N.1 2016 - L'utente come risorsa

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Diritti degli utenti e diritti dei lettori: andata e ritorno

Luca Ferrieri

Biblioteca civica di Cologno Monzese; lucaferrieri@gmail.com

Per tutti i siti web l’ultima consultazione è stata effettuata il 28 marzo 2016.

Abstract

Il tema di questo articolo è la lettura intesa come «ciò che succede quando leggiamo». A quel «succedere quando» sono connessi diversi aspetti: le motivazioni soggiacenti, le sue modalità e i suoi tempi, il cosa si legge e il piacere che se ne ricava, la sua socialità, infine. Queste dimensioni definiscono il significato attribuito alla lettura: esse non sono il background, non sono qualcosa di esterno, per intenderci, sono dentro l’esperienza di lettura.

Le ricerche in questo ambito, invece, tendono a concentrarsi essenzialmente sugli aspetti quantitativi dei comportamenti e delle scelte dei lettori: sappiamo come segmentarli, in base a quali variabili, sappiamo quanti libri leggono, quali generi amano, quale è il canale che preferiscono, quanto spendono. Indagando tra le pieghe della statistica ufficiale non è facile intercettare il cambiamento delle pratiche di lettura alla luce delle trasformazioni soprattutto tecnologiche in corso.

Sulla base di queste premesse l’articolo presenta il progetto di ricerca PERCE.READ (La percezione della lettura in Italia nel contesto del social reading), finalizzato a studiare il ”contesto” in cui avviene la lettura oggi, farne emergere le ”connessioni” con altre pratiche, in definitiva ridefinirne il ”significato”, soprattutto alla luce delle trasformazioni tecnologiche in corso. Le grandi masse di dati presenti sul web (big data), lasciate più o meno volontariamente dai lettori, sono il ”mezzo” utilizzato per farlo.

La ricaduta auspicata: trasformare questi dati in informazioni utili agli attori della filiera del libro per individuare proposte creative e innovative capaci di rispondere in modo efficace alle sfide lanciate in maniera sempre più stringente dalla complessità del contesto in cui operano, soprattutto sul fronte della promozione della lettura.

English abstract

This paper is about reading, considered as «what happens when we read». Different aspects are related to this «to happen when»: the underlying motivations, its mode and its timing, what we read and how satisfied we are and finally its sociability.

These dimensions define the present meaning of reading: they are not only the background of reading, they are not something external, they are the reading experience.

Research in this field in Italy tends to focus on quantitative aspects of behaviour and choice of readers: we know how to segment them, the principal variables, we know how many books they read, what genres they love, which is the channel they prefer and how much they spend.

If we try to investigate into the folds of official statistics, it is not easy to pick up the change of the reading practices in the contest of technological transformations.

On these premises, this paper presents PERCE.READ (Perception Reading in Italy in the contest of social reading), a research project aimed at studying the ”context” in which the reading takes place today, brings out the ”connections” with other practices. All this is useful for redefining the meaning of reading.

The great quantity of data on the web (big data), left more or less voluntarily by the readers, are the means used for these analyses. The awaited impact is to turn big data into useful information for the publishing industry. This sector could acquire creative and innovative proposals capable to responding effectively to the challenges of the context in which it operates, especially in terms of reading promotion.

Diritto dei diritti e politica della lettura

Il tema dei diritti in biblioteca – oggetto qualche anno fa di uno degli annuali convegni alle Stelline organiz­zati da «Biblioteche oggi» – merita una continua rivi­sitazione, sia per la sua centralità, sia per la necessità di aggiornamento dovuta alle trasformazioni della bi­blioteca pubblica e del contesto in cui essa si trova ad operare. In questo articolo l’aggiornamento riguar­da solo uno spicchio della problematica, anche se di grande importanza: il tema dei diritti degli utenti e dei lettori, il rapporto tra questi, i processi di “andata e ritorno” tra l’una e l’altra dimensione.

C’era una volta – infatti – la biblioteca degli utenti, via via liberatasi dal bozzolo di un’antica e resistente con­cezione del servizio pubblico come elargizione e libe­ralità del sovrano. A questa visione dall’alto al basso, diffusa per secoli e decenni in tutta la sfera pubblica, si è spesso aggiunta e sovrapposta l’idea di una eredità culturale da difendere e conservare, e, nella sua ver­sione più “democratica” (o populista ante litteram), da “portare al popolo”. La biblioteca che rovesciò il tavolo “mettendosi dalla parte degli utenti”, affermandone a gran voce la centralità, era una biblioteca che cerca­va con coraggio di liberarsi da questo doppio retag­gio, ma nello stesso tempo ne subiva ancora il peso, il fascino e i contraccolpi. Il dibattito terminologico su come definire le persone che utilizzano il servizio (utenti, clienti, lettori, cittadini, membri della comunità o, semplicemente, appunto, persone, pubblico, people), non aveva nulla di nominalistico, ma rappresen­tava un momento della transizione e dello scontro in atto. La visione che per un certo periodo ne uscì vitto­riosa e navigò utilizzando il vento in poppa della mo­dernizzazione, del mercato e del neoliberismo (anche se, ovviamente, non può essere ridotta a questa sola dimensione politico-culturale), fu quella che sostituì la parola utente con cliente e sottopose il mondo della biblioteconomia a robuste, e in molti casi opportune, iniezioni di marketing, scienza dell’organizzazione e management. Non intendo però qui ripercorrere, nep­pure in compendio, la storia della biblioteca e delle sue concezioni in quel lungo periodo storico che un giorno forse sarà definito come la fase globale e finale della public library. Voglio rappresentarne solo un piccolo segmento e collocarlo sul piano della tematica e della rivendicazione dei diritti: per vedere se e come dalla dimensione degli utenti e dei clienti a un certo punto si sviluppò quella dei lettori, affermando, fuori e dentro la biblioteca, una serie di diritti, e poi, complici i mu­tamenti della biblioteca e della società, essa confluì in un mare più vasto che qualcuno interpretò come un ritorno alle origini. Non è questa la mia convinzione, ma l’ipotesi non può essere sottaciuta se non altro perché corrisponde a una sensazione abbastanza diffusa: i bibliotecari di medio e lungo corso ricorderanno infatti l’iniziale cambiamento e restringimento di prospettive che comportò il passaggio da una biblioteca “poliva­lente”, quale fu quella degli anni ’70 del secolo scorso, a una biblioteca centrata sull’informazione e la lettura, quale fu quella degli anni ’80 e ’90. Il passaggio attraverso lo “stretto necessario” fu la condizione per il rilancio e il radicamento delle istituzioni di pubblica lettura in Italia: senza quel restringimento non sarebbe stata possibile, per esempio, nessuna biblioteca fuori di sé, e, oggi, nessuna “piazza del sapere”. Ma que­sto ultimo e quasi improvviso slargo a molti di quegli stagionati bibliotecari ha dato l’impressione – sbagliando – di un ritorno ai tempi in cui alla sera o nelle giornate festive si spostavano in un angolo gli scaffali (e spesso non ci voleva molto tempo, vista la scarsa consistenza delle collezioni in certe biblioteche neona­te), si sgombravano i tavoli e si aprivano le danze. In realtà l’alternanza di strettoie e di slarghi è connaturata ai processi storici e conoscitivi, al loro andamento per corsi e ricorsi, ma sarebbe sbagliato pensare che ciò che si ripresenta uguale lo sia poi effettivamente.

Quel che occorre ribadire con forza, parlando di diritti, è che essi sottendono e sostengono (anche quando lo omettono) un discorso di politica della lettura, un discorso oggi sempre più trascurato e sempre più in­dispensabile. Un certo tipo di utilizzazione retorica del tema dei diritti, come vedremo, rischia di essere perfi­no sostituivo di una seria e rinnovata politica della let­tura. Quest’ultima implica il passaggio dalla dimensio­ne d’uso (dei documenti, della biblioteca, della lettura), che può essere oggetto di un “semplice” approccio sociologico, allo scambio e al conflitto di potere che si instaura quando si mettono concretamente in campo gli interessi degli utenti o dei lettori. Dietro la questione dei diritti quindi o c’è una questione di politica della lettura – cioè l’apertura di canali di comunicazione tra società e lettura, la possibilità per la lettura di incidere sui processi di negoziazione e di scontro sul terreno eco­nomico, materiale e simbolico – o non c’è (quasi) nulla. Da tempo, da troppo tempo, l’idea di politica della let­tura ha subito la curvatura, discendente fino alla rotta­mazione, della politica tout court. Nella migliore delle ipotesi ha finito per coincidere con l’idea di governo e di governabilità delle istituzioni che si occupano della lettura, con una specie di disastrosa sineddoche in cui la parte è diventata il tutto ed il mezzo è diventato il fine. La politica della lettura deve recuperare innan­zitutto il proprio incipit descrittivo, radicato nell’anali­si delle pratiche di lettura e della loro politicità, come sostiene Michel de Certeau: «Una politica della lettura deve articolarsi su un’analisi che, descrivendo delle pratiche da lungo tempo effettive, le renda politicizzabili». Subito dopo, però, essa deve compiere un salto logico e metodologico, inserendo queste pratiche in un quadro di insieme, in un discorso, in una progettualità condivisa. La politicità della lettura sta in questo: attraverso di essa comportamenti basati sul rispetto e sul riconoscimento dell’altro, sulla nonvio­lenza, sull’empatia, sulla “reciprocità nonconsensuale” (ossia quella reciprocità che non è direttamente fina­lizzata al consenso), sulla “negoziazione delle differen­ze”, dimostrano la loro praticabilità e reclamano la loro estensione ad altri tipi di interazione e di rapporti tra gli uomini, tra gli uomini e le donne, tra umano e non umano. Uno snodo tipico di politica della lettura, che ha molta rilevanza anche per quanto riguarda i diritti, è il rapporto tra gli aspetti privati e quelli pubblici delle pratiche di lettura.

Un elemento di sfondo da tenere sempre presente è quello dei “diritti umani” in generale, entro cui ovvia­mente si iscrivono e assumono senso anche quelli di utenti e lettori. Nella storia dei diritti umani si possono ormai distinguere tre o quattro “generazioni” di diritti: la prima è quella della Dichiarazione universale del 1948, di tipo liberale e centrata sui diritti civili e politici; la seconda è di natura umanista e socialista, focalizzata sui diritti economico-sociali; la terza è di impostazione solidaristica e terzomondialista, che dà spazio anche a diritti di tipo culturale e ambientale; la quarta, infine, è quella che estende al ciberspazio e al governo globale dei processi del pianeta le conquiste delle prime tre generazioni di diritti. Alla base di questa evoluzione vi è anche il parziale accoglimento di alcune critiche rivolte all’europeismo, all’occidentalismo, allo specismo e al neutralismo di genere delle prime formula­zioni dei diritti umani. Per questo quando parliamo di diritti degli utenti o dei lettori, e quindi di politica della lettura, siamo contemporaneamente dentro e fuori da questo percorso. Proprio grazie all’azione corrosiva della lettura, al suo lavoro di scavo nel senso comune e contro i luoghi comuni, alla iniezione di relativismo culturale che essa porta con sé, si fa strada l’idea che destinatari dei diritti “umani” possano essere ad esem­pio anche animali non umani, che la nozione di diritti vada declinata oltre l’universalismo astratto delle nor­me, radicandola nei contesti di genere, spogliandola dei contenuti identitari e assolutistici. Che essa debba essere parte di un nuovo contratto sociale e culturale. Questo dovrebbe essere il compito di un “diritto dei di­ritti” che non voglia limitarsi all’enunciazione retorica di principi destinati a funzionare alternativamente come fari illuministici o specchietti per le allodole, come è successo a tanti documenti Unesco, Ifla ecc.

Vi sono degli elementi, in questa evoluzione che è an­che una “crisi” dei diritti umani, che coinvolgono pe­santemente proprio il tema di cui stiamo parlando. Per esempio, l’indebolimento delle autorità statali nazio­nali e/o sovranazionali, che avevano rappresentato il principale elemento di garanzia dell’universalismo dei diritti, si riflette anche nell’ambito bibliotecario, dove la dimensione dei diritti assume sempre di più una col­locazione intermedia tra (diritto) pubblico e privato, tra impostazione giuridica ed etica. La stessa gerarchia dei diritti, che resiste alla faccia della loro conclamata “indivisibilità”, ha finito per relegare nelle ultime posi­zioni proprio i diritti culturali, che non a caso sono stati definiti da Pontara “la cenerentola dei diritti umani”. Da un lato la tendenza ad allungare sempre di più la lista dei diritti, aggiungendone continuamente di nuovi, ha portato a una ulteriore difficoltà nella loro difesa, vi­sto che già quelli ritenuti essenziali sono abbondante­mente calpestati nel mondo. Dall’altro, proprio la crisi della indivisibilità e dell’unità tra i diversi diritti, sacrifi­candone molti di più di quelli che venivano aggiunti, ha comportato una perdita di legittimazione dell’insieme. Dunque parlare di diritti culturali vuol dire registrare e contrastare la subalternità in cui sono stati confinati e lo stato di sofferenza in cui versa il “diritto dei diritti umani”, con le sue fonti e i suoi strumenti di difesa giuridica e politica. La logica del primum vivere, che ha sempre confinato i diritti culturali nelle ultime po­sizioni, ha in realtà arrecato grandissimi danni proprio al diritto alla vita, di cui il diritto all’espressione e alla fruizione culturale è parte integrante e irrinunciabile. Una cornice di scetticismo – che non significa affatto spirito rinunciatario ma ostinata ricerca di nuove vie – circonda il richiamo, spesso solo verbale e formale, a questi diritti e li spinge a divenire, per converso, uno strumento di “critica del diritto”.

Diritti degli utenti

Lo stato di crisi “dolosa” e di sistematica dismissione si estende all’intera sfera dei diritti, non solo a quella dei diritti umani. In un’epoca di smantellamento dei diritti e del welfare – due fenomeni non esattamente sovrap­ponibili ma quasi sempre convergenti – la critica deve essere quindi un’operazione ricostruttiva e innovativa nello stesso tempo. Ciò è particolarmente vero se pen­siamo ai diritti degli utenti nei servizi bibliotecari.

Partiamo dalla pietra miliare del Library Bill of Rights: adottato dall’organizzazione dei bibliotecari americani (ALA) nel 1939, ha conosciuto sei aggiornamenti, l’ul­timo nel 1996, e una galassia di provvedimenti inter­pretativi ed attuativi che hanno cercato di esplicitarne le connessioni e le conseguenze su molti aspetti del servizio bibliotecario. Si tratta di un testo estremamente conciso, articolato in sei proposizioni, quasi interamente centrato e costruito intorno all’idea di libertà intellettua­le; antico nelle fonti e contemporaneo negli esiti, ame­ricano e universale nello stesso tempo. Il fondamento etico è utilitaristico, ma non mancano le rivisitazioni o attualizzazioni di tipo contrattualistico o interpretazioni giusnaturalistiche e deontologiche.

Il fitto e secolare gomitolo di rivendicazioni e di battaglie bibliotecarie che prende le mosse dal Library Bill si svi­luppa intorno all’idea di un diritto individuale e inalienabile alla libertà di pensiero e di espressione di cui la biblio­teca deve essere garante. Nonostante le sue origini, e i tentativi di alcuni interpreti di operarne una lettura re­visionistica e riduzionistica, riconducendo il tratto incon­dizionato dei principi entro le più negoziabili maglie della “massimizzazione dell’utilità sociale”, la storia del diritto di libertà intellettuale mostra una dura contrapposizio­ne con ogni ragion di stato e ogni assolutismo religioso. Per questo provvedimenti come l’Usa Patriot Act sono inconciliabili con lo spirito e la lettera del Library Bill of Rights, malgrado i diversi aggiustamenti tentati.

L’elemento che qui ci interessa sottolineare e che sol­leva più di un interrogativo riguarda però il fatto che la rivendicazione di questo tipi di diritti e la denuncia del­la loro lesione hanno trovato in genere un’udienza più alta (peraltro sempre insufficiente) tra i bibliotecari che tra gli utenti delle biblioteche. Ciò non certo perché i primi siano più sensibili dei secondi: anzi, la storia del­le violazioni dimostra che i bibliotecari vi sono spesso coinvolti e gli utenti sono le vittime. Può aver inciso invece il fatto che la maggior parte dei conflitti relativi a queste problematiche si svolge spesso dietro le quin­te, all’insaputa degli utenti, salvo i casi più emblematici; inoltre l’azione censoria del potere si è da tempo per­fezionata facendosi “preventiva”, lavorando sui mec­canismi di precensura, postcensura e autocensura, di gran lunga più efficaci. L’autocensura dei bibliotecari, ad esempio, è molto più pericolosa, oggi, degli inter­venti di censura dall’alto, e lo si vede nel campo minato dei diritti degli utenti minorenni, degli adolescenti e dei bambini, in cui la tentazione di porre qualche argine al perentorio art. 5 del Library Bill (che non prevede alcuna possibilità di attenuazione o differenziazione dei diritti in base all’età) fa capolino molto spesso….

Il fatto che l’importanza dei temi legati alla libertà intel­lettuale sia poco percepita è già di per sé una lesione dei diritti degli utenti, perché affonda le sue radici nella scarsa trasparenza dei meccanismi di produzione e scelta dei libri, o nella zona d’ombra in cui i meccani­smi del mercato operano mimetizzandosi (ad esem­pio: classifiche, recensioni, campagne promozionali, costruzione dell’autorialità, mode culturali e passapa­rola). In genere il mercato non dovrebbe avere bisogno di atti censori espliciti: la necessità di ricorrervi deriva non solo da sopravvivenze arcaiche e premercantili, che pure nell’industria culturale ci sono, ma dalla for­te e autonoma componente politica sempre presente nelle dinamiche economiche e anche in quelle creative. Anche in campo bibliotecario emerge quindi un’in­sufficiente cultura dei diritti, che spesso si fa scudo o addirittura origina dal buon livello di relazioni esistente tra utenti e addetti ai lavori e dalla qualità percepita del servizio. A volte un’eccessiva attenzione a questi aspetti “contrattuali” appare agli utenti come una man­canza di rispetto al luogo e alla funzione, una caduta di stile, come se ci si concentrasse su dettagli secondari proprio dove e quando sono in gioco questioni cultu­rali assai importanti. Questa sottovalutazione è confer­mata indirettamente dal fatto che c’è più attenzione ai diritti degli utenti nelle piccole o medie biblioteche, in quelle locali, periferiche o specialistiche, dove l’aura di sacralità culturale è meno evidente, piuttosto che nelle grandi istituzioni bibliotecarie, pubbliche o private. Un altro elemento che rafforza questo quadro è l’insuffi­ciente rapporto che lega l’elaborazione e l’applicazio­ne dei diritti allo studio della biblioteconomia e dell’u­tenza. È come se i primi fossero o dovessero essere ancora immersi in una dimensione prescientifica. Gli studi sull’utenza, ad esempio, che si sono affermati, non solo in ambito bibliotecario, come un filone impor­tante per la valutazione e la progettazione dei prodotti e dei servizi, tengono scarsamente conto della rilevan­za del tema: ad esempio, manca spesso la consape­volezza del ruolo dell’utente come portatore di diritti, non solo di comportamenti, attese e desideri. La mo­dellazione di un servizio può diventare un’operazione puramente ingegneristica o addirittura manipolatoria se non tiene conto dei diritti e della partecipazione degli utenti. La prefigurazione dei diritti dovrebbe ri­guardare anche e soprattutto gli utenti potenziali e non solo quelli reali, anzi spesso è la mancanza di diritti reali che rende gli utenti potenziali. Ciò è evidente se consideriamo il concetto di interfaccia, che è fonda­mentale nel disegnare un servizio o un prodotto, e che deve essere basata non solo sulla centralità teorica dell’utenza ma sulla sua presenza ed esistenza fisica e corporea nella vita del servizio.

Alla cultura dei diritti in biblioteca nuoce anche, proba­bilmente, una troppo rigida simmetria tra diritti (degli utenti) e doveri (dei bibliotecari). Da questa corrispon­denza consegue una sostanziale riduzione del tema dei diritti a quello della deontologia. In realtà è la simme­tria ad essere riduttiva e riduzionistica. Intanto perché esistono doveri che non si radicano in corrispondenti diritti, come è stato spesso ricordato. Ma anche per l’inverso: esistono diritti senza doveri, sia per quanto ri­guarda uno stesso individuo (come nel caso di persone che non sono responsabili, non sono in grado di progettarsi, e non per questo smettono di avere dei diritti), sia per quanto riguarda il rapporto tra diversi individui. La tesi della correlazione di diritti e doveri implica una visione meccanicistica e mercantilistica della giustizia, un dare-avere diretto a negare la priorità ontologica dei diritti (esistono diritti anche se non c’è nessuno obbliga­to a farli rispettare). Ma lasciando perdere il piano della filosofia del diritto e dei diritti, vi è anche un interesse organizzativo nella tesi della corrispondenza dei diritti e doveri, fondato sulla esigenza di evitare la moltiplicazio­ne dei diritti e dei relativi conflitti. In questa prospettiva infatti un diritto che non individua il corrispettivo dovere di qualcuno di soddisfarlo (e gli dà i mezzi e la titolarità per farlo) non ha effetti o ricadute sulla gestione di un servizio. Possiamo anche stabilire il diritto di leggere in posizione orizzontale, ma se nessuno è tenuto a dotare la biblioteca di triclini e chaise long (se non sta scritto in qualche codice deontologico o missionario o mansiona­rio), si tratterà di un esercizio puramente declamatorio. Qui la correlazione tra diritti e doveri funziona come un rasoio di Occam in cui la tendenza a semplificare ridu­cendo è sempre in agguato, e si applica anche all’altro campo di decisioni pratiche che affollano la galassia dei diritti e che, di fatto, contraddicono la loro indivisibilità: quello già citato della gerarchia e della contrapposizio­ne tra diritti di alcuni e diritti di altri. È prioritario garantire il diritto alla privacy di lettura e consultazione o quello del maggior numero di utenti ad usufruire del servizio? Quello alla gratuità o quello alla sopravvivenza del servi­zio? Quello alla sicurezza (della navigazione) o alla liber­tà (del navigatore)? Si tratta di dilemmi etici (affrontati ad esempio da Riccardo Ridi nel suo libro già citato, oltre che da molti altri autori) ma anche di scontri tra diversi gruppi di utenti e di portatori di interesse.

Di fatto, dunque, la tesi della correlazione tra diritti e doveri, nella sua quasi truistica evidenza, rischia di es­sere uno degli strumenti stessi di neutralizzazione della cultura dei diritti. Ma non è l’unico. Occorre riconoscere anche autocriticamente che l’operazione di restaura­zione in atto si è spesso giovata delle lacune presenti nella stessa cultura dei diritti, oltre che dei limiti della te­oria giuridica e della debolezza dei soggetti interessati. Un primo elemento di criticità in questo senso è proprio rappresentato dalla duplice riduzione che spesso viene attuata: la riduzione dell’ambito dei diritti a quelli riguar­danti la libertà di espressione, operazione in qualche modo canonizzata proprio dal Library Bill, e la riduzio­ne del campo della libertà di espressione alla lotta con­tro la censura e la proibizione di libri. Nessuno nega la centralità di questa sfera di diritti (peraltro sempre più sfaccettata, come si è detto), e il merito della comunità bibliotecaria ad averla messa al centro della propria atti­vità professionale. E nemmeno il fatto che molti altri diritti si possano ricondurre a questa categoria madre. Ma vi sono diritti riguardanti la persona, i lavoratori, la privacy, l’accesso all’informazione, la partecipazione, la cittadi­nanza, i comportamenti, i consumi, la salute, la qualità dei servizi ecc., che rischiano di rimanere schiacciati nella monocultura della libertà di espressione. L’esempio più tipico riguarda i diritti dei lettori, che solo con una for­zatura possono essere interamente ricompresi nell’uni­verso del “primo emendamento”. Ma anche diritti molto più elementari e “pratici” degli utenti, che si presentano ultimi nella gerarchia dei diritti, rischiano la stessa sorte. Ad esempio, il diritto degli animali ad entrare in biblioteca (sotto la responsabilità dei loro accompagnatori), cioè a non rimanere legati a una panchina nella piazza antistante, e, per i proprietari, a non dover scegliere tra un’ora di lettura e un’ora di sofferenza per i propri animali. O quelli legati al silenzio e al correlativo uso responsabile di telefonini, mezzi di comunicazione ecc. O quelli (ap­parentemente contrari) ad avere degli spazi dove si può conversare, intrattenersi, consumare una bevanda. O alla mobilità sostenibile degli utenti della biblioteca e dei citta­dini che comporta la presenza di parcheggi sicuri per le biciclette. E così via.

L’introduzione delle “carte dei servizi” non ha cambiato di molto la situazione, nonostante le speranze inizialmente accese. Anzi, molto spesso, l’adozione di regolamenti fatti a macchina, in gran parte standardizzati dalle stesse leggi che li prevedono, quasi sempre scritti o copiati dai bibliotecari o dai responsabili senza alcuna consultazione o rapporto con l’utenza reale, ha funzionato come invo­lontario strumento di rimozione della problematica, ripe­tendo un po’ quella che fu la parabola delle commissioni di biblioteca degli anni ’70-’80, che erano nate (forse) per favorire la partecipazione sociale alla vita delle biblioteche e che hanno finito però per affossarla quasi definitiva­mente, sottraendo spazio ai diritti professionali dei biblio­tecari e mettendoli nelle mani di poteri partitici e potentati locali. La tematica della partecipazione alla vita della biblioteca è strettamente legata a quella dei diritti proprio perché se ne è quasi sempre disinteressata, negando la componente di empowerment, ossia di crescita di cono­scenze e di “padronanza” sulle proprie condizioni di vita, che ne rappresenta invece un elemento fondamentale e che richiede un approccio proattivo piuttosto che reattivo. Questa doppia debolezza è probabilmente alle ori­gini anche delle difficoltà nella costruzione di una politica di alleanze sociali che oggi incontrano le biblioteche.

Diritti dei lettori

Diritti degli utenti e diritti dei lettori, si è detto, non sono sovrapponibili ma sono concatenati, anche senza nessuna primogenitura e nessuna filiazione diretta tra gli uni e gli altri. Il principale pregiudizio da abbattere, infatti, riguarda una sorta di progressione declinante (se l’ossimoro lo consente) nel passaggio dai primi ai secondi, come se esso costituisse da una parte, certo, un approfondimento, e dall’altra, però, una per­dita di generalità, uno spostamento del focus verso una categoria particolare, privilegiata, forse protetta. In realtà è vero il contrario, in tutti e due i casi. I diritti dei lettori contengono delle universalità che illuminano anche quelli degli utenti, dei cittadini e delle persone; e quanto al fatto che i lettori non siano una specie protetta ma una minoranza assai discriminata e perse­guitata, non credo che richieda su queste pagine ulte­riori dimostrazioni. È singolare che la convinzione della parzialità del ruolo e dei diritti dei lettori serpeggi, a volte in modo subliminale, in istituzioni come le biblio­teche, che dovrebbero avere della lettura e dei lettori un’altra visione. Questa concezione si è abusivamen­te rafforzata con la attuale mutazione del ruolo delle biblioteche: se i lettori non avevano un gran diritto di cittadinanza nelle biblioteche di conservazione e nelle public libraries del secolo scorso, ancor meno sembrerebbero averne nelle “piazze del sapere” di oggi. Ma le cose non stanno affatto così, perché la piazza incorpora ed estende proprio il posizionamento e lo stile di vita del lettore, e si fonda su una concezione ampia, inclusiva e polivalente delle pratiche di lettura. Se i diritti degli utenti, almeno in ambito bibliotecario, soffrivano e soffrono di una sorta di riduzionismo e di appiattimento sul “primo emendamento”, quelli dei let­tori sembrano vittime della malattia opposta, ossia di una proliferazione indiscriminata e a volte pindarica, in cui ognuno aggiunge e toglie, a suo gradimento. Sarà che alla tavolozza dei diritti è stato applicato uno dei fondamentali diritti dei lettori, quello di saltare e spizzicare, fatto sta che spesso si fa fatica ad orientar­si nella mappa e qualche volta ad intendersi. Proverò quindi a indicare alcune macrocategorie in cui inqua­drarli, per poi soffermarmi su alcuni aspetti trasversali ad ogni classificazione.

Vi sono innanzitutto dei diritti generali, o “costituzio­nali”, nel senso che sono costitutivi dell’esistenza stessa del lettore, comunque la si voglia intendere. Il vero “primo emendamento” dei lettori è allora il dirit­to di leggere che viaggia sempre con il suo rovescio stampato in volta, il diritto di non leggere, come ha evidenziato Pennac. L’indivisibilità dei due diritti non riposa solo sulla fondamentale attitudine alla libertà che impronta l’atto di leggere (il che, detto tra pa­rentesi, lo rende alquanto refrattario ad ogni sorta di decalogo: anche per questo quelli di Pennac sono diritti imprescrittibili), ma sulla varietà e complessità dell’esperienza di lettura, che è ricca di latenze e di astensioni quanto di impegni e dipendenze. Leggere è sempre anche non leggere: non leggere qualcos’al­tro, non leggere in certi periodi, non leggere sotto obbligo o ricatto. Si vede subito come l’impianto giuridico scricchioli, essendo la tavolozza dei diritti del lettore basata sul principio di contraddizione più che su quello di non contraddizione.

Il diritto di leggere compare più o meno direttamente in tutte le varie carte, decaloghi e manifesti dei diritti del lettore che ultimamente si sono succeduti. Esso però ha una storia plurisecolare e indipendente dalle sue più recenti apparizioni e metamorfosi. È infatti alla base della storia e della fondazione delle biblioteche, delle public libraries in modo particolare, oltre che del­le battaglie per la scolarizzazione e l’alfabetizzazione. Oggi la sua ripresa avviene sotto un segno di continuità e rottura con questa tradizione. La riaffermazione del di­ritto di leggere serve soprattutto a mostrare la sostanziale disapplicazione di questo principio tanto celebrato quan­to irrealizzato e a giustificare la sua migrazione in una serie di “sottodiritti” molto più pratici e a volte più incisivi nella vita del lettore di oggi. Le grandi lotte dell’Ottocento e del Novecento hanno ottenuto rilevanti successi in fat­to di scolarizzazione e di alfabetizzazione (peraltro oggi in significativo arretramento anche nella parte cosiddetta avanzata del mondo), ma non sono riuscite a incidere più di tanto sulla capacità di comprendere e utilizzare i testi e sulla diffusione della lettura. Il diritto di leggere viene riproposto per mettere a nudo l’ipocrisia di una società che pontifica sulla lettura, ma non fa nulla per migliorare la vita dei lettori in carne e ossa, per favorirne la soprav­vivenza e la crescita. Per questo è nell’articolazione del diritto di leggere che si esercitano le varie carte del letto­re, mostrando come esso debba svilupparsi in concrete possibilità di approvvigionamento, nutrimento, sostegno alle biblioteche e ai loro bilanci sempre più risicati, gratu­ità dei servizi essenziali, facilitazioni fiscali, possesso dei libri e soprattutto nella cura degli spazi e dei tempi della lettura e delle relazioni tra lettori.

Nell’articolazione del diritto di leggere non è comunque la definizione di dettaglio, pur importante, che conta, quanto il rovesciamento dell’impostazione. Il diritto di leggere va situato e sottratto alla genericità assolutoria in cui viene imbalsamato. Situarlo vuol dire esaminare gli ambienti (casa e città, scuola e biblioteche) in cui do­vrebbe attecchire, le condizioni di riproduzione, le età della lettura ecc. Non va declinato soltanto come diritto ad imparare a leggere, ma a nutrire proporzionalmente e continuamente, per tutto l’arco della vita, in una sorta di lifelong reading, la propria fame di lettura (e ha fame, magari senza saperlo, anche e soprattutto chi si nutre di surrogati o di precotti). Vuol dire pensare al diritto dei lettori bambini come un diritto autonomo e non mediato dall’adulto. Il bambino, e ancor di più il bambino lettore, non è un adulto in miniatura cui somministrare, in dosi ridotte o adattate, le stesse ricette. Il diritto di leggere significa libertà di scegliere i contenuti i tempi e le posi­zioni di lettura, in particolare per i bambini che sono stati per lungo tempo costretti a leggere contenuti obbligati in posizioni e modalità per loro innaturali (seduti o in piedi nelle famigerate recite o esibizioni di lettura).

La seconda macrocategoria di diritti è rappresentata da quei diritti che potremmo definire di tipo “consumeristico” o “parasindacale”, quelli cioè che tutelano la qualità del prodotto e il posizionamento del lettore all’interno del mercato editoriale e della relazione con i servizi di pub­blica lettura e non solo. E qui c’è un primo paradosso: la definizione del lettore come consumatore è proprio quella adottata da una parte dell’editoria di consumo, l’editoria che pensa che i libri siano dei prodotti come tutti gli altri, da sottoporre alle stesse regole di promo­zione e di marketing. Nello stesso tempo il lettore è privo di molti diritti che agli altri “consumatori” sono pacificamente riconosciuti: il diritto di recesso, il di­ritto a difendersi dalla pubblicità ingannevole, il diritto alla trasparenza ecc. Verrebbe voglia di dire: ma se di prodotto si tratta, perché non dovrebbero valere le regole che valgono per i prodotti per esempio di tipo alimentare. E allora mettetegli un’etichetta, dichiarate gli ingredienti, i dati di fabbrica, i responsabili, com­presi quelli nascosti sottopagati e maltrattati, come i traduttori, i correttori, i grafici, oppure quelli circonfusi di leggenda come gli editor; dichiarate e garantite le condizioni di lavoro nella fabbrica del libro; fate che la copertina rispecchi il contenuto, i risvolti siano ve­ritieri, essenziali, fatti di notizie, come erano quelli dei Calvino, dei Debenedetti, dei Vittorini, non di bufale e bluff; fate che il prodotto sia merceologicamente cor­retto, privo di refusi, di furbizie, di inquinanti. Vi sono carte dei diritti – come lo Statuto dei diritti del lettore della Società Pannunzio, riguardante principalmen­te i giornali – che hanno messo al centro questa ri­vendicazione, riferendola per esempio alla frequente commistione tra informazione e pubblicità (occulta). In generale però, per quanto riguarda la fattura e la con­fezione del prodotto, regna la vaghezza: sono prodotti fatti a macchina, spesso seriali di nome e di fatto, che però hanno strumentalmente importato l’aura mistica dell’ineffabilità letteraria.

Il secondo paradosso riguarda invece i lettori che im­pugnano questa batteria di diritti: sono nel loro pieno “diritto di avere dei diritti”, naturalmente, perché il let­tore è un vero “portatore di interessi” (non solo eco­nomici) nei confronti della fabbrica del libro, e perché la lettura non avviene sotto vuoto pneumatico, ma in situazione e in movimento. Ma se di questo tema fan­no il centro dello scontro, sia pure in modo utilitaristi­co o propagandistico, questi lettori cadono anch’essi, volenti o nolenti, nella macchina e nella macchinazio- ne del consumo, magari a rovescio. Eccessi di natura contrattualistica o integralistica rischiano di nuocere al protagonismo e alla soggettività, oltre che alla liber­tà, del lettore. Occorrerà dunque navigare con una certa circospezione in questa costellazione di diritti, mettendola al servizio della ricerca di bibliodiversità e di un’editoria indipendente ed eco/equosolidale. Il rischio, infatti, è che si affermi l’automatismo che par­te dal processo contrario e definisce equosolidale ciò che si conforma a certe regole formali; un ISO 9000 della fabbrica del libro, insomma, che male magari non fa ma che è molto lontano dalla affermazione della centralità del lettore.

La terza e più importante categoria di diritti è infine quella di matrice letteraria. Riguarda tutti quei diritti che il lettore si è conquistato su quel campo di bat­taglia che è il testo, nel testo e per il testo. A diffe­renza degli altri, questi diritti vengono dopo la lotta, non prima: perché essi esistano, perché sia possibile concepirli, è necessario che il rapporto tra autore e lettore attraversi la scena primaria della lotta, quell’a­rena della lettura che Ricoeur ha descritto come il teatro di una sfida per il riconoscimento. Questa lotta può hegelianamente e baudelairianamente rovesciarsi in un patto di fraternità: solo quando lettore e autore si riconosceranno come simili, come fratelli, sia pure ipocriti, sarà possibile nominare questi diritti. I princi­pali dei quali sono segnati e attraversati dalla categoria della temporalità, che aveva già un ruolo importante, anche se di tipo diverso, nel caso degli utenti. Il fatto stesso che il decalogo di Pennac inizi con il diritto di non leggere (cioè con il rifiuto, il parricidio, la morte dell’autore) e termini, idealmente, con il diritto di ri­leggere o con il diritto al bovarismo testuale, mostra in forma semplificata, e qualche volta semplificatoria, questo percorso. Prendersi il tempo per leggere, lot­tare contro l’accelerazione universale, rivendicare la lettura lenta, creare zone temporalmente, e non solo temporaneamente, liberate (TAZ) grazie alla lettura, significa affermare che la lettura avviene nel tempo oltre che in uno spazio, è temporalmente segnata. Dove temporalmente è anche molto diverso da sto­ricamente, contiene un’affermazione ontologica, non è una semplice professione di materialismo storico. Sembrerebbe un’osservazione lapalissiana, di cui però non sono state ancora colte tutte le implicazioni. Per esempio, che la lettura è semplicemente tempo allo stato scritto, oppure scrittura allo stato temporale. Che il diritto alla ricreazione (dell’opera), all’uso (non al consumo) del testo, alla citazione, alla lettura condivisa, sono il risultato di un atto di signoria temporale, di presa di possesso (e la sfera del possesso, nel caso del libro, va tenuta distinta da quella della proprietà).

I diritti legati alla proprietà intellettuale infatti partono sì dal riconoscimento della inalienabile paternità dell’auto­re ma hanno bisogno del tempo, ossia del lavoro, ne­cessario per incontrarsi con il complementare diritto dei lettori alla fruizione, all’appropriazione debita del testo. Erroneamente, io credo, questi diritti a volte vengono rubricati tra quelli del secondo tipo (consumeristico, sindacale, editoriale). Essi riposano invece su uno strato più profondo di democrazia letteraria. Che è quella indi­cata da Spinazzola, con l’aggiunta di una più marcata distinzione tra l’ambito del “successo letterario” e quello della “ricreazione dell’opera” realizzata dal lettore, che si muove spesso fuori e contro i limiti del mercato. L’of­fensiva che oggi viene mossa sul terreno della proprietà intellettuale contro i diritti del lettore – di cui sono esem­pi significativi le politiche di accesso, di copyright, di prestito, con particolare riferimento al mondo del libro elettronico – rappresentano un tentativo di riprendere il comando della lettura, ricacciando il lettore nel ruolo epigonale e subalterno da cui vuole uscire.

Per la verità proprio lo scontro sulla proprietà intellet- tuale pone un problema di fondo, che riguarda tutta la logica dei diritti, e che è già apparso precedentemente in filigrana: lo riprendo ora così come farò in conclusio­ne dell’articolo perché è il filo che lo imbastisce. Ogni rivendicazione di diritti è soggetta a un’ipoteca, se non a un’accusa, storica e politica, che riguarda la sua convivenza, o la sua connivenza, con un sistema di compatibilità che viene assunto come emendabile, ma non radicalmente modificabile, almeno nel breve pe­riodo. La richiesta di diritti sarebbe così la foglia di fico che rende più accettabile la distribuzione diseguale di risorse e di sapere contrapponendosi quindi ai pro­cessi di trasformazione e controllo del potere. In realtà io non credo a questa tesi, che mi sembra molto mani­chea, anche se la prendo sul serio. Preferisco pensare a una dialettica, uno slittamento di poteri e micropoteri che viene messo in atto proprio dalla rivendicazione e dalla conquista, sempre asintotica, di diritti vecchi e nuovi. Ma un punto di verità sicuramente esiste in questa obiezione, e riguarda il fatto che i diritti, elargiti o anche (ri)conquistati, non sono sufficienti, da soli, a delineare una ridefinizione della soggettività e del ruolo del lettore. Non c’è la possibilità in queste righe di svi­luppare questa tematica ma forse essa diventerà più intellegibile situandola nell’ambito della lettura digitale.

Diritti dei lettori digitali

La mutazione digitale ha immediatamente investito con la sua onda d’urto anche il campo dei diritti dei lettori. La prima conseguenza è stata una riscrittura e un adeguamento della mappa dei diritti al nuovo ter­ritorio. Sono nate, soprattutto all’estero, nuove carte e dichiarazioni sugli specifici diritti dei lettori digitali. Le enunciazioni dei diritti dei lettori digitali abbandona­no definitivamente il campo dei principi generali, dan­doli evidentemente per scontati, e si propongono piuttosto di tradurli o verificarli nel nuovo contesto. Questo approccio, che un po’ ripercorre il cammino “mimetico” che ha caratterizzato la prima evoluzione o rivoluzione dell’ebook, ha evidentemente dei lati positivi e nega­tivi. Da un lato esso intende mostrare e dimostrare che, se ci sono delle possibilità o delle conquiste del lettore tradizionale che sono precluse al lettore digi­tale, ciò dipende, più che da un’impossibilità tecnica, da scelte di produzione e distribuzione, da indirizzi e strategie della fabbrica del libro, della cultura e della società. Dall’altro esso rischia però di perdere di vi­sta proprio le specificità e le potenzialità del mezzo e di assegnare alla rivendicazione dei diritti una fun­zione difensiva, di resistenza al cambiamento. Così per esempio Rebeca García ponendo tra i diritti del lettore digitale quello di “non dipendere da una presa di corrente”, di prestare/regalare il libro, o di leggerlo sulla spiaggia, o il diritto “all’attesa”, alla “perdita di tempo”, alla scelta delle proprie letture in una biblio­teca o in una libreria previo assaggio e degustazione (capovolgendo così in un limite quello che è ritenuto uno dei grandi vantaggi della lettura digitale, ossia la possibilità di avere tutti i libri del mondo a un clic di distanza), mostra di aver preso anche non volendo questa direzione. Che non è molto diversa da quella nostalgica ed elegiaca di un Birkert o perfino di un Richard Stallman, quando nel suo apologo disto­pico del 2003, intitolato appunto Il diritto di legge­re, immagina un mondo in cui non sarà più possibile condividere una lettura con chicchessia, o leggere senza “pagare imposte alle biblioteche statali”.

Che siano impugnati in chiave nostalgica non toglie che questi diritti siano comunque vitali per la esistenza e sopravvivenza del lettore digitale: non si vede infatti perché l’avvento di un medium così ricco di potenzialità, come è quello elettronico, debba essere utilizzato per comprimere piuttosto che per ampliare e sviluppare la sfera dei diritti e delle libertà. Men­tre una serie di standard mimetici piano piano (molto piano) vengono assicurati dai produttori di hardware e software di lettura digitale, su altri ci si scontra con un muro apparentemente inspiegabile di sottovaluta­zione e disinteresse. L’avvicinamento dell’ebook alla comodità e maneggevolezza del libro cartaceo, in fatto di peso, misure, prensilità, leggibilità; la maggior durata della carica e dunque della sua autonomia; la sua futura resistenza all’acqua, alla polvere e alla sabbia, come gli smartphone di ultima generazione, testimoniano che su questo terreno non dovrebbero esserci grosse difficoltà a raggiungere e superare le prestazioni del libro stampato. Diverso rimane invece il discorso per quel che riguarda le interfacce di let­tura, la proprietà intellettuale e il possesso dei conte­nuti. Basti pensare alla insufficiente possibilità di sottolineare, annotare, manipolare un testo elettronico rispetto a quanto facciamo su carta. Non si tratta di un limite della tecnologia, perché attraverso le pen­ne elettroniche sono possibili sofisticate alternanze di tratto, colore, spessore, pressione, ma di due er­rate e presuntuose presunzioni, spesso fatte proprie da operatori del mercato e della cultura: che l’enfasi sulla amichevolezza, flessibilità, personalizzazione, disegnabilità e mobilità delle interfacce di lettura sia un capriccio di quegli esseri “sporchi gobbi” e viziati che sono i lettori; e che, attraverso questo machia­vello, si voglia o si rischi di bucare le fortezze proprie- tarie e di mettere in crisi la stessa fabbrica del libro. Ha ragione quindi Stallman a indicare nello scontro sulla proprietà intellettuale il contenuto dirimente del diritto di leggere oggi e nell’immediato futuro. Purché sia chiaro che non si tratta di un destino ineluttabile, ma di un uso che viene fatto della tecnologia, piegan­dola a interessi di parte. Proprio quando l’ambiente digitale consentirebbe di superare i limiti della scarsi­tà materiale, permettendo a più persone di usufruire nello stesso momento degli stessi contenuti senza danneggiare i diritti di ciascuno, i detentori dei mezzi di distribuzione e di produzione, ledendo gli interessi dei creatori anche quando ostentano di agire in loro nome, cercano di far tornare indietro la macchina del libro al tempo precedente l’avvento della sua riprodu­cibilità tecnica: oggi è quasi sempre impossibile pre­stare o regalare legittimamente un libro elettronico, anche adattandosi al paradigma analogico del one copy - one user. Tutto quello che ha comportato l’avvento del digitale in questo campo è la preventiva rinuncia a dei diritti acquisiti, grazie al nostro consen­so disinformato ed espresso con opportune crocette su clausole illeggibili, senza le quali non potremo ac­cedere a un documento, a una notizia o a un sito. L’ingresso del grande fratello digitale nei comporta­menti di lettura genera un vero e proprio campo mina­to per la questione dei diritti. Il tentativo di controllo, sempre più stretto, si realizza attraverso una mano­vra a tenaglia: sul fronte della proprietà intellettuale il detentore dei diritti ha la possibilità di penetrare, come è successo, nell’archivio del singolo ebook per rimuovere opere che, a suo avviso, sono pos­sedute illegalmente; e sul fronte della comunicazio­ne, grazie anche alla condivisione sui social network dei commenti, dei gradimenti o del semplice stato di avanzamento di una lettura, si sviluppa un rumo­re mediatico di fondo e si verificano presenze sem­pre più invasive di “spettatori”, spesso muti (lurkers), sulla scena privata della lettura. In entrambi i casi si verificano evidenti lesioni della privacy del lettore. Il possesso è un elemento centrale nella relazione con il libro, come si è visto: è un concetto molto diverso da quello di proprietà e non scompare affatto, come alcuni ritengono e sostengono, con la “dematerializ­zazione” dei processi di acquisto e di lettura. Acqui­stando la licenza di un ebook, il lettore non possiede effettivamente l’opera: di qui la sensazione di alea- torietà, lo scarso investimento economico e affettivo che il lettore è indotto a fare sulla propria bibliote­ca digitale. Che potrebbe infatti sparire da un giorno all’altro, non tanto perché “immateriale”, ma perché legata alle scelte e alle bizze di chi possiede la “nube” o cloud, cioè i materialissimi circuiti di silicio dove i libri e le nostre informazioni personali sono immagazzinati. E questo riguarda anche, come noto, le collezioni digi­tali delle biblioteche.

Paradossalmente è come se il regime di prestito, anzi di noleggio, formalmente negato come possibilità e diritto se esercitato dal lettore, avesse assorbito quel­lo di acquisto quando imposto come modalità contrattuale. E qui si verifica un’ulteriore deminutio che avevamo già visto all’opera nel campo della lettura su carta: il lettore digitale non gode nemmeno dei diritti del generico acquirente digitale, non può esercitare il diritto di recesso, non può controllare l’utilizzo che viene fatto dei dati riguardanti lo stato delle proprie letture ecc. Ecco perché Mike Cane ha compilato una lista dei diritti degli acquirenti di ebook, tra cui figurano il diritto a una copertina “eguale all’edizione stampata” (perché spesso le edizioni digitali sono più sciatte e meno curate di quelle cartacee), il diritto a un indice (o meglio a una tabella dei contenuti – TOC –, dotata di link cliccabili alle pagine indicate; anche questo non è scontato, come dovrebbe essere in ogni edizione digitale che si rispetti), il diritto a sot­tolineare e copiare paragrafi del testo, a non essere assaltati da soffietti e promozioni pubblicitarie («il libro è già stato acquistato», infatti, dice Cane). E Javier Celaya nel suo dodecalogo aggiunge: il diritto al possesso inalienabile degli ebook acquistati, all’opzione di un acquisto “perpetuo” in caso di licenza, abbonamento o streaming, il controllo (e la possibilità di conservazione) dei libri archiviati “in the cloud”, la possibilità di cancel­lare la propria “storia” di lettura, la garanzia di porta­bilità della propria biblioteca digitale in caso di cambio di piattaforma, device o store, il diritto ad “esportare la propria esperienza di lettura”, l’interoperabilità tra i di­versi formati ecc. Significativamente Lorenzo Soccavo, che non è affatto un nostalgico dei tempi cartacei, ma uno dei più aggiornati studiosi delle mutazioni della let­tura, comprende nei suoi quattordici “diritti dei lettori del XXI secolo” anche il diritto a una biblioteca “fisica”, a una mediazione “umana”, alla bibliodiversità. La riven­dicazione della fisicità della lettura e delle biblioteche, la esigenza di un umanesimo tecnologico o di un po­stumanesimo critico, sono dunque parte importante e integrante della mutazione digitale, che sempre di più va letta non come un avvento palingenetico e ineluttabile ma come un insieme di punti di rottura e continuità.

Questa lista di “diritti digitali” potrebbe continuare molto a lungo e per un suo sviluppo e approfondimento riman­do ai vari manifesti e documenti che li propongono. Ma il punto che merita di essere accennato, in chiusura, è proprio questo: quanto e come è possibile superare la connotazione difensiva, comparativa e mimetica di que­sti diritti, per approdare a una concezione che sia più adeguata al formidabile intreccio di antico e moderno che caratterizza le pratiche di lettura dell’ebook? Vi è infatti una serie di diritti totalmente inediti che nascono dall’esperienza di lettura digitale, e anche quelli più tradi­zionali si ripropongono in termini assai differenti da come avveniva nel contesto cartaceo. Un esempio tipico (sia del primo che del secondo caso) riguarda la mappatu­ra, l’ambientazione, la libertà di movimento e di orienta­mento del lettore. Una delle maggiori difficoltà di lettura dell’ebook è infatti quella legata alla liquidità del testo e allo sfondamento dei confini legati alla paginazione e alla piega del libro stampato. Il lettore ha bisogno di stru­menti di marcatura che l’editoria digitale e il software di lettura hanno sin qui colpevolmente trascurato. Si tratta di strumenti in parte iscritti nel testo (indice cliccabile, link ipertestuali interni, possibilità di aprire finestre, an­coraggi, barra di scorrimento basata sia sul tempo di lettura che sulla collocazione nello spazio fisico proietta­to dall’ambiente virtuale ecc.) e in parte creati dal lettore (segni, segnalibri, sottolineature, annotazioni, commenti ecc.). Quindi sia di strumenti antichi che nuovi, anzi per la verità di strumenti antichi come le maniculae medievali rivisitati in termini completamente nuovi. Di fronte ai comprensibili turbamenti legati alla reimpaginazione di­namica dei testi, la rivendicazione è prima di tutto quella di un diritto alla libertà di scelta del lettore, alla sua so­vranità, alla sua facoltà di determinare qual è il punto di equilibrio, il compromesso sostenibile tra mobilità del testo e movimento della lettura, tra scorrimento ed an­coraggio, tra mimetismo e innovazione.

Sulla lettura digitale si ripercuote, a volte traumati­camente, una contraddizione che è tipica di tutto il mondo digitale, potremmo dire di tutto il periodo tar­do moderno: quella tra tendenza all’anonimato (nella sfera delle relazioni) e universale tracciabilità (nella sfe­ra del controllo). Questa situazione ibrida caratterizza sempre di più la società ubiquitaria in cui viviamo e il lettore tende a reclamare come diritti le scelte di personalizzazione, profilazione, ubiquità dei propri dati sensibili – e che cosa c’è di più sensibile della lettura… – che rischiano contemporaneamente di ledere il suo diritto alla privacy. Vorrà trovare nella sua biblioteca (e in ogni biblioteca in cui sceglie di andare) la sua lista di letture, di sottolineature, la sua manicula personale che finalmente non limita e non danneggia le maniculae e le sottolineature altrui. Una carta dei diritti dei lettori del XXI secolo non può, almeno per ora, che registrare questa oscillazione, cogliendone certo le possibili con­ciliazioni, ma soprattutto mettendo e rimettendo nelle mani del lettore il diritto e la responsabilità della scelta. Sarà dunque il lettore a dovere e poter stabilire a che punto posizionare l’asticella delle proprie comodità e dei propri interessi di lettura, una volta salvaguarda­te le esigenze e i diritti altrui. Paradossalmente – ma questa volta non più in senso negativo – il supremo dei diritti è quello di rinunciarne, liberamente, a qualcuno. E sul fatto che questo ultimo e definitivo diritto, sempre revocabile, spetti al lettore, al singolo lettore in scienza e coscienza, non ci sono dubbi, almeno a parere di chi scrive. Con questo forse rispondendo all’interrogativo posto alla fine del precedente paragrafo. Perché il di­ritto di rinunciare a un diritto (come un atto di grazia, in un certo senso) è l’espressione piena del potere e della sovranità. Lettori e lettrici sovrani, dunque, anche questa volta. Del resto nella lunga e non conclusa storia del libro, sono stati i lettori a fissare e trasgredire i confini, imponendo a editori ed autori certe conqui­ste, certe consuetudini, certe gentilezze; piegando le tecniche al proprio piacere, talvolta mutandone il se­gno e il senso; vincendo il conservatorismo degli ope­ratori, dei mercanti e dei legislatori. Caparbiamente i lettori hanno scritto la loro storia nei margini e nelle pieghe della storia del libro: sapendo che è qui che, in definitiva, si gioca la partita.