N.2 2015 - Le forme della lettura

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Leggere i passaggi: appunti per una teoria della lettura

Elena Ranfa

Dipartimento di Lettere-Lingue, Letterature e Civiltà antiche e moderne, Università degli Studi di Perugia; elena.ranfa@gmail.com

Abstract

La complessità dell’attività del leggere, i mutamenti delle forme di lettura nel tempo e i molteplici passaggi che hanno caratterizzato la storia della lettura, hanno stimolato, a partire dal secolo scorso, una serie di riflessioni che muovono da diverse prospettive.

Il primo contributo preso in esame sarà quello dato da due discipline fortemente interconnesse tra di loro quali la sociologia e la massmediologia. In particolare saranno prese in considerazione le tesi e le opere degli studiosi appartenenti alla così detta Scuola di Toronto, un eterogeneo gruppo di intellettuali che nella seconda metà del secolo scorso diede il via allo studio dei rapporti tra evoluzione delle tecnologie della parola e cambiamenti cognitivi e socioculturali. Le basi di partenza di questi autori possono essere riassunte in un approccio allo studio dei media fortemente interdisciplinare ma soprattutto in una chiara tendenza a considerare la tecnologia, e in particolare la tecnologia della comunicazione, come una variabile indipendente nello studio dei processi di mutamento sociale.

La seconda prospettiva, grazie alla quale si tenterà di delineare un quadro teorico sulle diverse forme di lettura, è quella delle neuroscienze, o scienze cognitive, e di tutti gli studi che fanno riferimento alla formazione (education).

Da una parte il contributo di Maryanne Wolf e dall’altra quello di Gunther Kress ci forniranno strumenti indispensabili per lo studio della lettura – delle sue forme e dei suoi meccanismi – che, mettendo in moto una vasta gamma di strategie e implicando l’articolazione di svariate operazioni metacognitive, viene analizzata come una delle conquiste più faticose ma anche più preziose per l’umanità, proprio perché ha innescato in essa un’infinita serie di cambiamenti.

English abstract

During the 20th Century, there have been many studies about reading from different perspectives.

This paper will first examine the unique contribution made by two correlated areas of study: sociology and mass communication research. It will specifically consider theories and works developed within the so-called Toronto School, a diverse group of scholars who, in the second half of the 20th Century, started to explore connections between the evolving technologies of the speech and cognitive, cultural and social changes. The basis for their work was essentially provided by an interdisciplinary approach to the study of Media and, most of all, by a pronounced tendency to view technology, especially communication technology, as an independent variable to study social changes.

An attempt to establish a theoretical framework concerning reading in all its forms will furthermore made by adopting a perspective based on neuroscience and education studies.

Contributions made by Maryanne Wolf on the one hand and Gunther Kress on the other one will be of paramount importance to study reading, as well as its forms and mechanisms.

I molteplici passaggi che hanno caratterizzato la storia della lettura e i mutamenti delle forme di lettura nel tempo hanno catturato, almeno a partire dallo scorso secolo, l’attenzione di studiosi e intellettuali che, pur muovendo da ambiti diversi del sapere, hanno osservato la lettura come un processo complesso, in continua evoluzione e per questo determinante per la storia dell’umanità, perché capace di innescare in essa un’infinita serie di cambiamenti.

Cambiamenti, momenti di transizione che il lettore da sempre si trova a vivere – forse oggi mai come in passato – e nei quali pratiche e strumenti che sembrano consolidati e addirittura immutabili subiscono trasformazioni profonde, vere e proprie “rivoluzioni” che condizionano, in maniera più o meno consapevole, la sua vita.

Nel tentare di delineare un quadro delle teorie sulla lettura e meglio contestualizzare l’approfondimento proposto di seguito, sono stati presi in considerazione diversi contributi tra i quali, in primo luogo, tutti quegli studi che pongono come oggetto della loro indagine i ruoli del lettore e della lettura nei processi interpretativi di un’opera, ovvero le teorie della ricezione. In particolare: la Scuola di Costanza con Hans Robert Jauss che, secondo un approccio storico-ermeneutico, introduce il concetto di “orizzonte d’attesa” e Wolfgang Iser che parla di una teoria della risposta estetica, fondata sull’estetica fenomenologica, formulando la nozione di “lettore implicito”; Stanley Fish che introduce i concetti di “lettore informato” e di comunità interpretative; il filone soggettivista di David Bleich e Norman Holland che hanno considerato la risposta del lettore non come guidata dal testo, ma piuttosto motivata da bisogni profondi, personali, psicologici; Umberto Eco e la teoria di “lettore modello”, ovvero di quel lettore che si prefigura l’autore al momento della sua creazione letteraria, coniato in Lector in fabula. Fondamentale inoltre il contributo dei teorici della critica letteraria quali Roland Barthes e Antoine Compagnon che, nella voce Lettura dell’Enciclopedia Einaudi, analizzano la natura pragmatica del leggere come atto linguistico. Infine ulteriore supporto è quello dato dalle diverse storie della lettura: dall’approccio prettamente scientifico della Storia della lettura nel mondo occidentale, a cura di Guglielmo Cavallo e Roger Chartier, alla originale ricostruzione di Robert Darnton che ne Il bacio di Lamourette dedica un capitolo ai Primi passi verso una storia della lettura, fino ad arrivare a Una storia della lettura, nella quale Alberto Manguel non rinuncia, accanto a continue citazioni autobiografiche, a un incedere non lineare fatto di riferimenti eruditi.

Alla luce di questo eterogeneo e comunque parziale quadro teorico, saranno presi in esame due contributi, che da prospettive disciplinari diverse, ma per alcuni aspetti affini, analizzano la “lettura” come frutto di un processo neurologico messo in atto da un individuo, ma allo stesso tempo plasmato e fatto crescere nella complessa rete di relazioni di natura sociale, economica, comunicativa e tecnologica che caratterizzano la società umana.

Il primo contributo è quello dato dalla sociologia e la massmediologia, con particolare riferimento alla Scuola di Toronto, i cui studiosi furono tra i primi a individuare e analizzare la stretta connessione esistente tra l’evoluzione della civiltà umana e quella degli strumenti del comunicare.

Spesso accusata di un eccessivo determinismo tecnologico (in quanto legge in maniera troppo rigida e automatica la relazione tra il mutamento sociale e culturale e i modelli nei quali si esprime la tecnologia nelle diverse società), alla Scuola di Toronto va riconosciuto il merito non solo di aver aperto il confronto su tematiche fortemente attuali come il ruolo dei mezzi di comunicazione nella società, ma anche di aver esercitato un’influenza (non sempre riconosciuta in maniera esplicita) in filoni di studi che, da punti di vista differenti, hanno posto al centro della loro riflessione i media e l’impatto che esercitano sull’uomo.

Tra questi studi l’attenzione si è concentrata sulle neuroscienze e sulle scienze dell’educazione, analizzando i contributi di Maryanne Wolf e Gunther Kress. I due autori nelle opere prese in esame fanno riferimento in modo esplicito al pensiero e agli studi di Walter Jackson Ong (uno dei più autorevoli rappresentanti della Scuola di Toronto) e, attraverso l’analisi della mente e dei comportamenti dell’uomo nel rapporto con i media (in particolare nel processo di lettura), traghettano il dibattito teorico degli studiosi dell’Università canadese nel campo della ricerca scientifica in senso stretto, dimostrando come qualsiasi attività cognitiva e di apprendimento sia fortemente condizionata (anche a livello fisiologico) dai mutamenti di carattere sociale e culturale che l’individuo si trova a vivere.

Da una parte quindi la sociologia e la massmediologia e dall’altra le neuroscienze, o scienze cognitive, e gli studi che fanno riferimento alla formazione (education) ci forniranno uno strumento per analizzare le forme e i meccanismi di lettura nei momenti di passaggio (dall’oralità alla scrittura, dal manoscritto al testo a stampa fino ad arrivare al testo elettronico), dimostrando come, con l’imporsi di una nuova tecnologia, di un nuovo supporto, le pratiche e le modalità di lettura non mutino repentinamente: il lettore compie un percorso per impadronirsi delle innovazioni postegli di fronte e ne rielabora i significati funzionalmente alle proprie necessità.

Il “lettore” si fa mediatore di questi passaggi e nella sua capacità di avvertire il cambiamento e di sfruttare la carica innovativa che questo comporta risiede il successo di un nuovo medium, e allo stesso tempo il coesistere di forme del passato.

La lettura tra sociologia e massmediologia

Punto di partenza per lo studio e l’analisi di questi momenti di transizione, “passaggi”, è stato l’approfondimento delle teorie e delle intuizioni degli intellettuali appartenenti alla cosiddetta Scuola di Toronto. Le basi dalle quali muovono questi autori possono essere riassunte in un approccio allo studio dei media fortemente interdisciplinare ma soprattutto in una chiara tendenza a considerare la tecnologia, e in particolare la tecnologia della comunicazione, come una variabile indipendente nello studio dei processi di mutamento sociale.

Una nuova considerazione dei media quindi, che vede nella tecnologia il motore del mutamento, una forza che può determinare la direzione della società. Ogni tecnologia porta con sé una tendenza alla conservazione del sapere, tanto che qualsiasi media, dal papiro alle moderne tecnologie, si è sempre evoluto in una sorta di passaggio conservativo: il nuovo media inglobava quello precedente e le informazioni in esso contenute. Si sono verificate così delle vere e proprie mutazioni antropologiche; i media stessi vengono considerati come una sorta di estensione dell’uomo (la scrittura, estensione della memoria; il telefono, estensione di voce e udito) ma anche come una vera e propria estensione di consapevolezza.

La Scuola di Toronto tende in sintesi a disinteressarsi al contenuto dei media, preferendo lo studio del medium vero e proprio, poiché il contenuto del medium è pur sempre un altro medium: il contenuto della scrittura è il discorso, così come la parola scritta è contenuta nella stampa, e questo punto di vista ne fa un punto di partenza interessante per analizzare una storia della lettura, che inevitabilmente è anche storia delle forme e dei supporti.

 

Oralità e lettura. Le “trasformazioni della parola”

In questa cornice si colloca l’opera che è stata, a discapito di una ricostruzione cronologica, punto di partenza della nostra analisi: Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola di Walter Jackson Ong, nella quale l’autore tenta di analizzare cause e modalità di cambiamento registrabili nel passaggio da una cultura prevalentemente orale a una scritta, guardando, senza alcun pregiudizio, sia al lontano passato che al mondo contemporaneo. Individuando nella scrittura (a mano, a stampa o elettronica) la chiave per leggere questo passaggio, sostenendo come questa abbia agito sui mutamenti della forma mentis del mondo occidentale più di quanto si possa credere.

Il percorso che Ong intraprende muove dal concetto di “parola” intesa da una parte come principale mezzo di comunicazione attraverso il quale l’uomo si mette in relazione con il mondo esterno, dall’altra come oggetto di indagine per ripercorrere i processi evolutivi che hanno caratterizzato la storia della società umana.

La parola per Ong è innanzitutto “parlata” e ha un legame indissolubile, o meglio si identifica, con il suono. Suono che, come gli altri sensi, è sì legato al concetto di tempo e di spazio, ma che con il tempo ha un rapporto che lo stesso Ong definisce “speciale”: suono si muove, esiste qui, in questo momento, è in relazione con la realtà circostante e col presente.

Nella cultura orale non c’è alcun medium tangibile nel quale poter “trovare” parole; l’unico supporto è la memoria dell’uomo.

In un mondo in cui tutto ciò che riguarda l’uomo è affidato all’happening del suono, in cui l’esperienza fluisce ininterrottamente senza lasciarsi imprigionare, si potrà ricordare ciò che si è elaborato solo ricorrendo a precisi moduli mnemonici (la sintassi si piegherà alle esigenze della memoria così da far risultare la struttura del linguaggio più aggregativa piuttosto che analitica, più ridondante piuttosto che sintetica, più paratattica che ipotattica). In una cultura orale, inoltre, il discorso tende essenzialmente a autoconservarsi, limitando al minimo le innovazioni.

La conoscenza che una tale cultura esprime è estremamente contestualizzata, è lo specchio di una società, di un insieme di individui che condividono valori e che aggiornano la loro cultura, e di riflesso la loro memoria, in risposta alle esigenze del momento, del presente.

È solo con la scrittura che la parola acquista una nuova dimensione spazio-temporale, meno sfuggevole, più duratura: «La scrittura imprigiona la parola, tirannicamente e per sempre, ad un campo visivo».

Nel passaggio da una cultura orale a una cultura alfabetizzata si ha uno slittamento dall’ambito sonoro a quello visivo; l’uomo subisce un vero e proprio distacco fisico e mentale dalla parola (distacco che Ong definisce “alienazione”) che diventa essa stessa una presenza autonoma, concretizzandosi in lettera, frase, periodo scritto.

La scrittura è quindi qualcosa di artificiale, è una tecnologia, un’invenzione dell’uomo ma non per questo va relegata a un ruolo subalterno o secondario. Al contrario: qualsiasi tecnologia (soprattutto quando ha a che vedere con la parola), se propriamente interiorizzata, non degrada ma innalza e migliora la vita della “società umana”.

Il discorso scritto in quanto tale differisce da quello orale nel senso che non nasce nell’inconscio. Il trasferire la lingua parlata nella scrittura è un processo guidato da norme consapevolmente inventate, e chiaramente formulabili […]. Dire che la scrittura è artificiale non significa condannarla, tutto il contrario: come e più di ogni altra creazione artificiale, essa ha un valore inestimabile, poiché è essenziale allo sviluppo più pieno dei potenziali umani interiori. Le tecnologie non sono semplici aiuti esterni, ma comportano trasformazioni delle strutture mentali […]. Tali trasformazioni possono essere positive: la scrittura ad esempio innalza il livello di consapevolezza; l’alienazione da un ambiente naturale ci può far bene ed è in più modi essenziale per la pienezza della vita umana. Per vivere e comprendere bene, abbiamo bisogno non solo della prossimità, ma anche della distanza; questa scrittura regala alla mente umana in modo unico, come niente altro può fare.

Le tecnologie sono artificiali, ma – di nuovo il paradosso – l’artificialità è naturale per gli esseri umani. […] L’uso di una tecnologia può dunque arricchire la psiche umana, espandere lo spirito, intensificare la vita interiore.

“Alienazione” e “artificialità” sono due concetti che con l’avvento della stampa vengono ancor più esasperati; la parola passa da suono a lettera, a oggetto fisico: il carattere mobile, matrice della stampa. Il sonoro cede inesorabilmente il passo al visivo, più di quanto fosse potuto accadere con la scrittura (basti pensare al posto di rilevo che l’oralità conserva nella cultura manoscritta).

Il percorso che Ong affronta procede poi con l’analisi delle nuove trasformazioni elettroniche dell’espressione verbale sottolineando come i nuovi mezzi di comunicazione, in quanto tecnologia, pur essendo apparentemente lontani dall’uomo, dal suo inconscio, esprimono in realtà la dinamicità, la ricchezza culturale dell’essere umano. È il processo di interiorizzazione che ogni innovazione deve subire; mezzi creati dalla genialità dell’uomo, che dall’uomo apparentemente si allontanano, per poi rientrare prepotentemente nella sua vita, non solo come semplici strumenti, ma riuscendo a modificare la mente e i modi di pensare del suo “creatore”.

Ma forse il tratto veramente interessante e originale in questo viaggio nella storia che Ong percorre è il fatto che il viaggio non è di sola andata, ma anche di ritorno; continue infatti sono le interferenze (oralità secondaria) che è possibile cogliere nei vari momenti di passaggio. E questo continuo saltare con naturalezza tra passato e presente («il futuro è una cosa del passato» sosteneva McLuhan) rende affascinante l’opera di Ong, e ne fa il punto di partenza per leggere in maniera diacronica le tappe che hanno caratterizzato la storia della lettura: «Omero e la televisione, possono illuminarsi vicendevolmente».

 

I media come metafore attive: il “medium è il messaggio”

Altro contributo importante per la lettura dei passaggi è stato l’incontro con l’opera di quello che lo stesso Ong definisce il suo più autorevole predecessore: Marshall McLuhan. Figura estremamente poliedrica, considerato il capostipite della Scuola di Toronto, McLuhan fu trai primi a comprendere l’impatto che i media avevano e avrebbero avuto sulla società; il suo interesse per i processi conoscitivi e il grande coinvolgimento dei mezzi di comunicazione, sono i tratti predominanti del suo pensiero, che culmina nell’affermare come le società siano sempre state plasmate più dalla natura dei media attraverso i quali gli uomini comunicano che non dal contenuto della comunicazione.

È una delle affermazioni forse più controverse dell’abate dei media, che se da una parte giustifica lo sguardo a volte perplesso della comunità scientifica e l’accusa di una eccessiva visione determinista, dall’altra diventa fondamentale nella ricostruzione di una storia della lettura che pone al centro della sua indagine proprio il medium.

In una cultura come la nostra, abituata da tempo a frazionare e dividere ogni cosa al fine di controllarla, è forse sconcertante sentirsi ricordare che, per quanto riguarda le sue conseguenze pratiche, il medium è il messaggio. Che in altre parole le conseguenze individuali e sociali di ogni medium, cioè di ogni estensione di noi stessi, derivano dalle nuove proporzioni introdotte nelle nostre questioni personali da ognuna di tali estensioni (o da ogni nuova tecnologia).

Ogni medium amplifica quindi le potenzialità sensoriali, fisiche, intellettuali e cognitive dell’individuo e questo causa un inevitabile ridisegnamento delle strutture della società.

Partendo da questo assunto McLuhan individua due categorie di media: “media caldi” e “media freddi”. Un medium è caldo quando estende un unico senso fino a un’alta definizione, cioè fino allo stato in cui gli individui sono abbondantemente colmi di dati; questo modo non lascia spazio da colmare o completare e comporta perciò una limitata partecipazione.

Al contrario un medium si definisce freddo quando comporta una bassa definizione cioè quando fornisce una quantità limitata di informazioni. Implica quindi un alto grado di completamento da parte dell’audience, richiedendogli una forte partecipazione affinché abbia facile corso la percezione dei modelli astratti e la comprensione simultanea delle parti della trasmissione.

Questa distinzione fatta da McLuhan è particolarmente utile perché ci consente di comprendere la complessità o meglio l’impossibilità di classificare la lettura all’interno di una delle due categorie. Basti pensare alle prime pratiche di lettura, alla stretta connessione con le forme di oralità, alle opere raccontate, cantate e ascoltate da un pubblico partecipe. E ancora ai nuovi strumenti di lettura, al libro elettronico per esempio, che coinvolge contemporaneamente più sensi del lettore e lo pone in una nuova dimensione d’interazione con il medium.

Del resto nella stessa opera di McLuhan tra caldo e freddo non si legge una vera e propria dicotomia, ma un continuum: l’incidenza della distinzione è infatti rilevante conformemente non solo al livello di acculturazione dell’utente ma soprattutto rispetto allo stretto rapporto che intercorre tra l’ambiente, il contesto storico e il medium.

Tra le opere dell’intellettuale canadese fondamentale, nella ricostruzione di una storia della lettura, è di certo The Gutenberg Galaxy. The making of the Typographic Man, pubblicata nel 1962.

In questa opera McLuhan concentra la sua riflessione sull’invenzione della stampa a caratteri mobili nel mondo occidentale. Dopo aver sottolineato il ruolo prioritario che le tecnologie e i media hanno da sempre esercitato sulle società e di come queste possano essere considerati a pieno titolo fattori determinati nei processi di trasformazione sociale, ripercorre le tappe della storia umana con una tecnica che lui stesso definisce a mosaico, funzionale a ricostruire un percorso quasi mai lineare, fatto di cambiamenti, interconnessioni, equilibri e destabilizzazioni che hanno caratterizzato i vari periodi storici.

La Galassia Gutenberg affronta il proprio argomento con un metodo a mosaico o di campo. Questa immagine composita di numerosi dati e citazioni di rilievo costituisce l’unico strumento pratico per evidenziare nella storia le operazioni casuali.

Una procedura alternativa avrebbe potuto essere quella di presentare una serie di interpretazioni dei rapporti fissi nello spazio pittorico. Pertanto la galassia, o costellazione, di eventi sui quali il presente saggio è incentrato è essa stessa un mosaico di forme in costante interazione che hanno subito, particolarmente nel nostro tempo, una trasformazione caleidoscopica.

Forse sarebbe stato meglio usare al posto di “galassia” la parola “ambiente”. Ogni tecnologia tende a creare un nuovo ambiente umano. La scrittura e il papiro crearono l’ambiente sociale che abbiamo in mente quando parliamo degli imperi dell’antichità. La staffa e la ruota crearono ambienti assolutamente nuovi di immensa portata. Un ambiente tecnologico non è soltanto un contenitore passivo di uomini, bensì un processo attivo che rimodella gli uomini al pari delle altre tecnologie. Nella nostra epoca l’improvviso passaggio dalla tecnologia meccanica della ruota alla tecnologia dei circuiti elettrici costituisce uno dei mutamenti principali di tutta la storia. La stampa a caratteri mobili creò un ambiente nuovo e del tutto inaspettato: il pubblico.

È questo un passaggio fondamentale per un percorso che vede come protagonista il lettore e che riconosce nell’invenzione della stampa a caratteri mobili una delle rivoluzioni che più di altre hanno forgiato l’esperienza umana e uno dei passaggi fondamentali per leggere la storia della cultura occidentale.

Il lettore è per noi il “pubblico” di cui parla McLuhan, è l’individuo che dalle trasformazioni tecnologiche è investito nelle più intime sfere del suo equilibrio psico-percettivo e nelle relazioni con la comunità alla quale appartiene.

 

Bias e brainframes

Accanto a quella che è la figura centrale di McLuhan, si affiancano Harold Innis e Derrick de Kerckhove, rispettivamente maestro e discepolo di McLuhan.

Innis, con la sua formazione di economista e storico, evidenzia come i processi sociali, culturali, politici ed economici intriseci alle civiltà che si sono susseguite nella storia siano caratterizzati e fortemente condizionati dalla comunicazione e dalle tecnologie a essa applicate.

Il suo approccio innovativo si percepisce fin dalle sue prime riflessioni, nelle quali estende il concetto di monopolio, adottato essenzialmente per una dimensione di tipo economica legata ai mezzi di produzione, ai mezzi di comunicazione. Il monopolio esercitato dai media, il possesso e il controllo dell’informazione sono per Innis i principali strumenti per esercitare il potere.

La riflessione di Innis prende quindi le mosse proprio dal considerare da una parte la centralità del medium e della comunicazione della conoscenza come basi del rapporto sociale ed economico tra gli uomini, e dall’altra nel sottolineare come la capacità dei media, in particolare della scrittura e delle attività di produzione di un testo scritto, venga a configurarsi come strumento di potere per affermare un “monopolio del sapere”; monopoli il cui sviluppo viene così spiegato dall’autore:

I monopoli della conoscenza si sono sviluppati e sono declinati, in parte, per effetto del mezzo di comunicazione sul quale erano stati costruiti, e la loro storia è fatta di un’alternanza tra i media che insistevano sulla religione, sulla decentralizzazione e sul tempo, ed i media che insistevano invece sulla forza, sulla centralizzazione e sullo spazio.

È in questo contesto che Innis introduce il concetto di “medium dominante” che si impone in una civiltà e nel momento in cui perde il suo primato destabilizza la società fino a quando un nuovo medium non conquisterà un ruolo di supremazia e diverrà caratterizzante della civiltà successiva. Questa continua tendenza della tecnologia verso nuove organizzazioni delle forme di comunicazione del sapere e quella dell’uomo ad adeguarsi a queste nuove forme (ai nuovi media) e il tentativo incessante di dominarle e piegarle ai propri interessi, viene definita da Innis bias.

Proprio in base a questa loro tendenza interna, bias appunto (che a volte può sembrare influenza, vincolo o addirittura pregiudizio), Innis suddivide i media in base alla dimensione che più manifestano: alcuni, come il papiro, l’argilla e la pietra, hanno un’inclinazione per il tempo, altri, come la carta e la pergamena, per lo spazio. I mezzi di comunicazione moderni come la radio e televisione, al contrario, hanno determinato una progressiva erosione dell’importanza del tempo come durata storica (ancora presente nella stampa, che poneva attenzione alla durata dell’informazione che veicolava) a vantaggio di un suo appiattirsi sull’istante. E proprio alla luce delle coordinate di tempo e spazio che i media amplificano o meno, e dell’equilibrio che una società riesce a creare tra questi due parametri, che si determina la vita e il successo della stessa società che Innis definisce “impero”.

L’analisi che Innis fa diviene quindi strumento di grande interesse per leggere i momenti di passaggio ma soprattutto per poter cogliere i cambiamenti in atto nel nostro tempo. Se pensiamo ai nuovi mezzi di comunicazione come il computer e i media digitali in genere notiamo come questi, rispetto al passato, non siano “esclusivi” in riferimento alle dimensioni di spazio e tempo: utilizzano infatti come base per comunicare un codice di tipo ibrido, situato all’incrocio delle due coordinate. Le varie forme che un tale tipo di comunicazione assume possono, poi, propendere più per il tempo (pensiamo alle banche dati, agli archivi) o per lo spazio (e-mail, chat), lasciando aperte nuove possibilità interpretative anche rispetto al concetto di bias rintracciabile, ma non definitivamente inquadrabile, nelle attuali tecnologie informatiche. L’interesse per la tendenza dei media che hanno caratterizzato civiltà passate o diverse da quella nella quale viviamo ci consente, sostiene Innis, di comprendere la nostra società e come i mezzi di comunicazione influiscano su di essa.

A sostegno e in aggiunta alle tesi espresse fino a questo momento, De Kerckhove, nella sua opera Brainframes. Mente, tecnologia, mercato, dimostra come i brainframes, ovvero i modelli mentali stimolati dai nuovi media, non siano plasmati dal contenuto che i media portano ma dalle loro caratteristiche strutturali, e analizza la stretta connessione tra tecnologia e psicologia studiando l’impatto e l’influenza della prima sullo sviluppo della seconda.

Un brainframe è qualcosa di diverso da un atteggiamento, da una mentalità, pur essendo tutto questo e molto di più. Pur strutturando e filtrando la nostra visione del mondo, esso non è esattamente un paio di occhiali di tipo particolare – dato che un brainframe non è mai localizzato nella struttura superficiale della coscienza, ma nella sua struttura profonda.

Ogni tecnologia ci altera quindi in modo profondo: fisiologicamente, alterando l’organizzazione neurale, psicologicamente alterando le categorie mentali attraverso cui interpretiamo il mondo.

Concetto chiave di tutta l’argomentazione è l’idea che il brainframe, o cornice cerebrale, è il modo in cui le tecnologie incorniciano il cervello umano in una struttura. Il frame è uno schema di rappresentazione, ma ampliandone il senso diventa una cornice o un telaio che inquadra le capacità di espressione.

De Kerckhove mette in luce la centralità della scrittura nella creazione di un brainframe, nel senso di una strutturazione dovuta all’interazione tra un sistema biologico con caratteristiche morfologiche e funzionali date (differenze tra i due emisferi) ma profondamente plastiche, e un ambiente mutevole.

Per De Kerckhove in un livello mentale profondo il brainframe dell’alfabetizzazione influenza il modo in cui organizziamo i nostri pensieri creando quindi “cornici mentali”. A tali cornici interne si affiancano anche cornici esterne, come gli schermi della televisione o del computer, che l’autore definisce frames di frames, ovvero cornici di cornici. Questo fa della tv e del computer strumenti ancora più forti e potenti della scrittura, perché tramite un telaio esterno arrivano a modificare il nostro interno.

I nuovi media, secondo De Kerckhove, propongono un nuovo tipo di comunicazione in cui vi è un interscambio tra il mondo esterno e il nostro io più profondo così intenso, come mai è avvenuto in passato.

 

Mente alfabetica e tecnologia della mente

Altri contributi che saranno presi in esame sono quelli di intellettuali che, pur non appartenendo alla Scuola di Toronto, ne riconoscono un forte collegamento intellettuale e hanno studiato da varie prospettive la storia della comunicazione, tra questi Jack Goody e Eric Havelock.

La centralità dei sistemi di comunicazione nell’organizzazione di una società (al pari di qualsiasi altra applicazione tecnologica) e come i mutamenti dei modi del comunicare determinino cambiamenti profondi nell’indirizzo di una civiltà sono al centro delle riflessioni di Goody.

Il passaggio che Goody compie è quello di considerare la scrittura una vera e propria tecnologia che, in quanto tale, è un prodotto dell’uomo.

Uno degli aspetti della tecnologia che fa sobbalzare certi umanisti è l’assunto della determinazione esterna a opera di forze non umane.

[…] La tecnologia non è in nessun senso non umana, dato che è sviluppata e usata da intelletti e mani umane. Infine, i prodotti della tecnologia sono esterni solo in senso formale, poiché sono formati dall’umanità e a loro volta la formano. Un telaio o una spada non sono più esterni di un libro, anche se la tecnologia dell’intelletto di cui quest’ultimo è un prodotto comporta un’interazione di tipo particolare tra l’essere umano e il suo ambiente. Naturalmente, questo vale in una certa misura per tutta la tecnologia, che influenza internamente in vari modi le nostre azioni. Quando abbiamo in mano una penna siamo diversi da quando impugnamo una spada o lavoriamo al telaio; svolgiamo ruoli che strutturano in maniera diversa le nostre percezioni. Ma la scrittura ha un’influenza interna particolare, perché non cambia soltanto il modo in cui comunichiamo ma la natura stessa di ciò che comunichiamo, ad altri o a noi stessi.

In questo contesto Goody, da una prospettiva storico-antropologica, sviluppa una concezione della scrittura vista come “tecnologia dell’intelletto” e dimostra come la parola scritta abbia conferito alle culture che se ne sono dotate un potere inalienabile.

Partendo dai suoi studi sulla classicità ed evidenziando la stretta relazione tra oralità e scrittura, Havelock pone invece l’accento sul carattere rivoluzionario della scrittura e sul ruolo determinante che essa abbia avuto nel forgiare la mente dell’individuo e le sue modalità di interazione con gli altri, e soprattutto su come abbia piegato a un modello logico-sequenziale, proprio delle regole dell’alfabeto, l’approccio dell’uomo alla conoscenza (“formazione della mente alfabetica”).

Fin dai suoi primi studi Havelock sottolinea come la nascita della scrittura coincida con la nascita della storia della civiltà occidentale e nel dimostrare questo analizza la complessa relazione nel mondo greco tra oralità e alfabetismo, la fluidità con la quale questo passaggio tra i due strumenti di comunicazione avvenga («La Musa dell’oralità, che usa cantare, recitare, mandare a memoria, sta imparando a leggere e scrivere – ma nello stesso tempo a cantare»), ma anche la forza dirompente della scrittura nel processo di affermazione dell’io e del conseguente imporsi di nuovi modelli culturali e morali nella società, fino a quel momento affidati esclusivamente a una trasmissione di tipo orale.

È questo il momento in cui l’udito perde la sua egemonia e lascia progressivamente spazio alla vista: l’occhio non più semplice sussidio (o “socio minoritario” come lo definisce ironicamente Havelock) per l’orecchio, ma protagonista dei processi di comunicazione dell’uomo.

La scrittura per Havelock ha avuto quindi da una parte un ruolo fondamentale nella storia e nell’evoluzione della società, e dall’altra ha forgiato la mente dell’individuo piegando a un modello logico-sequenziale, proprio delle regole dell’alfabeto, l’approccio dell’uomo alla conoscenza: è quello che il classicista britannico definisce processo di “formazione della mente alfabetica”.

In questo processo, come in tutte le trasformazioni culturali, determinante è il ruolo della tecnologia (in questo caso la scrittura) che diviene veicolo per la realizzazione della comunicazione e allo stesso tempo strumento per contribuire a rendere tale comunicazione elemento dinamico e costitutivo nelle trasformazioni di una civiltà.

Trasformazioni che con cautela, suggerisce Havelock, vanno definite “rivoluzioni” (correggendo il tiro rispetto allo scritto del 1982 La rivoluzione della scrittura in Grecia e le sue conseguenze culturali), a conferma del fatto che ogni passaggio avviene con gradualità e va osservato con le sue interconnessioni, contaminazioni e contraddizioni:

 

Il termine “rivoluzione”, per quanto sia comodo e di moda, può essere fuorviante se impiegato per indicare la brusca sostituzione di un mezzo di comunicazione con un altro. La Musa non diventò mai l’amante respinta dei Greci. Imparò a leggere e a scrivere pur continuando a cantare.

La lettura tra neuroscienza e education

Forse non ci sono giorni della nostra adolescenza vissuti con altrettanta pienezza di quelli […] passati in compagnia del libro prediletto. Tutto ciò che li riempiva agli occhi degli altri e che noi evitavamo come un ostacolo volgare a un piacere divino: il gioco che un amico veniva a proporci proprio nel punto più interessante, l’ape fastidiosa o il raggio di sole che ci costringevano ad alzare gli occhi dalla pagina o a cambiare posto, la merenda che ci avevano fatto portare dietro e che lasciavamo sul banco lì accanto senza toccarla, mentre il sole sopra di noi diminuiva di intensità nel cielo blu, la cena per la quale si era dovuti rientrare e durante la quale non abbiamo pensato ad altro che a quando saremmo tornati di sopra a finire il capitolo interrotto; tutto questo, di cui la lettura avrebbe dovuto impedirci di percepire altro che l’inopportunità, imprimeva in noi un ricordo talmente dolce […] che ancora oggi, se ci capitano tra le mani i libri di un tempo, li sfogliamo come se fossero gli unici calendari conservati dei giorni passati e ci aspettiamo di vedere, riflessi sulle loro pagine, le case e gli stagni che non esistono più.

La lettura è un processo complesso, affatto scontato e immediato come potrebbe in apparenza sembrare. Non è infatti un atto connaturato all’individuo e alle sue naturali potenzialità: al contrario è stata un’acquisizione lenta per l’uomo.

Quando si legge ci sono molteplici rappresentazioni mentali che interferiscono tra loro e per di più a diversi livelli. Questo mette in moto una vasta gamma di strategie e implica l’articolazione di svariate operazioni metacognitive, facendo della lettura una delle conquiste più faticose ma anche più preziose per l’umanità, perché ha innescato in essa un’infinita serie di cambiamenti.

L’interpretazione della lettura come attività cognitiva implica la fusione tra due ambiti di ricerca che potremmo considerare, singolarmente presi, interdisciplinari alla fonte, raccogliendo punti di vista multipli che fanno capo a settori disciplinari tradizionalmente separati. Questo vale certamente per le neuroscienze, o scienze cognitive, che sul finire degli anni Settanta del Novecento raccolgono i frutti delle ricerche sperimentali che cercano di fornire una base fisiologica allo studio delle funzioni mentali, trasportando il dibattito filosofico delle molte teorie sulla mente nel campo della ricerca scientifica in senso stretto. E vale per gli studi sulla lettura che negli stessi anni allargano il campo delle proprie ricerche superando il confine classicamente umanistico, e aprendosi agli sviluppi di discipline mediatrici o ai risultati delle discipline cognitive in senso stretto.

Una mediazione, soprattutto, appare necessaria alla luce degli sviluppi tecnologici che implicano nuove forme di produzione testuale, cui associare nuove forme di lettura. La decodifica dei testi elettronici, ad esempio, diviene il centro di una riflessione sulla lettura che coinvolge questioni testuali, linguistiche, antropologiche e psicologiche. Le neuroscienze e tutte quelle aree del sapere che fanno riferimento alla formazione forniscono uno strumento indispensabile allo studio delle forme e dei meccanismi di lettura.

«Non siamo nati per leggere!»

Il primo contributo preso in esame è quello di Maryanne Wolf, nota neuroscienziata cognitivista statunitense. Studiosa della lettura, e in particolare della dislessia, nel suo libro Proust e il calamaro. Storia e scienza del cervello che legge spiega come la lettura non sia un’attitudine naturale dell’uomo, ma una sua invenzione, forse la più geniale e rivoluzionaria.

Nel percorso che la Wolf compie, descrive da una parte il processo neurologico della lettura, ovvero le fasi del suo apprendimento, la varietà di forme possibili, una delle sue più gravi disfunzioni quale è la dislessia, dall’altra parte i cambiamenti e i vantaggi che essa comportò per la specie umana.

«Non siamo nati per leggere», così si apre il libro, che racconta dal di dentro cosa succede quando leggiamo e sottolinea fin da subito quale straordinaria conquista sia stata la lettura: siamo programmati per vedere e per parlare, ma la lettura non ha niente di naturale.

Non siamo nati per leggere. È passato solo qualche migliaio di anni dall’invenzione della lettura. L’invenzione ha portato con sé una parziale riorganizzazione del nostro cervello, che, a sua volta, ha allargato i confini del nostro modo di pensare mutando l’evoluzione intellettuale della nostra specie. La lettura è una delle invenzioni più straordinarie della storia; la possibilità di documentare fatti storici è una delle sue conseguenze. Ma questa invenzione dei nostri antenati è stata possibile solo grazie alla straordinaria capacità del cervello umano di stabilire nuovi collegamenti tra le sue strutture preesistenti; un procedimento reso possibile dalla sua capacità di essere modellato dall’esperienza. Questa plasticità che sta al cuore della struttura del cervello è la base di gran parte di ciò che siamo e di ciò che possiamo diventare.

La lettura è una conquista, straordinaria e fondamentale per lo sviluppo e la crescita dell’uomo; lo sviluppo, al quale l’uomo è geneticamente predisposto, è reso possibile proprio dal cervello, organo programmato proprio a modificare, a oltrepassare ciò di cui siamo dotati in natura.

La Wolf definisce il cervello, ereditando l’espressione dal mondo informatico, un ottimo esempio di “architettura aperta”. Per imparare a leggere, infatti, il cervello umano ha dovuto, e ancora oggi ogni volta deve nuovamente, creare sofisticati collegamenti tra strutture e circuiti neuronali in origine preposti ad altri più basilari processi come la vista e la lingua parlata.

Noi siamo quello che leggiamo: il nostro bagaglio, i nostri comportamenti, le nostre passioni si forgiano anche sulle letture che accompagnano la nostra vita; con la lettura ogni individuo singolarmente entra in contatto con un mondo nuovo che gli apre molteplici prospettive, gli fa provare emozioni inaspettate, lo fa riflettere su se stesso e su ciò che lo circonda, lo fa sognare.

Fin dal titolo, apparentemente paradossale ed enigmatico, la neuroscienziata mette in luce come la lettura abbia permesso alla specie umana di evolversi su due livelli diversi e allo stesso tempo complementari nella sua formazione: quello biologico, rappresentato dal calamaro, e quello culturale simboleggiato dalla figura dello scrittore Marcel Proust.

[…] Uso il grande scrittore francese Marcel Proust come metafora e il molto sottovalutato calamaro come analogia per due aspetti molto diversi del leggere. Proust considerava la lettura una specie di “santuario intellettuale” in cui gli uomini hanno accesso a migliaia di differenti realtà che altrimenti non potrebbero mai incontrare né conoscere. […]

Negli anni Cinquanta del Novecento gli scienziati hanno usato il semplice sistema nervoso, il lungo assone centrale, del timido ma furbo calamaro, per capire come i neuroni si attivano e come si trasmettono i segnali nervosi tra di essi. E, in certi casi, per osservare come riparano o compensano un difetto di funzionamento.

[…] Studiare cosa il cervello deve fare per leggere e le sagaci forme di adattamento a cui ricorre quando qualcosa non va è paragonabile allo studio del calamaro agli albori della neuroscienza. Il santuario di Proust e il calamaro del neuroscienziato sono modi complementari per capire dimensioni diverse del processo di lettura.


 

Lettura che proprio Proust, punto di partenza della riflessione di Maryanne Wolf, nella sua nota Sur la lecture definisce come un «fruttuoso miracolo di una comunicazione nel mezzo della solitudine». La lettura, per lo scrittore francese, interviene come soccorso, come una forza amica che aiuta l’individuo a ritrovare la sua forza interiore; e la condizione ideale affinché si possa cogliere l’energia che la lettura riesce a riattivare nell’uomo è quella della solitudine.

Del resto fin dalle prime battute della sua opera la neuroscienziata statunitense, proprio evocando Proust, evidenzia come la lettura sia una forma di evasione, uno strumento per evocare il passato, il ricordo, un’azione che ci consente di uscire da noi stessi ed entrare in una nuova realtà, nell’esperienza di qualcuno che è altro da noi.

 

Leggendo, possiamo uscire dalla nostra coscienza, e trasferirci nella coscienza di un altro: un’altra persona, un’altra epoca o un’altra cultura. […]

Grazie a questa nostra esposizione, scopriamo il carattere a volte unico a volte comune ai nostri pensieri; scopriamo di essere singoli, ma non soli.

Nel momento in cui questo accade non siamo più prigionieri dei limiti del nostro pensiero.

«Singoli, ma non soli», l’atto del leggere che da una parte richiede la solitudine per poter essere compiuto, ma dall’altra, come un amico fedele, ci rende parte di qualcosa di più grande; la lettura inoltre come strumento per poter superare limiti, preconcetti, come azione che ci arricchisce, addirittura ci rende diversi e non soltanto da un punto di vista emozionale.

L’autrice infatti dimostra come, attraverso una serie di attività mentali e cognitive affatto immediate, la lettura arricchisca il nostro bagaglio semantico in maniera esponenziale. Il cervello possiede una straordinaria attitudine a imparare, collegare e integrare velocemente quello che vede, e quello che sente a ciò che è immagazzinato nella sua memoria, e più noi leggiamo, più nozioni immettiamo nella nostra mente, maggiori saranno le relazioni e i collegamenti possibili, e di conseguenza maggiore l’accesso a letture più complesse.

Ma il processo di lettura arricchisce non solo il nostro bagaglio culturale; anche a livello neurologico il nostro cervello, che come prima precisato non ha funzioni specificatamente predisposte all’atto del leggere, deve realizzare una serie di nuovi collegamenti neuronali.

La lettura è quindi un processo complesso sia a livello biologico che intellettuale, e più mettiamo in atto i processi di cui si compone, maggiore sarà la capacità di comprendere letture articolate, ma soprattutto la possibilità di interpretare le opere che ci troviamo davanti. Il lettore riesce così a superare ciò che gli è dato dal testo e dall’autore, arriva a mettere in gioco le sue intuizioni personali, i suoi pensieri, le sue riflessioni, dopo aver automaticamente, e quasi inconsapevolmente, attivato tutti quei collegamenti che il leggere presuppone.

Questa “partecipazione” al testo è per la Wolf maggiormente richiesta se pensiamo alle nuove forme di supporti, ai nuovi veicoli di informazioni, che oggi più che in passato, stimolano nuovi collegamenti e quindi una maggiore partecipazione al testo (interattività).

Biologicamente e intellettualmente, la lettura permette alla specie di «oltrepassare l’informazione data» per produrre pensieri innumerevoli, bellissimi e meravigliosi. Nell’attuale momento storico di transizione verso nuovi modi di procurarsi, elaborare e capire le informazioni, è nostro dovere non rinunciare a questa essenziale qualità.

Un momento di transizione, di passaggio, quello che stiamo vivendo, come altri passati hanno caratterizzato la storia della lettura, provocando cambiamenti inaspettati, e suscitando inevitabili timori e obiezioni. La Wolf mette a confronto i “timori” di Socrate sollevati nei confronti della scrittura, con quelli che oggi animano coloro che guardano con perplessità all’imporsi del testo elettronico e di una cultura digitale (la paura di perdere certezze consolidate e di trasmettere alle generazioni future conoscenze illusorie, vuote di significato, che inducano l’uomo a una inevitabile regressione).

Alle obiezioni sulle nuove forme di comunicazione, e quindi di lettura, la Wolf elebora una risposta ottimista, e denota non solo una fiducia nelle possibilità infinite del cervello umano, ma anche un riguardo profondo nella lettura, come atto indispensabile per far riflettere l’uomo su se stesso e sul suo futuro.

 

Literacy e nuovi media: per una semiosi della lettura

Il secondo contributo preso in esame è quello di Gunther Kress, professore presso l’Institute of Education dell’Università di Londra. In particolare verrà presa in esame una delle sue ultime opere, Literacy in the New Media Age, libro incentrato essenzialmente sulla scrittura alfabetica e sui mutamenti che sta vivendo in questo periodo della storia alla luce dell’intrecciarsi di cambiamenti di natura sociale, economica, comunicativa e tecnologica di grande rilievo.

Gli effetti congiunti di questi epocali cambiamenti sono per Kress così profondi che è lecito parlare di una vera e propria rivoluzione del panorama comunicativo, rivoluzione che influisce enormemente su usi, funzioni, forme e valori della scrittura alfabetica.

Lo schermo ha già iniziato a soppiantare il libro, distruggendo il rapporto finora “naturale” tra la modalità espressiva della scrittura e il medium libro e la pagina.

Dopo un lungo periodo di predominanza del libro, il ruolo di principale mezzo di comunicazione è ormai stato assunto dallo schermo. Oltre al preludio della detronizzazione della scrittura, ciò rappresenta anche l’inizio di un capovolgimento in termini di potere semiotico. Il libro e la pagina costituivano la sede della scrittura. Lo schermo rappresenta invece la sede dell’immagine, una sorta di moderno dipinto su tela.

 

La scrittura si accinge quindi a subire cambiamenti di uso e di forma non meno importanti di quelli attraversati nel corso dei suoi tanti anni di storia.

Questo non segna per Kress la fine per la scrittura alfabetica. A prescindere dall’enorme peso degli investimenti tecnologici, la scrittura rimane infatti una modalità di rappresentazione e comunicazione estremamente utile e preziosa.

Non può essere però trascurato che l’incessante uso delle immagini nei nostri giorni ci porta a ripensare il significato di scrittura, a rivedere le sue potenzialità e il ruolo che oggi ancora può rivestire, in forme e materialità probabilmente diverse.

Occorre tenere presente inoltre che sullo schermo la scrittura può essere anche accompagnata da modalità espressive diverse come la musica, il colore, l’immagine in movimento. Ognuna di esse ha un significato specifico ed è parte di un unico messaggio: la modalità della scrittura non è che una parte del suddetto messaggio ed è quindi parziale rispetto al messaggio complessivo.

Un approccio di questo tipo pone interrogativi utili alla riflessione sulla literacy alla luce dell’imporsi dei nuovi mezzi di comunicazione e dei cambiamenti radicali che queste nuove tecnologie portano.

Nei processi di comunicazione le potenzialità e le possibilità offerte dalle varie modalità espressive sono molteplici e per tanto non si può più guardare alla scrittura come a qualcosa in grado di soddisfare tutti i bisogni rappresentativi e comunicativi.

Pur avendo perso il suo posto di rilievo, la scrittura continua comunque a conservare potenziali rispetto a compiti specifici, che altre modalità espressive non sono in grado di sostituire.

Una tale attenzione per la scrittura, sposta inevitabilmente lo sguardo di Kress anche sulla lettura, e sulle nuove pratiche a esse legate. E proprio alla lettura dedica un intero capitolo, dal titolo Reading as semiosis. Interpreting the world and ordering the world. From telling the world to showing the world, nel quale, fin dalle prime battute, l’autore tenta di delineare le caratteristiche e i significati della lettura nella società contemporanea.

 

L’attuale panorama comunicativo può essere spiegato con la metafora del passaggio dal mondo raccontato al mondo mostrato. Essa fa riferimento al cambiamento profondo prodottosi nell’atto della lettura, che si può riassumere con le espressioni “lettura come interpretazione” e “lettura come organizzazione”. La metafora e le espressioni di cui sopra ci consentono di analizzare attraverso una nuova lente gli interrogativi posti dalla lettura intesa come “estrapolazione di significati da un testo scritto” in senso stretto e come “conferimento di senso al mondo circostante” in senso ampio. Entrambi i significati si fondano sull’idea di lettura intesa come costruzione di segni. I segni che i lettori costruiscono mentre leggono derivano da ciò che deve esser letto. Derivano inoltre dal tipo di contesto culturale in cui si inserisce la rappresentazione e da come e cosa il lettore è abituato a leggere. Quando i testi mostrano il mondo anziché raccontarlo, le nuove forme di lettura influiscono sui rapporti esistenti tra coloro che costruiscono significati e coloro che li ricostruiscono (scrittori e lettori, autori di immagini e spettatori). È quindi importante concentrarsi sugli aspetti materiali, sulla materialità dei sensi fisici impiegati nel processo di lettura – l’udito (nel caso della comunicazione orale), la vista (quando si legge e si osserva), il tatto (come nel caso dei caratteri Braille) – e sulla materialità dei mezzi impiegati per dar vita alle rappresentazioni che devono essere “lette” – materiale grafico come ad esempio lettere o ideogrammi, suoni (nel caso delle forme orali di comunicazione) e movimenti (nel caso della mimica).

L’attenzione di Kress, come evidenzia lui stesso in più passi del suo libro, è spostata verso la materialità delle risorse e nel modo in cui gli esseri umani adoperano tali risorse per soddisfare i bisogni della vita. Il suo interesse è rivolto all’aspetto materiale, alle potenzialità e ai potenziali della materia e come questa viene usata nelle pratiche, anche del leggere. Le pratiche possono essere infatti comprese soltanto dopo aver compreso potenziali e limiti degli strumenti impiegati, e la materia a sua volta è culturalmente rimodellata proprio attraverso le pratiche.

Le pratiche e gli strumenti nell’atto del leggere cambiano, ma alcuni aspetti accomunano la lettura in ogni epoca, in ogni cultura e in ogni luogo. Si tratta di cose derivanti dal posto che occupiamo nel mondo grazie alla conformazione del nostro corpo; esse spaziano dalla fisiologia dell’occhio umano alla conformazione degli organi che impieghiamo per parlare e ascoltare, fino alla struttura del cervello e delle sue innate capacità mnemoniche. Al contempo molti aspetti divergono però da cultura a cultura, da epoca a epoca e da luogo a luogo e parallelamente le forme di apprendimento possono essere legate tanto alla cultura quanto alla natura umana.

È soprattutto la forma di ciò che c’è da leggere a influenzare la “lettura”. Le pratiche di lettura, e la conoscenza del significato di lettura, si sviluppano nell’ambito di un’interazione costante tra la forma assunta da ciò che c’è da leggere e il lettore socialmente definito con la sua natura umana.

I cambiamenti sono però difficili da analizzare, soprattutto se ancora in atto, e il moltiplicarsi delle modalità di lettura obbliga Kress a precisare come all’interno dell’attuale panorama il problema sia ancora più complesso. Dal momento che lo schermo si sta trasformando nella principale sede di comunicazione, non tanto in termini quantitativi, quanto di impatto sulla società e sull’immaginario collettivo, la lettura, intesa come processo volto a estrapolare significati da un’entità testuale, non è soltanto legata alla scrittura e all’immagine. Su una pagina web si possono impiegare musiche, parti vocali, immagini in movimento, oltre che ovviamente immagini e parti scritte. I suddetti elementi vanno letti globalmente e trasformati in un testo coerente attraverso una raffigurazione interiore, così «come infatti si deve fare quando si guarda un film», sottolinea Kress.

In altre parole quel “mondo raccontato” e quello “mostrato” di cui parla metaforicamente l’autore non sono poi così lontani e di conseguenza i due significati che il termine “lettura” (lettura intesa come «estrapolazione di significati da un testo scritto» e come «conferimento di senso al mondo circostante») può assumere sono sempre molto più strettamente legati di quanto si potrebbe pensare. La “lettura del mondo” attraverso sensi diversi (dalla vista all’udito e non solo) è una costante insita nell’atto stesso del “leggere”, anche quando in apparenza ci si concentra soltanto sulla scrittura.

La lettura quindi, intersezione dei due significati, va analizzata come un processo complesso, come un insieme di diverse capacità, potenzialità messe in atto dall’individuo in un determinato periodo storico, contesto socio-culturale e con specifici e diversi strumenti.