle dimensioni del corpus di documenti informativi disponibili per pazienti e cittadini, nonché una maggiore coscienza della reale qualità, della leggibilità e della comprensibilità dei documenti, ottenendo così, in prospettiva, il costante miglioramento della qualità dei documenti prodotti.

Una migliore comunicazione da parte del personale sanitario e dell’azienda ospedaliera si rifletterà sulla cittadinanza creando pazienti sempre più consapevoli, coscienti e informati, generando sul lungo periodo un circuito virtuoso di conoscenza che ci si augura constribuisca a colmare il gap delle disuguaglianze in salute, a migliorare l’impatto sulla popolazione delle azioni di prevenzione e ad agevolare l’accesso alle cure.

L’altro tema sul quale l’azienda ospedaliera sta investendo sono le medical humanities: a maggio del 2019 l’azienda ha formalizzato l’istituzione del project group multidisciplinare per la costituzione del Centro studi spedalità cura e comunità per le medical humanities.

Già nel 2016, il reparto di Neurologia vedeva nascere una “stanza della scrittura” voluta dal clinico responsabile, Luigi Ruiz, e dalla sua assistente, Delfina Ferrandi, come un luogo riflessivo e personale che veniva offerto al paziente per elaborare i propri vissuti, uno spazio dove fare emergere ciò che è stato interiorizzato ma magari non completamente elaborato.

Alla costituzione della stanza della scrittura hanno fatto seguito altre iniziative: sono state allestite mostre fotografiche dedicate all’iconografia della salute, ospitando in particolare il progetto fotografico Hospitalia, che documenta edifici ospedalieri storici tra Italia, Francia e Belgio. Sono state messe in atto strategie di valorizzazione del patrimonio artistico e storico aziendale, anche mediante l’organizzazione di convegni sulla storia dell’ospedale, lezioni di storia dell’arte e visite guidate ai patrimoni storici aziendali.

Alcuni progetti sono stati sviluppati in collaborazione con le istituzioni del territorio, come per esempio quello di promozione della lettura denominato Cultura è cura con la Biblioteca civica “Francesca Calvo” di Alessandria, che incoraggia la lettura ad alta voce ed effettua il prestito itinerante di libri nei reparti, o il progetto Chitarra in corsia che ha visto alcuni partecipanti al Concorso internazionale di chitarra classica “Michele Pittaluga” allietare le degenze dei pazienti dell’Ospedale infantile e del Centro riabilitativo polifunzionale “Teresio Borsalino”.

Un’attenzione particolare va rivolta, infine, al concorso letterario “Racconto la mia cura”, giunto alla terza edizione: dal 2019 il concorso si è trasformato da letterario a iconografico, accogliendo altre forme espressive, come la fotografia, il disegno, la pittura, oltre alla narrazione.

L’Infrastruttura ricerca formazione innovazione, all’interno della quale si colloca la Biblioteca e in capo alla quale stanno tutte le iniziative descritte, ha deciso di proporre il concorso di medicina narrativa allargando il raggio d’azione e aprendosi alle visual humanities.

Arte, fotografia e grafica tra i mezzi coi quali raccontare la propria esperienza ed esprimere la propria interiorità. Inoltre, le visual medical humanities possono introdurre e aiutare a sviluppare il concetto di “ambiguità”, inteso come molteplicità di interpretazioni, e provare così a vestire i panni del clinico, con tutti i suoi dubbi di essere umano, quando si trova a leggere una cartella durante lo svolgimento delle sue attività quotidiane. Si chiude così la ricerca di un dialogo e di empatia. Medico e paziente non sono altri che due esseri umani, consapevoli l’uno delle debolezze dell’altro, pronti a parlarsi e a capirsi.

Conclusioni

The practice of medicine is an art, not a trade; a calling, not a business; a calling in which your heart will be exercised equally with your head.

Mark E. Silverman

La biblioteca di un contesto ospedaliero, abbiamo visto, svolge un ruolo importante e sfaccettato. Il bibliotecario non è relegato al ruolo di distributore di libri, o di articoli, ma è parte integrante di un meccanismo oliato che pone al centro il paziente, il quale è prima di tutto persona e cittadino, e al quale medici, infermieri, tutto il personale sanitario e ovviamente i bibliotecari rispondono e per il cui benessere lavorano.

Bibliografia di approfondimento

ZOE ADAMS, Beyond sparking joy: a call for a critical medical humanities, «Academic medicine», 94 (2019), n. 10, p. 1404.

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