N.2 2018 - Collezioni e biblioteche nel XXI secolo

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Discussione: esiste ancora una politica degli acquisti?

Riccardo Marlin

Libreria internazionale U.P.I.E.; info@upie.it

Marco Locatelli

Sistema bibliotecario Area nord-ovest della Provincia di Bergamo; marco-locatelli@libero.it

Silvia Zanini

Istituzione sistema biblioteche di Roma; silvia.zanini@libero.it

Per tutti i siti web l’ultima consultazione è stata effettuata il 27 ottobre 2018.

Abstract

Il contributo offre un’occasione di confronto “a distanza” sul tema dello sviluppo e della gestione delle collezioni, quando oggi si mettono in discussione concetti quali “politica degli acquisti”, “collezione”, “fisionomia culturale” delle biblioteche. Il primo intervento, testimonianza/denuncia di un libraio, illustra le conseguenze, commerciali e culturali, delle procedure burocratiche che sempre più orientano, delimitandolo, il raggio di azione dei bibliotecari. Il secondo intervento è di un bibliotecario e riafferma l’importanza del dialogo tra bibliotecari e fornitori, sottolineando le potenzialità della cooperazione bibliotecaria a tutto campo e i benefici che queste collaborazioni possano portare alle comunità locali. Il terzo intervento, sempre di una bibliotecaria, riflette sul ruolo della biblioteca pubblica come mediatrice culturale nell’epoca dei social network e dei cosiddetti influencer, la quale deve pretendere di diventare essa stessa una influencer e non abdicare a questa sua funzione, per guidare e sostenere il lettore, specie quello potenziale, verso approcci di lettura più consapevoli e critici.

English abstract

The article is a “distance” exchange of views about collection development and management, in the light of the questioning of issues such as “purchasing policy”, “collection”, “cultural physiognomy” of libraries. A bookseller explains commercial and cultural outcomes of bureaucracy that increasingly directs and limits librarians’ action. A librarian reiterates the importance of dialogue between librarians and suppliers, highlighting the role of library cooperation in all fields and its outcomes on local communities. Lastly another librarian reflects on the public libraries’ role as cultural mediator in the era of social media and “influencers”. Libraries should become “influencers” themself in order to guide readers, especially potential ones, towards more aware and critical approaches to reading.

Lo sfruttamento “premeditato” delle librerie da parte delle biblioteche pubbliche

Di Riccardo Marlin

Durante gli anni Settanta e Ottanta le librerie e specialmente le librerie commissionarie, cioè quelle che forniscono libri italiani ed esteri e riviste italiane ed estere solo dopo aver ricevuto un ordine di acquisto, in sostanza finanziavano le biblioteche e più in generale tutta la ricerca scientifica di questo paese a causa dei pagamenti delle relative fatture anche a quattro anni. Erano tempi in cui il margine di guadagno però era decisamente alto, non si parlava di sconti ma addirittura si parlava di commissioni in più sul prezzo di copertina. Esisteva un cambio speciale per i prodotti editoriali esteri che si chiamava “cambio librario” e in sostanza rappresentava un aumento sul prezzo di copertina in valuta di circa il 30% per i libri esteri e 35% in caso di riviste estere in abbonamento perché lo sconto editoriale sulle riviste è sempre stato molto inferiore a quello dei libri. Oggi sembra uno scandalo ma a quei tempi non esisteva Internet, i cambi oscillavano molto e repentinamente, le spese di trasporto, le spese bancarie e tutte le spese generali, a causa dell’inflazione, aumentavano costantemente. L’informazione era in mano alle librerie commissionarie attraverso i cataloghi cartacei e le novità in campo medico e scientifico si riusciva ad averle solo attraverso le novità editoriali, le riviste in abbonamento e naturalmente durante i congressi che a loro volta pubblicavano il resoconto finale in uno o più volumi.

Nessuno desidera chiedere il ripristino di tali ricarichi che comunque, in quelle circostanze, erano destinati semplicemente a coprire tutte le spese relative all’importazione di un libro straniero lasciando alla libreria tutto il suo unico margine di guadagno che era ed è ancora oggi rappresentato dallo sconto che gli editori fanno alle librerie sui prezzi di copertina dei libri da loro editi proprio perché tali attività sono iscritte alla camera di commercio come librerie, pagano le loro tasse, pagano le loro spese, pagano gli stipendi ai loro collaboratori ecc. Le condizioni sono cambiate, l’oscillazione dei tassi è praticamente irrisoria grazie all’Euro che ha calmierato tali oscillazioni, le spese non sono più in costante aumento grazie a una inflazione bassa e inoltre le librerie non hanno più il potere dell’informazione per merito di Internet. Il reperimento dei libri sia italiani che esteri è oggettivamente più semplice e meno costoso quindi è del tutto giusto che sia stato abolito il cambio librario ma il problema è che non ci siamo fermati lì… siamo andati oltre, siamo andati a cercare quale libreria offre più sconto sul prezzo di copertina.

Come detto prima, lo sconto è l’unica fonte di guadagno per la libreria, quindi fare una gara come oggi si fa praticamente ogni giorno attraverso le RDO (richiesta di offerta) del portale MePA (Mercato elettronico della Pubblica amministrazione) significa premiare chi rinuncia a una parte più grande dello sconto che riceve proprio perché libreria, come i tabaccai ricevono l’aggio e le farmacie ricevono sconti sui farmaci.

Queste gare in sostanza sono gare a chi rinuncia maggiormente al compenso del proprio lavoro perché il prezzo del bene non è stabilito da chi partecipa alla gara ma dall’editore, quindi da una terza parte.

Rapportando questo mercato al mercato di un lavoratore sarebbe come se ogni mese quel lavoratore dovesse fare una gara per rinunciare a una parte del proprio stipendio e questo ogni mese anno dopo anno… nonostante si sia impegnato, prodigato e abbia ricevuto complimenti dai suoi superiori. Questo è quello che accade a noi e, sinceramente, siamo abbastanza stufi di ricevere complimenti per un servizio ineccepibile e poi tornare in gara e perdere il cliente che aveva espresso tale complimento. È mortificante.

Al fine di superare questo mercato selvaggio che sta sfiorando un vero e proprio sfruttamento delle librerie da parte delle biblioteche pubbliche – e anche naturalmente per altri motivi – fu fatta una legge, la famosa legge Levi (L. n. 128 del 27 luglio 2011, Nuova disciplina del prezzo dei libri) che, oltre a fissare uno sconto massimo del 15%, concedeva a particolari categorie la possibilità di ricevere uno sconto massimo del 20% e in queste categorie erano ricomprese le biblioteche pubbliche, i centri di ricerca, le università.

Il 20% è uno sconto elevato perché l’entità media dello sconto che una libreria riceve è del 25-30% sul prezzo di copertina ma poi dobbiamo considerare le spese di trasporto dall’editore alla libreria, le spese di trasporto dalla libreria alla biblioteca, il pagamento dell’IVA sulle pubblicazioni estere (che rappresenta un costo perché non è scaricabile in fattura di vendita), il bollo in caso di gara sul MePA, le spese bancarie e le spese generali, ma comunque era un limite! Con la legge 128/2011 hanno tolto quel limite ma solo per loro, non per il privato cittadino, non per la famiglia che deve comprare i libri ai figli ai quali è rimasto (e meno male) il massimo sconto del 15%.

La modifica è stata molto semplice, si sono tolti dallo sconto massimo del 20% e si sono aggiunti (all’art. 2, con il comma g-bis) a una serie di categorie che il legislatore aveva esentato da ogni limite di sconto. Queste sono le categorie di cui parlo:

    1. libri per bibliofili, intesi come quelli pubblicati a tiratura limitata per un ambito ristretto e di elevata qualità formale e tipografica;
    2. libri d’arte, intesi come quelli stampati, anche parzialmente, con metodi artigianali per la riproduzione delle opere artistiche, quelli con illustrazioni eseguite direttamente a mano e quelli che sono rilegati in forma artigianale;
    3. libri antichi e di edizioni esaurite;
    4. libri usati;
    5. libri posti fuori catalogo dall’editore;
    6. libri pubblicati da almeno venti mesi e dopo che siano trascorsi almeno sei mesi dall’ultimo acquisto effettuato dalla libreria o da altro venditore al dettaglio;
    7. edizioni destinate in via prioritaria ad essere cedute nell’ambito di rapporti associativi;

g-bis.    libri venduti a centri di formazione legalmente riconosciuti, istituzioni o centri con finalità scientifiche o di ricerca, biblioteche, archivi e musei pubblici, istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado, educative e università.

È del tutto evidente che la categoria g-bis ha poco a vedere con le altre categorie.

Le conseguenze negli anni sono state che già oggi nel nostro paese alcune delle più importanti librerie commissionarie hanno chiuso perché il costo dei servizi offerti non poteva più essere coperto dal margine di guadagno a causa della necessità di offrire sconti sempre più alti, troppo spesso superiori al 20%. In prospettiva vedo le biblioteche perdere i loro fornitori più professionali a favore di fornitori più o meno improvvisati che prometteranno sconti su beni che poi non riusciranno a fornire perché oramai l’entità di questi sconti offerti in sede di gara è talmente alta che è matematicamente impossibile ricavare un equo margine di guadagno dalla vendita di un libro.

Considerate che questi sconti, per l’effetto della concorrenza e per la necessità di avere a bilancio un fatturato, aumentano ogni anno e ci stiamo avvicinando (e in alcuni casi ci siamo già) a quello che io considero un vero e proprio sfruttamento delle librerie da parte delle biblioteche con le conseguenze sopra esposte e a questo punto posso anche ipotizzare che questo sfruttamento sia stato “premeditato” con la legge citata. È una legge per carità, va rispettata, ma il fatto che sia legale non significa che sia giusta!

C’è un altro aspetto importante da considerare. Tutto questo, quando a scegliere i fornitori erano i bibliotecari e non i segretari amministrativi, non accadeva. Il bibliotecario è il referente della libreria, parlano la stessa lingua, è il bibliotecario che si rende conto della qualità o meno del servizio. Il bibliotecario faceva la scelta del fornitore basandosi sul rapporto costo/qualità del servizio senza tante gare al ribasso, senza tanti fogli da firmare, proprio come un buon padre di famiglia fa ogni volta che esce di casa per comprare un bene o un servizio. La scelta premiava, se possibile, anche il territorio nel quale quella biblioteca era ubicata con conseguenze positive sull’economia locale. Non mi risultano scandali passati su forniture di libri alle biblioteche, non mi risultano indagati, tangenti e quant’altro ma eventualmente mi risultano indagini proprio su Consip (ente che gestisce il MePA) ma non certo per gare inerenti alla fornitura di qualche libro. I libri sono beni, come ho già detto, il cui prezzo viene stabilito dall’editore che non partecipa alla gara e quindi, secondo me, seguire il Codice degli appalti per l’acquisto dei libri è sbagliato, seguire il Codice degli appalti per l’acquisto di pochi libri è sbagliatissimo, seguire il Codice degli appalti per l’acquisto di un solo libro è assurdo e nemmeno profittevole perché siamo arrivati a fare un appalto anche per un solo libro. Un libro con prezzo di copertina di € 44,00 è stato pagato € 73,59 da un ente che ha fatto una gara sul MePA per l’acquisto di un solo libro.

Quella gara l’abbiamo vinta noi, aggiungendo tutte le spese che ci hanno imposto sul bando di gara, il bollo di € 16,00, il costo di spedizione editore-libreria, il costo di spedizione libreria-ente pubblico, lo sconto del 0,75% per rinuncia alla cauzione provvisoria (cauzione per un solo libro!) e ci siamo lasciati il nostro guadagno e cioè l’entità dello sconto dell’editore. Possibile che nelle vicinanze di quell’ente pubblico non c’era una libreria dove acquistare quel libro a € 44,00 o forse anche a un po’ meno?

Credo che il sistema vada ripensato, credo che quella legge vada rivista ancora una volta ma questa volta non a favore di una sola parte. Un limite allo sconto selvaggio è necessario al fine di non arrivare a un vero e proprio sfruttamento delle librerie da parte delle biblioteche pubbliche, oppure se le cose resteranno così credo che sia inopportuno che periodicamente tutti i politici di questo paese sia di destra che di sinistra esprimano parole a favore delle librerie indipendenti sottolineando la loro importanza dopo averle colpite così duramente alle spalle al fine di ottenere un effimero risparmio economico per lo Stato causando però un enorme danno economico a questi operatori e al loro territorio.

Il MePA non è tutto da buttare, non è tutto sbagliato, ci ha permesso di farci conoscere a biblioteche che non sapevano della nostra esistenza, ci ha permesso di confrontarci con altri operatori ma il problema è dare la possibilità alla biblioteca e ai suoi bibliotecari di decidere, se dopo aver avuto alcune brutte esperienze finalmente trova un buon fornitore con un buon rapporto tra servizio e costo, di poter continuare a servirsi di quel fornitore e non costringerla a fare un’altra gara di appalto che premierà solo chi farà un punto in più di sconto.

È necessario riflettere su questo punto per il bene delle librerie, per la loro sopravvivenza e anche per il bene delle biblioteche per i motivi che ho già scritto. Qualche volta reperire un libro è più complicato di quanto ipotizzato in sede di preventivo, magari può costare qualche euro in più di quanto avevamo preventivato ma la priorità è la fornitura quindi se quel libro è destinato a un nostro cliente lo forniremo comunque, ma una RDO non crea un cliente, una RDO è solo una fornitura a un ente pubblico mentre per esempio la TD (trattativa diretta con un unico operatore) trasforma quell’ente in un cliente e vi assicuro che sono due cose diverse.

Offrire in sede di gara, senza sapere quali libri dovremo fornire, uno sconto del 25-28% è un azzardo! Spesso le biblioteche ordinano libri editi da associazioni che non riconoscono nessuno sconto alle librerie, a volte le spese di spedizione di un libro superano lo sconto sul prezzo di copertina se questo è inferiore ai 25-30€, tenete presente che le biblioteche la maggior parte delle volte ordinano una sola copia di un libro quindi poi spesso chi ha offerto quello sconto dovrà decidere se fornire uno o più libri rimettendo dei soldi oppure inventare scuse, dire che è in ristampa, dire che è esaurito, dire che non è ancora arrivato… scuse che vanno a discapito del servizio. Non dico che questo accada sempre ma sono sicuro che accada spesso e forse non è nemmeno sbagliato… una libreria non può rimettere dei soldi per vendere un libro e allo stesso tempo una libreria non può rinunciare a vendere i libri e quindi ci prova…

Certo, sul bando di gara viene previsto tutto, la biblioteca può difendersi da queste situazioni, può fare azioni legali, può chiedere penali, può riempire fogli e fogli e inviare raccomandate ma quella biblioteca in fondo voleva solo ricevere un libro… e la libreria voleva solo guadagnarci il suo sconto…

Se un legislatore ha scritto una legge sul massimo sconto significa che comunque è una cosa seria, importante, però non sta a me indicare l’entità di un massimo sconto equo anche se con la mia esperienza direi che, anche per equiparare le persone private e gli enti pubblici, il massimo sconto del 15% sarebbe un limite accettabile ed effettivamente realizzabile. Potrebbe rappresentare un limite equo che garantisca sia un margine di guadagno per il lavoro svolto dalla libreria e sia una qualità del servizio reso alla biblioteca.

Il mancato risparmio per lo Stato sarebbe irrisorio se consideriamo il fatto che un mercato regolamentato porterebbe sicuramente vantaggi alle economie locali e in particolare alle librerie che anziché fallire potrebbero aprire e la concorrenza potrebbe essere indirizzata sulla qualità del servizio, una qualità del servizio che ha bisogno di investimenti per essere realizzata ma nessuna azienda può fare investimenti senza margini di guadagno per il lavoro svolto.

Per un ritorno a un rapporto di fiducia tra biblioteca e libreria

Di Marco Locatelli

Quando ho iniziato a lavorare in una biblioteca (erano i primi anni Novanta), trovai molto giovamento dall’incontro con i librai (ma anche con gli agenti librari): conoscevano a fondo le produzioni editoriali, gli autori, le collane, le riviste; sapevano indicare per ciascun libro proposto il lettore al quale sarebbe stato corretto segnalare l’opera; suggerivano repertori per approfondire meglio la materia e perfezionare i differenti settori del patrimonio della biblioteca. Di molti, si capiva che i libri li avevano davvero letti e che avevano scelto quella professione per un genuino interesse verso la letteratura, per un personale desiderio di sapere, di meglio conoscere il mondo in cui viviamo. Toccare e sfogliare pagine di carta sembrava un impulso per loro irresistibile, e mai si lamentavano del peso e della fatica dovuta al trasporto di scatoloni e pile di libri. Certo, contavano molto anche le “doti comunicative” del libraio, la sua credibilità, la sua capacità di affabulazione, che aiutavano nel trasformare un suo consiglio in un ordine di acquisto.

Il libraio è sempre stato il partner commerciale più importante del bibliotecario, l’alleato che ha consentito – e consente tuttora – a chi lavora in biblioteca di accedere con più facilità (e consapevolezza) a quel mondo che è alla base di ogni collezione documentaria: l’editoria.

Perché – diciamolo pure con franchezza – l’editoria (almeno quella italiana) poco si è importata nel suo complesso delle biblioteche; poca attenzione ha avuto verso di esse, anche a causa di una scarsa capacità attrattiva delle biblioteche. E anche le biblioteche non hanno sempre avuto strategie per mettere a sistema un rapporto significativo con gli editori. Quanto sanno mediamente i bibliotecari italiani delle produzioni e delle logiche editoriali? Quanti momenti di incontro sono a essi riservati con editori e operatori del settore? Non conosco statistiche al riguardo, ma la sensazione è che siano spazi troppo angusti e occasionali.

Ricordo inoltre che in quegli anni, nella realtà dove lavoravo (la bergamasca, così ricca di biblioteche comunali ben fornite), ci si interrogava se il libraio fosse più un fornitore di beni (i libri) o di servizi (di informazioni editoriali). Egli veniva invitato a partecipare a gruppi di bibliotecari che si dedicavano agli acquisti, illustrando – e mostrando dal vivo – le novità editoriali immesse periodicamente sul mercato. Questa sua presenza veniva valorizzata rinunciando a una parte di sconto, nel convincimento che una peggiore condizione economica valesse abbondantemente la visione delle novità e le preziose informazioni, capaci di ridurre gli errori nelle scelte delle acquisizioni. Sì, perché il bibliotecario che effettua ordini di acquisto vive nell’incertezza, nel dubbio di non doversi pentire, di aver ben speso i soldi a disposizione e di riuscire a trovare sempre il lettore per il libro da lui comprato. Al librario veniva al massimo richiesto un preventivo, senza procedere a una vera e propria contrattualizzazione, quasi fosse un segno di stima e di fiducia reciproche.

Perché questo rapporto, che in tante realtà appariva fecondo, sembra ora (irrimediabilmente) incrinato?

Molti danno la colpa al Codice dei contratti pubblici (D.lgs. n. 50 del 18 aprile 2016) e a quei sistemi (come il Mercato elettronico della Pubblica amministrazione, MePA) che stanno spingendo gli enti pubblici ad attivare una concorrenza più spinta e a ricercare condizioni sempre più favorevoli per la pubblica amministrazione (e tutta la sua galassia di enti) a danno degli operatori economici, soprattutto di piccole dimensioni.

Ma è vero? È una tesi che non mi convince pienamente, se non per la parte che riguarda il cosiddetto “principio di rotazione”, che spingerebbe a cambiare un fornitore anche se ha ben lavorato (favorendo una sorta di “autolesionismo burocratico”). Tuttavia, non sempre si ricorda che il Codice indica come via prioritaria la gara con offerta economicamente più vantaggiosa (quella dove è prevista la valutazione anche di un progetto tecnico e l’affidatario si sceglie in ragione del “miglior rapporto qualità/prezzo”), addirittura consentendo che vi possano essere gare senza offerta economica (art. 95, comma 7). Sono indicazioni che dovrebbero essere tenute ben presenti negli acquisti documentari per le biblioteche pubbliche: infatti, lo sconto può essere una variabile minoritaria nella valutazione di un fornitore, anche perché sappiamo che il bibliotecario nell’effettuare gli ordini di acquisto ha in prima considerazione un’altra variabile economica: il prezzo di copertina. Si guarda inizialmente a quanto costa un libro secondo quanto indicato dall’editore, prima di fare un calcolo sul suo prezzo detratto lo sconto percentuale offerto. Le differenze di prezzo possono essere grandissime tra un libro e un altro, mentre le differenze di sconto tra un librario e un altro fornitore sono contenute, forse con la sola eccezione per particolari promozioni/svendite o per l’acquisto di documenti che non hanno prezzo di copertina (ad esempio i DVD-ROM).

Allora come si è arrivati ad allargare il fossato tra librerie e biblioteche?

Facciamo un passo indietro. Recentemente, il Presidente emerito della Camera dei deputati Luciano Violante, in un articolo apparso sul «Corriere della sera» del 14 settembre 2018, ha colto nel segno parlando di sfiducia nei rapporti tra pubblico e privato:

La principale ragione è costituita dalla mancanza di certezza sui presupposti della responsabilità penale dei pubblici funzionari e degli operatori economici. Ogni atto discrezionale può essere oggetto di indagini penali, per effetto di denunce di imprenditori concorrenti o di inchieste giornalistiche o per altre ragioni. Il pm è tenuto ad inviare un avviso di garanzia. Quell’avviso nella maggioranza dei casi non produce una condanna. Ma in ogni caso è fonte di danni gravi per il pubblico funzionario. Deve farsi assistere da un avvocato, con gli oneri conseguenti, è indicato come colpevole sui mezzi di comunicazione, la reputazione è rovinata. Di fronte a questo rischio, il pubblico funzionario è ragionevolmente indotto all’inerzia, che è l’unico modo per salvaguardarsi. Questa è la ragione principale della lentezza e della oppressività della burocrazia. Se ogni scelta discrezionale può apparire frutto di un abuso, chi può dar torto al funzionario che non firma o che chiede innumerevoli documenti?

Mi trovo pienamente d’accordo, e aggiungerei lo spauracchio per l’eventuale contestazione del “danno erariale”, in caso di controllo contabile sull’atto di autorizzazione della spesa, che favorisce nel pubblico funzionario il desiderio di rifugiarsi nel porto sicuro del massimo sconto/ribasso. In ogni caso, la precondizione è tornare – in tutti i campi – a un rapporto sereno tra pubblico e privato, tra “servitori dello Stato” e cittadini, tra chi eroga un servizio pubblico e i suoi utenti. Non c’è scappatoia: se permane un clima di Santa Inquisizione – dove si suppone che «ogni pubblico dipendente sia un potenziale corrotto e ogni operatore economico sia un potenziale corruttore» – non se ne esce, neppure con una legge ad hoc. Anche il rapporto biblioteche/librerie è stato letteralmente travolto da questo contesto di sfiducia e di sospetto, e sempre più il bibliotecario si è visto ostacolare (nei casi più fortunati) o addirittura estromettere dalle procedure di affidamento degli incarichi, guardato dall’alto, giudicato incapace di perfezionare adeguati contratti di acquisto, possibile causa di guai per il datore di lavoro. In questi ultimi anni, negli enti pubblici, chi non ha dimestichezza con gli aspetti amministrativi e contabili, chi non possiede una laurea in materie giuridiche o economiche, ha visto erodere i propri spazi decisionali, la legittima autonomia dovuta a chi è responsabile scientifico di un servizio pubblico e di un patrimonio culturale. Saper scegliere il giusto libro per i propri utenti, conoscere in maniera approfondita il panorama editoriale, essere in grado di costruire, manutenere e promuovere delle collezioni documentarie non è motivo di prestigio, non costituisce competenza riconosciuta, neppure all’interno del proprio ente di riferimento.

Ma come se ne esce? Ricette magiche – ahimè! – non ne esistono (o almeno io non ne conosco) e forse neppure scorciatoie. Proviamo comunque a trovare alcune possibili soluzioni facilitanti. Ne indico tre.

La prima è quella di ritornare a pensare alla fornitura libraria non come a un acquisto di un bene ma di un servizio. Il libraio fa anche un servizio al bibliotecario: gli consente la visione diretta mostrando una copia fisica, gli fa una consulenza/informazione editoriale, gli propone come valorizzare le opere, le collane ecc. Questo comporta che i librai – e in generale tutti coloro che intendono lavorare per e con le biblioteche – devono personalizzare per esse dei servizi, devono studiare attività (assistenza, catalogazione, promozione ecc.) che possano essere di concreto aiuto nella gestione di quanto la biblioteca deve erogare quotidianamente ai suoi utenti e che, più in generale, prefigurino un comune percorso volto a far crescere nei cittadini l’abitudine a leggere e a documentarsi.

La seconda soluzione sono le “azioni di sistema”: le biblioteche si affrancano dalla tirannia amministrativa/contabile se cooperano tra loro, se si uniscono per forniture comuni, se si mettono in rete, se attivano il sistema bibliotecario di appartenenza. Rimanere nel proprio “orticello” le espone a qualunque cambiamento di vento, le riduce a facili prede di logiche “altre”, possibili territori annessi ad altri settori, satelliti di altri pianeti (dirigenti). Si vedono in giro ancora troppe biblioteche che propongono gare per acquisto documenti senza coordinarsi con altre biblioteche di uguale tipologia o del circondario. La cosa è ancora più preoccupante perché, da bibliotecari, dovremmo costruire cataloghi sempre più raccordati, integrati, che siano testimonianza di politiche di acquisto condivise. La cooperazione favorisce anche la crescita di immagine delle biblioteche e della professionalità del bibliotecario, può dare onore a questo mestiere (“il più bello del mondo”, secondo la felice definizione contenuta nel titolo di un libro di Maria Stella Rasetti), rassicurare ogni interlocutore/stakeholder che anche in campo culturale le forniture pubbliche si possono fare seriamente e nell’interesse della collettività.

La terza indicazione è il ritorno a logiche territoriali. In questi anni, accanto (e forse congiuntamente) al prevalere delle ragioni amministrative e contabili, si è alimentato un centralismo che probabilmente è sfuggito ai più. Parlamento, governi, ministeri, autorità nazionali hanno teso a comprimere le libertà di azione dei territori, delle sedi decentrate. È passata la vulgata che in periferia sia più facile restare nell’ombra, la spesa si disperda in mille rivoli, i comportamenti degli operatori siano meno controllabili. Non intendo qui fare un elogio del “piccolo”, che non necessariamente è bello; tuttavia si è persa la dimensione che è dove emerge il bisogno che si riescono a spendere meglio i soldi, a valutare qualità e prezzi. Patti territoriali dovrebbero essere sempre sottoscritti tra le rappresentanze dei librai e delle biblioteche, soprattutto se si tratta di biblioteca di pubblica lettura, il «centro informativo locale» che si deve adattare «ai diversi bisogni delle comunità rurali e di quelle urbane». Le comunità locali, appunto, al centro dell’interesse delle biblioteche pubbliche, con quanti le abitano, operatori economici compresi.

Un ultimo sguardo alla “quarta rivoluzione” che stiamo vivendo: il passaggio dall’analogico al digitale. Qui non interessa tanto la portata del fenomeno: il Rapporto sullo stato dell’editoria in Italia 2018 dell’Associazione italiana editori segnala peraltro un calo nel 2017 nella produzione di titoli di e-book (-15,9%) e un rallentamento di crescita, ora non più a due cifre (+3,2%). Ciò che importa sottolineare per il nostro discorso è che si sta introducendo una nuova logica di acquisto, il cosiddetto “pacchetto”. La biblioteca seleziona un pacchetto di titoli che vengono subito visualizzati a catalogo: il primo prestito dell’utente genera un acquisto e si può andare avanti fino a esaurimento del credito. Il tutto sorretto dal “fornitore unico”, il solo operatore economico in grado di fornire il “pacchetto” o che di fatto è il monopolista del mercato. I bibliotecari rischiano dunque di non scegliere più i titoli che acquistano, mettendo in crisi il concetto stesso di “collezione” come elemento caratterizzante di una biblioteca. Con la biblioteca digitale, la centralità del “patrimonio” cede il passo alla centralità del “servizio”: le biblioteche non si differenziano per la collezione che possiedono, ma al massimo per come la gestiscono, la valorizzano, la promuovono o vi innestano – più o meno in maniera efficace – delle proposte utili per il pubblico. Non è necessariamente un processo negativo e da scartare, ma è indubbio che può incubare in sé un germe pericoloso: il calo di “biodiversità”. Dobbiamo far sì che la dieta del bibliotecario sia la più varia possibile, perché – parafrasando Feyerabend – si può ragionevolmente affermare che anche la bibliografia «è un’impresa essenzialmente anarchica: l’anarchismo teorico è più umanitario e più aperto a incoraggiare il progresso che non le sue alternative fondate sulla legge e sull’ordine». L’aiuto che può dare il libraio e la “fatica” che tocca al bibliotecario stanno in questo: ricercare insieme sempre nuove e impervie strade per trovare informazioni bibliografiche originali e non precostituite.

La biblioteca e la sua community: influencer o influenced?

Di Silvia Zanini

La selezione dei titoli è un momento imprescindibile per la costruzione di una collezione bibliografica a cui vada attribuito un assetto definito e solido. Siamo abituati ad avvalerci di ricchi apparati bibliografici, strumenti professionali indispensabili per svolgere al meglio il nostro lavoro, come anche di linee guida e carte delle collezioni che ci aiutano a dare forma concreta al progetto complesso della costruzione di una collezione e della sua crescita uniforme e coerente.

Si apre tuttavia, di fronte al bibliotecario, un disarmante scenario: da un lato, la montagna di libri pubblicati ogni anno (quasi 70.000 titoli solo in Italia) e, dall’altro, la sconfortante insufficienza di risorse finanziarie per poterne acquistare anche solo una selezionatissima porzione. Addirittura, Bruno Ventavoli, responsabile di «Tuttolibri», il supplemento culturale de «La Stampa», è arrivato a chiedere agli editori di non stampare più così tanti libri: non si riesce a recensirli «non perché non siano belli, stimolanti, incuriosenti. Ma semplicemente perché sono troppi».

Come se non bastasse, a complicare questo rompicapo, subentrano altri condizionamenti, non ultima l’età media piuttosto alta del personale in servizio e il drammatico blocco delle assunzioni che esclude al momento l’immissione della millennial generation.

La scelta preventiva delle fonti e dei mezzi da utilizzare è determinante per la qualità del risultato finale. Privilegiare l’uso di fonti tradizionali, come cataloghi degli editori, siti web commerciali, riviste tecniche, guide professionali e quant’altro ampiamente consigliato da autorevoli esperti e professionisti può essere rassicurante, una garanzia per orientarsi meglio e non sprecare le poche risorse disponibili.

L’uso di strumenti innovativi, peraltro, dovrebbe aiutare il bibliotecario, se non fosse che questi strumenti producono, a loro volta, uno spaesante affollamento di dati. I consigli di lettura di recensori e suggeritori a vario titolo, appassionati lettori certo, ma spesso senza una competenza specifica, proliferano e dilagano nel web. Stanno acquisendo credibilità e affidabilità in misura del numero dei loro follower e hanno un grandissimo successo.

La forza di penetrazione comunicativa di istituzioni come le biblioteche è messa in discussione dal passaparola del web. Il word of mouth è ormai diventato una garanzia di successo. Studi recenti dimostrano che l’83% dei consumatori a livello globale prende le decisioni di acquisto in base ai consigli di amici e familiari, fidandosi delle opinioni che gli altri utenti pubblicano online, meglio se famosi. Il 92% dei consumatori crede nell’opinione di un influencer più che nella pubblicità tradizionale. Si potrebbe tradurre: gli utenti credono più negli influencer che nel bibliotecario.

Varrà la pena allora curiosare un po’. Conosci il tuo nemico, innanzitutto. Allora, chi sono gli influencer? Gli influencer sono persone che si interessano di un argomento specifico facendone il fulcro della loro attività comunicativa sul web: attraverso la loro costante presenza, finiscono con l’influenzare, appunto, una grande platea di persone che li segue sui social network, spesso diventando testimonial di uno o più brand. Gli influencer agiscono su vari tipi di piattaforme: social network, il mezzo più popolare che dà voce a blogger, instagrammer e youtuber, campagne di e-mail marketing, conferenze ed eventi, blog personali, podcast, video e qualsiasi altra formula che permetta di interagire con un pubblico.

Non sono certo improvvisati e casuali “selfisti”: per citare uno dei nomi più noti, le foto pubblicate dalla fashion blogger da nove milioni di follower Chiara Ferragni, nominata dalla rivista americana «Forbes» «l’influencer di moda più importante al mondo», sono studiate nei minimi dettagli e sono scattate da professionisti del mestiere. The blond salad, l’inizio dell’avventura della Ferragni, è anche un best seller pubblicato da Mondadori nel 2013.

Non occorrerà tirare in ballo fenomeni mondiali come lo scrittore Grant Cardone, tra i massimi rappresentanti dell’influencer marketing, con 443.000 follower su Twitter, o Rand Fishkin fondatore di Moz, appassionato di SEO, con 400.000 follower su Twitter, o ancora Joanna Lord, ritenuta una delle più brillanti menti del brand marketing e del growth hacking, con oltre 33.400 follower su Twitter.

Possiamo rimanere in Italia e curiosare tra le pagine, per esempio, di Chiara Biasi, influencer da un milione di follower, autrice di Chiaroscuri (Mondadori, 2017), oppure della youtuber milanese Sofia Viscardi, dal cui libro Succede (Mondadori, 2016) verrà tratto un film diretto da Francesca Mazzoleni; e ancora la fashion blogger Chiara Nasti: anche lei ha pubblicato il suo Diario di una fashion blogger (Mondadori, 2014). Moda a parte, ci sono influencer italiani che si occupano anche di altro. E sono giovanissimi. Per esempio, Matteo Martinelli, appassionato di ciclismo, condivide su Instagram i paesaggi mozzafiato che attraversa sulle Dolomiti. Cristina Saglietti, torinese, cura «Contemporaneo food», un blog di ricette e cucina italiana con uno sguardo contemporaneo. Alixia nel paese del web, lucana, ha aperto un blog sull’home decor in cui oggetti vecchi sono trasformati in qualcosa di nuovo con tecniche artigianali. Riminese, Gianluca Fazio cura un blog impegnativo già dal titolo, «The rerum natura», in cui promuove la bellezza della natura e della cultura italiana. Michele Grimaz, udinese di origine, condivide la passione per la fotografia.

Anche in campo letterario ci sono moltissimi esempi di questo tipo. Paolo Di Paolo ha intervistato alcuni blogger e influencer, tra cui Noemi Cuffia, titolare del blog «Tazzina di caffè», Rossella Canevari che ritiene che il livestreaming sia il futuro perché le dirette eliminano la finzione e permettono all’utente di interagire, David Frati, pioniere dei blog letterari e fondatore di «Mangialibri», o Giulia Ciarapica, mettendo in luce la forte dimensione innovativa e persuasiva del suggeritore e del promotore di libri e letture nel web.

Giulia Ciarapica si muove con destrezza su tutte le piattaforme social, da Instagram a YouTube, e declina il messaggio in base al mezzo che sta utilizzando, ben consapevole che ogni piattaforma ha le sue regole e il suo pubblico. Nel suo recente libro Book blogger dà istruzioni dettagliate sulla scelta del social, sulle modalità di redazione di una recensione efficace e si sofferma sull’uso di fonti accreditate (ebbene sì, libri di carta!) da cui apprendere l’arte della critica letteraria, combinando queste nozioni con le tecniche di scrittura (ivi compresa la lunghezza dei testi) imposte dai vari social. Non ultima, ricorda che sul lettore ha un impatto decisivo la nota più personale che colora la recensione di sincera emozione. Insomma, ciò che piace e che si comunica con piacere viene subito percepito con immediato favore e creerà seguito. Inoltre, è più probabile che sceglieremo un libro se viene presentato in modo originale, contaminando diversi linguaggi espressivi che, di norma, non stanno insieme. Questo può sorprendere e accendere l’attenzione.

Nel settembre 2015 Giulia ha avuto un’idea: l’#AduaSelfie all’indomani dell’uscita del libro Adua di Igiaba Scego (Giunti, 2015). Per promuovere sui social il romanzo, Giulia pubblica la foto della copertina del libro (che ritrae l’autrice per la metà destra del volto), affiancandole per la metà mancante il proprio viso, completando così il volto. L’idea è quella di permettere al lettore di giocare con la copertina, mettendo la sua metà del volto accanto a quella della Scego, e facendo di se stesso un coprotagonista o addirittura un coautore del libro. Partecipazione attiva del pubblico, coinvolgimento e possibilità di interazione sono gli ingredienti che aggiungono sale al messaggio promozionale di un libro e lo rendono appetibile a un numero maggiore di avventori.

La potenza partecipativa e comunicativa del selfie l’ha capita molto bene anche Clelia Patella con i suoi selfie d’arte. Salentina di nascita e milanese di rinascita, figlia di due pittori, Clelia si dedica a radio e televisione occupandosi di programmi musicali. Ma l’arte rappresenta il suo primario interesse e da diversi anni ne scrive, prima con il suo blog «Artos», ora per «Artslife», «Hestetika» e «Il Giornale off». Con Walk in art ci racconta in tre minuti le mostre che la appassionano di più per ArtsLifeTV. #Selfàti – anche leggibile come un invito, “sèlfati” – la prima mostra italiana dedicata interamente al selfie (quest’estate al castello di Gallipoli) – ha raccontato il fenomeno selfie non solo come gesto quotidiano ma soprattutto come nuova modalità espressiva. Una rilettura pop delle differenti percezioni che ognuno di noi avverte di fronte a un’opera d’arte, interagendo e permettendone una visione più user friendly. Sia per Ciarapica, sia per Patella, dall’atto narcisistico e solitario, improvvisato e perfino spudorato, quindi, alla funzione sociale: il selfie può diventare veicolo di condivisione del piacere di leggere come della bellezza dell’arte.

Sono moltissimi i blog che si occupano di libri e di lettura sui social. Non è possibile qui aprire questo vasto capitolo, ma tra i tanti, ci piace citare almeno «Uno scaffale di libri» per un semplice, quasi ovvio motivo: è un blog curato da Siham, una giovane bibliotecaria italiana di origini arabe. Nel 2017, è stato riconosciuto tra i migliori blog d’Italia, ed è stata anche premiata e ha ottenuto un riconoscimento importante da Yeerida (a cui peraltro rimandiamo per una panoramica sui migliori blog in circolazione), e le è stato assegnato più di una volta il Liebster Award.

Non mancano poi gli esempi in radio, dalle più famose trasmissioni come Fahrenheit di Rai Radio 3, al programma Il cacciatore di libri di Radio 24 Il sole 24 ore, a Personal book shopper di Radio Capital, ai consigli di Chiara Beretta Mazzotta il sabato mattina con Libri a colacione su Radio 105. Senza dimenticare almeno di menzionare Radio libri, la prima web radio dedicata al mondo dei libri. Lo scorso anno alcuni circoli di lettura di Biblioteche di Roma sono stati invitati a partecipare agli incontri con gli autori della trasmissione Onde read sulla terrazza del Lian club sul Tevere.

Interessante ci è parso il trattamento del libro sulle web TV soprattutto per l’uso della video recensione. Guardare e ascoltare un video è più veloce e meno impegnativo che leggere un testo scritto. Tra i tanti esempi, colpisce il fenomeno Jovanotti che da qualche tempo pubblica sul suo Jova.tv videorecensioni sui libri. Jovanotti, al secolo Lorenzo Cherubini, cantautore, parla per esempio di Cent’anni di solitudine di Gabriel García Márquez di cui ci mostra un’edizione in lingua originale. Dice di non essere un bibliofilo e parla del libro in modo non ordinario, mentre cammina, balla e canticchia nella sua casa d’artista piena di libri sparsi qua e là. Ci mostra anche una copia di Vivere per raccontarla con dedica autografa e anticipa i libri di cui parlerà in seguito. Ebbene, queste videorecensioni sono seguitissime e influenzano il pubblico in modo davvero incredibile, come dimostrano le migliaia di visualizzazioni.

Del trentennale percorso di crescita e di evoluzione di Jovanotti si è interessato anche Corrado Augias che ha intervistato il cantautore a Quante storie, il celebre programma di Rai 3. Jovanotti e Augias: una strana coppia di promotori del libro e, in generale, di cultura.

Entrambi sono convincenti influencer, ciascuno a suo modo. Che differenza c’è tra il suggerimento di un Corrado Augias e quello di un Jovanotti? Come mai entrambi lasciano un segno, ci fanno venire voglia di leggere quello che ci consigliano? La differenza è tutta questione di target, di mezzi di comunicazione, di modo di esprimersi? Non c’è qualcosa che li accomuna, in fondo? C’è la passione per i libri, espressa in modo diverso, filtrata dalla propria cultura, dalle letture e dallo studio, dalla propria esperienza, dalla storia e dalla vita personale, dai più profondi sentimenti che ognuno si porta nel cuore, dall’intelligenza e dall’acume con cui sondiamo ed esploriamo le parole dei libri e tantissime altre cose. Al potenziale lettore, telespettatore, navigatore, ascoltatore arriva tutto questo come una freccia che colpisce nel segno tanto più in profondità, quanto più veicolato da un messaggio originale, vivace e personale.

La televisione si conferma come mezzo di comunicazione più potente. Saviano a Che tempo che fa suggerisce un libro e tutti lo comprano. Perfino Papa Francesco fa vendere migliaia di copie appena cita il titolo di un libro. Lo stesso può dirsi per Lilli Gruber a Otto e mezzo, o per Striscia la notizia. Ricordiamo che nel maggio del 2014 veniva siglato il Patto per la lettura tra il Mibact e le maggiori emittenti televisive italiane, nella piena consapevolezza della forza comunicativa della televisione. A Torino Dario Franceschini, intervenendo alla cerimonia di apertura della trentunesima edizione del Salone internazionale del libro, dichiarava: «Negli ultimi anni il bilancio della cultura è tornato a crescere in modo significativo. Le risorse sono aumentate e si è tornato a assumere. Non si interrompa questo percorso. Investire in cultura e conoscenza è una sfida per tutti, ma soprattutto per il nostro Paese».

Il lavoro della selezione dei titoli e poi della promozione di questi al pubblico è, dunque, una parte sostanziale del lavoro della biblioteca. Da una parte la biblioteca pubblica deve continuare a rappresentare un luminoso faro per i suoi lettori, deve aiutarli a intraprendere percorsi di lettura sempre più ardui, a raffinare la loro capacità di lettura critica, e per farlo ha bisogno di collezioni ben strutturate e aggiornate.

D’altra parte, tuttavia, la biblioteca non può esimersi dal prestare attenzione alle pulsioni che provengono dalla sua stessa utenza, soprattutto quella potenziale, dal territorio, dall’attualità multiforme e in evoluzione continua. Insomma, non può chiudere occhi e orecchi di fronte a quanto impongono il pubblico, il mercato, perfino la moda.

Occorre fidelizzare gli utenti e attrarne di nuovi. Quindi, bisogna assolutamente scegliere i libri “giusti” e attrattivi, quelli che fanno tendenza, che assecondano il gusto, anche se aleatorio, del pubblico; ma allo stesso tempo bisogna acquisire i titoli che permettano alla biblioteca di offrire la migliore editoria, testi aggiornati e di qualità, leccornie per i palati raffinati e per gli arditi scalatori.

Ha ben ragione, a nostro avviso, Saro Trovato, mood maker e sociologo, fondatore di «Libreriamo», la piazza digitale dedicata a chi ama la cultura, quando sostiene che anche nelle biblioteche «i libri devono essere più “pop”, più popolari non solo alla vista ed al contenuto, ma anche nella proposizione. Rendere più attraente il “prodotto” libro non significa sminuirlo, ma anzi dargli un plus capace di avvicinarlo ad un maggior numero di persone».

Alla nostra domanda se la scelta del libro sia determinata dal mezzo con cui viene presentato, Trovato ci risponde: «La scelta può essere certamente determinata dal modo con il quale un certo libro viene proposto. Le recensioni sono importanti, ma occorre a nostro parere dare voce al pubblico ancor prima che a giornalisti o responsabili delle pagine di cultura. Proprio per questo noi di Libreriamo abbiamo istituito una sezione “Recensiamo” nel quale sono i lettori stessi che ci inviano le recensioni dei libri che hanno letto».

A promuovere «Libreriamo» è una vera e propria comunità culturale formata da amanti della lettura, dell’arte e della fotografia d’autore che vogliono portare i libri e l’arte tra la gente, dando loro la possibilità di parlare della cultura e mettere in relazione artisti e addetti ai lavori. Una community che aumenta e si sviluppa costantemente.

E torniamo così a un tema che abbiamo già affrontato altrove: «L’emozionalità arriva di più alla gente, soprattutto ai nativi digitali ed ai più giovani, che hanno bisogno di essere coinvolti in maniera più appassionata e suggestiva. […] Il segreto è riuscire ad arrivare al cuore del lettore, entrare in empatia con lui, anche senza un contatto diretto visivo».

Infine, una riflessione a margine sulle attività culturali: sono davvero necessarie per promuovere la lettura? La lettura, in fin dei conti, ha bisogno di essere promossa? Forse è solo una domanda mal posta. Bisognerebbe partire proprio dalle collezioni delle biblioteche, perché è dalla loro fisionomia che può prendere vita una efficace promozione della lettura. Ma perché questo sia possibile, le collezioni dovranno saper esprimere i temi legati all’habitat del lettore, dovranno recepire dalla propria community, reale o virtuale che sia, bisogni e interessi concreti e, se possibile, anticiparli, dire quello che tutti pensano ma che nessuno aveva ancora saputo esprimere. Le biblioteche saranno più attraenti per chi tutto questo non solo lo vive, ma spesso lo subisce; sapranno essere fermenti di nuovo pensiero costruttivo, di idee che faranno volare le persone altrove.

Allora, attività connesse strettamente con le collezioni della biblioteca che sono a loro volta strettamente connesse con l’attualità del proprio ambiente socioculturale. Attività che rispecchino innanzitutto esigenze e interessi della comunità, che si arricchiscano di tanti altri condimenti in modo da offrirsi come momenti suggestivi, esperienze emozionali e sinestetiche che lasceranno un segno, un germe, un seme.

Il bibliotecario potrebbe senza molta difficoltà approcciarsi alle tecniche di comunicazione e al know how dei più famosi influencer della rete, dei giornalisti culturali, di coloro che quotidianamente danno consigli di lettura e masticano la logica dell’hit parade, delle classifiche dei libri da non perdere e che riescono a scovare e a trasformare in casi editoriali autori quasi sconosciuti. Potremmo chiamarlo librarian-blogger o forse, più brevemente, lib-blogger.

E se questa iniziale curiosità si trasformasse in un’esplorazione sempre più consapevole, alla fine delle nostre ricerche ci scopriremo, probabilmente, arricchiti di un nuovo sapere e meglio corazzati verso i competitor. L’immersione in questo mare di possibilità non sminuirebbe affatto le peculiari competenze del bibliotecario, anzi, le enfatizzerebbe.

Non più influenced, dunque, ovvero marginalizzata e arrancante, inseguendo senza mai soddisfarli i davvero troppi e martellanti stimoli che provengono dal pubblico, dal mercato e soprattutto dal web, la biblioteca, forte del suo ruolo di mediatrice culturale, deve pretendere di diventare essa stessa una influencer (culturale, è sottinteso). Lo può fare attraverso lo specchio delle sue collezioni ove esse sappiano selezionare con chiarezza e con innato senso critico interessi, tendenze, flussi che spostano l’attenzione del grande pubblico. Grande pubblico che, in fin dei conti, è quello che legge poco e che proprio per questo rappresenta un’ambita preda per le biblioteche.