N.2 2015 - Le forme della lettura

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Canone e canoni: opinioni a confronto

Gino Roncaglia

Dipartimento di Studi linguistico-letterari, storico-filosofici e giuridici, Università della Tuscia; mc3430@mclink.it

Giovanni Solimine

Dipartimento di Scienze documentarie, linguistico-filologiche e geografiche, Università di Roma La Sapienza; giovanni.solimine@uniroma1.it

Per tutti i siti web l’ultima consultazione è stata effettuata il 22 ottobre 2015.

Abstract

Nella nostra epoca ha ancora senso parlare di un “canone”, e cioè di una scelta di letture da proporre ai giovani? Su questo tema abbiamo ascoltato l’opinione di storici della letteratura, critici letterari, editori, bibliografi, bibliotecari, insegnanti, pedagogisti.

 

English abstract

Nowadays does the idea of “literary canon”, i.e. a selection of readings for young people, still make sense? Literary historians, literary critics, publishers, bibliographers, librarians, teachers, educators: we asked for their opinion about this topic.

Il concetto di canone, e più specificamente di canone letterario, è multiforme e sfuggente. Ogni canone si propone, fin dall’etimologia del termine, come misura, regola, prescrizione. E nel contempo ogni tentativo di proporre un insieme “canonico” di testi di riferimento è ed è sempre stato (perfino nel caso dei testi sacri) risultato di scelte inevitabilmente influenzate dal contesto storico, sociale, culturale, da obiettivi diversi, da fattori discutibili e contingenti. In buona sostanza, ogni canone sembra contemperare – anche se in proporzioni diverse, fortemente dipendenti dall’epoca e dalla tipologia del canone considerato – l’aspirazione a una qualche oggettività almeno normativa, e un fondo ineludibile di soggettività e di arbitrio.

Anche per questo, nello studiare l’idea di canone letterario e la sua storia, le critiche (spesso radicali), la contrapposizione fra canoni e anticanoni, gli stessi tentativi di decostruzione del canone occidentale legati all’ambito dei cultural studies e al postmodernismo fanno in qualche modo parte dello stesso “gioco linguistico” al quale appartengono gli sforzi di ricostituzione (o riconoscimento) di un canone basato su considerazioni valoriali forti (Harold Bloom) o quelli legati all’individuazione di canoni settoriali, magari fluidi e soggetti a revisione e aggiornamento continuo.

Ci sono almeno due aspetti che sembrano rendere in qualche misura ineludibile questo dibattito. Il primo è ben sintetizzato da un motto che ogni amante dei libri e della lettura conosce bene: «So many books, so little time». La lettura dipende da una risorsa – il tempo – che è sempre e comunque limitata, e impone dunque delle scelte. Scelte che vorremmo in qualche misura “ben fondate” (sia pure solo rispetto ai nostri gusti e interessi personali), e per le quali è dunque inevitabile cercare un qualche criterio. Il secondo è legato al rapporto fra canone e istituzioni: istituzioni formative, in primo luogo scuola e università, e istituzioni che hanno l’obiettivo di mettere a disposizione del pubblico quella che è inevitabilmente una selezione, pur se auspicabilmente ampia e rappresentativa, dell’universo della produzione testuale (e oggi, più in generale, informativa): le biblioteche di pubblica lettura, le biblioteche di ricerca, le librerie, le stesse case editrici.

Quali criteri adottare per le scelte che scuole, università, biblioteche, librerie devono inevitabilmente fare (scuole e università nel definire curricula e programmi; biblioteche e librerie nel decidere gli acquisti, inevitabilmente condizionati da spazi, budget, obiettivi, e nel decidere come proporre al pubblico la selezione disponibile)? Chi lavora nel campo della promozione della lettura quali letture vuole promuovere? Lo stesso lettore – che ha o dovrebbe avere massima libertà nelle proprie scelte – in base a quali criteri, a quali informazioni, a quali condizionamenti si trova concretamente a scegliere le sue letture?

Come si vede, il problema del canone si intreccia con quello, più generale e quasi filosofico, dei criteri e delle motivazioni delle nostre scelte di lettori, di educatori, di bibliotecari, e in generale di operatori della filiera della lettura. Anche per questo, ci sembra un tema che, nell’ambito di questo fascicolo, merita un approfondimento specifico. Approfondimento che deve inevitabilmente partire dai temi del fascicolo: una riflessione sulla lettura e sulle sue forme.

Parlare della lettura significa infatti anche parlare dell’oggetto della lettura e, in particolare, di quelle letture che hanno contribuito a formare il “comune sentire” di intere generazioni: quel canone letterario basato su autori e letture esemplari attraverso cui bisognava passare necessariamente e che affiancavano il percorso degli studi che ci avrebbe portato all’età adulta e alla maturità.

Partiamo dal secolo scorso, quello in cui la nostra generazione è nata e in cui si sono formati i nostri gusti di lettori. Non possiamo qui citare tutti i libri che facevano parte di questo programma di letture quasi obbligate che accompagnavano i bambini e poi i ragazzi, fino all’adolescenza e alla giovinezza, ma qualche autore e qualche titolo vogliamo ricordarlo, a rischio di cadere nella banalità. Chi era bambino negli anni Cinquanta e Sessanta si avvicinava alla lettura attraverso le fiabe di Andersen, di Perrault, dei fratelli Grimm e di altri autori, per passare subito dopo a Pinocchio e poi, a seconda del genere, a Piccole donne e Piccole donne crescono di Louisa May Alcott, oppure a I ragazzi della via Pál di Ferenc Molnár, ai libri di Jules Verne e Emilio Salgari. Cuore di De Amicis o Il giornalino di Gian Burrasca di Vamba (Luigi Bertelli) andavano bene per maschi e femmine. E così il Diario di Anna Frank o, in tutt’altro ambito e (in Italia) soprattutto a partire dagli anni Settanta, Il Signore degli Anelli di Tolkien. Si proseguiva con i grandi romanzieri russi e, a mano a mano che si acquistava autonoma capacità di discernimento, le scelte si differenziavano. Ma subentravano altri condizionamenti. Quelli del mercato, ad esempio, che imponevano superbestseller che “non si poteva non leggere”.

La scuola dava il suo contributo, indicando nei programmi alcuni autori da leggere o creando delle consuetudini che di fatto diventavano norma: chi entrava a far parte di queste liste diveniva un “classico” e gli si garantiva fortuna editoriale e immortalità – com’è accaduto prima a Pirandello o Svevo, poi a Calvino o Pavese –, mentre chi ne era escluso rischiava la marginalità o addirittura l’oblio. Molti giovani (ma anche molti adulti) d’oggi conoscono poco o non conoscono affatto autori pure di grande rilievo letterario e al centro del dibattito culturale ma rimasti “ai margini” del canone scolastico, come Fenoglio, Gadda o Pasolini.

Anche le biblioteche, quelle pubbliche e quelle scolastiche in particolare, assecondavano questa tendenza e, specie negli anni Settanta del Novecento – che per l’Italia sono stati gli anni di fondazione di un numero cospicuo di nuove strutture – sono fiorite liste di libri di base che non potevano mancare sugli scaffali di una biblioteca anche piccola, sempre alla ricerca di un punto di equilibrio fra standardizzazione e personalizzazione, fra universale e locale. La più fortunata di queste liste fu quella su cui nacque la biblioteca di Dogliani voluta da Giulio Einaudi. Nel suo commento alla Guida alla formazione di una biblioteca pubblica e privata Delio Cantimori metteva però in discussione l’operazione che egli stesso stava compiendo, negando che un simile repertorio bibliografico dovesse essere fattore di omologazione, e proponendolo piuttosto come strumento per aiutare una scelta comunque autonoma: «Chi vuol crescer bene, deve imparare a mangiare da solo, e a leggere e a studiare da solo».

Anche in anni più recenti ci sono stati libri che, al di là della loro buona o meno buona qualità intrinseca, hanno lasciato il segno e hanno contribuito a determinare l’identità collettiva e il lessico degli adolescenti: Porci con le ali di Marco Lombardo Radice e Lidia Ravera (1976), Jack Frusciante è uscito dal gruppo di Enrico Brizzi (1994) e perfino Tre metri sopra il cielo di Federico Moccia (pubblicato una prima volta nel 1992 e, dopo anni di circolazione semiclandestina, imposto dagli studenti dei licei romani al circuito editoriale nazionale e internazionale nel 2004). Mentre nel campo della cosiddetta letteratura “Young Adults” – fortemente influenzato dal mercato editoriale anglosassone – il ciclo di Harry Potter di J. K. Rowling (sette volumi pubblicati fra il 1997 e il 2007) si è trasformato in un caso letterario capace di coinvolgere non solo il pubblico giovanile ma anche un buon numero di lettori adulti.

Libri tra di loro diversissimi ma che, ognuno a modo suo, hanno plasmato il pubblico dei lettori. E tuttavia c’è un interrogativo che è difficile non porsi: si tratta di testi che si sono conquistati (magari brevemente) un loro spazio “canonico” o di casi editoriali da analizzare attraverso strumenti interpretativi diversi dal concetto di canone?

L’interrogativo non è peregrino: il concetto tradizionale di canone parrebbe infatti per molti versi legato a un’epoca ormai superata, in cui i riferimenti culturali erano maggiormente condivisi e avevano una loro stabilità, mentre i cambiamenti avvenivano lentamente. Questo permetteva di individuare in maniera non troppo arbitraria un insieme di letture “obbligate”, spesso condivise anche nel passaggio da una generazione all’altra, e in cui i classici occupavano un posto di primo piano.

Oggi ha ancora senso parlare di un “canone”? Esistono riferimenti universalmente accettati? Esiste un’autorità che può imporre di fatto una bibliotheca selecta a un’intera generazione? Molte delle premesse che erano a fondamento del canone sembrano venute meno, il concetto tradizionale su cui esso si reggeva è stato – come abbiamo ricordato in apertura – abbondantemente “decostruito” anche all’interno del dibattito critico, e, nell’era del digitale e dei social network, lo stesso ruolo della “forma libro” come forma canonica di trasmissione della cultura sembra messo in discussione.

Abbiamo invitato alcuni esperti a discutere sul tema, da punti di vista differenti. Per il mondo della critica letteraria il canone è argomento di discussione soprattutto teorica, ma per i bibliotecari (così come, in forma in parte diversa, per chi lavora nel mondo della scuola) ha invece un risvolto prevalentemente pratico: con quali criteri scegliere i libri da acquistare, soprattutto nel caso di piccole biblioteche scolastiche o di pubblica lettura, in una situazione in cui il concetto tradizionale di canone non sembra più applicabile?

Abbiamo pensato di affrontare il tema provando a riprendere – in forma certo assai meno ambiziosa – il modello del questionario breve utilizzato per un precedente illustre: l’indagine su “Strutturalismo e critica” voluta da Giacomo Debenedetti e curata da Cesare Segre, che fu pubblicata in apertura del Catalogo generale 1958-1965 del «Saggiatore». Poche domande rivolte a più persone.

Le quattro domande che abbiamo proposto partono dalla situazione che sommariamente abbiamo descritto e su di esse abbiamo raccolto un panorama di opinioni non solo nell’ambito della letteratura e della critica letteraria, ma allargando il discorso alle situazioni – come le biblioteche, le scuole, il mondo editoriale – in cui forme di “selezione” della produzione editoriale sembrano in qualche misura obbligate, anche solo per formulare decisioni di acquisto o consigli di lettura.

Hanno accolto il nostro invito, e di questo li ringraziamo, Piero Boitani, Gian Arturo Ferrari, Maurizio Ferraris, Luca Ferrieri, Beatrice Fini, Piero Innocenti, Gabriele Pedullà, Fernando Rotondo, Carla Ida Salviati.

C'è ancora posto per un'idea di canone, nel panorama culturale attuale? E su quali basi?

Piero Boitani: Certo che c’è, più cangiante e meno stabile di quelli passati, ma c’è, e anzi ci sono scrittori ed editori che lottano per entrare nel canone o fare entrare i loro libri nel canone. Quando si dà un premio, sia esso il Nobel o il Balzan o altri, si forma un pezzetto di canone. Poi, i canoni si costituiscono per forza di cose per le scuole o le università, oppure quando si pubblicano delle antologie per le medesime. Infine, esistono canoni per tutto ciò che è più distante nel passato (parlo ovviamente della letteratura). Sappiamo benissimo che i canoni sono transitori e dipendono da una quantità di fattori che possono mutare, ma non c’è dubbio che del canone ancora oggi valido in Occidente fanno parte (faccio esempi eclatanti) Omero, Dante e Shakespeare; la tragedia greca; la storiografia greca e romana; la lirica greca e latina; la Bibbia ebraica e quella cristiana. Su quel che viene dopo si discute, e qualcuno tende a considerare canonici alla stregua di Omero, Dante e Shakespeare anche Cervantes, Goethe, il Seicento francese e spagnolo; poi, i grandi romantici, i modernisti, e via di seguito. Se si allargano gli orizzonti – e si stanno allargando notevolmente, con la cosiddetta “world literature” – allora entrano in un canone non più solo occidentale anche il Corano, i Veda, il Mahabharata, il Ramayana, i grandi classici cinesi ecc. Come non avere Kalidasa, Nezami, Rumi e Du Fu accanto a Saffo, Alcmane, Pindaro, Leopardi, Keats? Si potrebbe dire che i canoni oggi sono tanto più presenti ed efficaci quanto più sono elastici e aperti. Il canone è basato in sostanza su tre assi principali: una società strutturata, il gusto estetico, la storia. Questi assi esistono tuttora.

Gian Arturo Ferrari: Il canone si fonda su due coordinate: il valore e l’ambito. Il valore è usualmente quello artistico, nel senso che seleziona opere e autori cui si riconosce non una significatività generica, ma un valore artistico, l’appartenenza all’arte in senso proprio. L’ambito è usualmente quello linguistico/nazionale, nel senso che esiste un canone francese, uno inglese, uno spagnolo e così via. Mentre non è mai esistito, se non astrattamente, un canone universale, onnicomprensivo e valido per tutti i tempi e tutti i Paesi. Dunque il canone è figlio dell’idea di nazione, ma a volte può esserne anche il padre. Ad esempio nel nostro caso, quello italiano, il canone, escogitato da Giosuè Carducci e codificato da Francesco De Sanctis, asserisce che l’identità nazionale italiana è stata prima di tutto un’identità letteraria, a partire dalla prodigiosa triade delle origini, Dante-Petrarca-Boccaccio. Questa è la concezione di canone che in ogni Paese ha governato la trasmissione del sapere, cioè in concreto la scuola. Ma accanto a questa concezione codificata e rigida di canone, ne è sempre – e oggi più che mai – esistita un’altra che fa invece riferimento al gusto da un lato e a un gruppo o a una élite dall’altro. Questa concezione sociale del canone è in sostanza quella che determina ciò che gli appartenenti a quello specifico gruppo – siano gli intellettuali, i benpensanti, i non meglio specificati giovani – non possono permettersi di ignorare.

Gabriele Pedullà: In origine, e per lungo tempo, il canone, ogni canone, aveva pretese oggettive. C’erano i testi sacri, anzitutto. E poi i grandi autori dell’antichità, o i moderni passati attraverso un rigido processo di selezione (per lo più autori classicisti, cioè impegnati a scrivere a loro volta alla maniera dei latini e dei greci). Con la rivalutazione, da parte del Romanticismo, del genio individuale e della scrittura idiosincratica del singolo (senza più regole a priori che indicano cosa è bello e cosa no e modelli certi da imitare), qualsiasi discorso sul canone è diventato enormemente più difficile. Da allora abbiamo avuto al massimo valori soggettivi (estetici, etici, politici) e storicamente variabili. Questo vuol dire che il canone è diventato un campo di battaglia costante. Lo era anche prima, naturalmente, ma in maniera più invisibile, e a partire da un nucleo di certezze assai più stabile. Per dirla con Barthes, prima c’era lo stile, dopo ci sono stati gli stili.

Alla luce di questo slittamento gli ultimi duecento anni hanno segnato una fase di massima conflittualità sul canone. Imporre una lista di opere irrinunciabili e da far entrare in ogni curriculum di studi o in ogni biblioteca significa compiere delle scelte, perché il nostro tempo di esseri umani è limitato (e così i budget e i metri lineari di scaffali disponibili…). E queste scelte, per quanto soggettive e fallibilissime, implicano una consapevole presa di responsabilità verso le generazioni a venire, che non sono ancora in grado di effettuare da sole le proprie scelte. Su questo non posso che ripetere quanto Hannah Arendt diceva dell’educazione: educare implica sempre esporsi alla possibilità dell’errore, ma l’unico modo per non rischiare è la rinuncia pura e semplice a trasmettere alle generazioni successive il frutto di quello che abbiamo imparato sul mondo. Il canone soggettivo è un canone che si riconosce in partenza potenzialmente fallace, e dunque potenzialmente modificabile. Da duecento anni è tutto quello che abbiamo.

Nella modernità questo canone soggettivo è stato un campo di battaglia estremamente fertile, dove nozioni come quelle di gusto e di ragione si sono (per lo più) imposte su quelle di autorità e tradizione. È stato il tempo della massima politicizzazione della letteratura (per gruppi e per correnti contrapposte come altrettanti partiti politici) e l’età delle riviste (lo strumento dello scontro culturale per eccellenza). Il canone era ancora lì, ma la sua stessa presenza nelle scuole e nelle biblioteche invitava a rimetterlo in discussione ogni volta e a provare a cambiare le tessere o a disporle in maniera diversa: che è quanto i romantici appunto misero in opera nel corso dell’Ottocento con straordinario successo, facendo saltare in un paio di generazioni tutte le graduatorie tramandate e valorizzando il primitivo e l’originario rispetto a quella che giudicavano la frigida eleganza di verseggiatori dotati ma in definitiva superficiali (Omero invece di Virgilio, Petrarca invece di Dante, Shakespeare invece di Racine). Coppie come quelle di poeta vs artista e di fantasia vs immaginazione sono nate in questi anni esattamente su queste basi per dare un fondamento più solido a un simile processo di appello.

E tuttavia il canone reggeva come campo di scontro. La nozione di canone letterario è infatti entrata in crisi solo a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso. All’inizio si è trattato di una crisi “per crescita”: con il moltiplicarsi delle discipline in cerca di riconoscimento e il maggiore scambio con le letterature straniere, i libri da leggere sono diventati sempre di più, così tanti da perdere in canonicità. E come certificarono molto precocemente Borges e, da noi, Calvino e Manganelli, una nuova generazione di lettori tendeva a leggere di tutto, un poco anarchicamente, scegliendo senza preoccuparsi troppo delle gerarchie tramandate (anzi, divertendosi a sovvertirle liberamente).

In Italia non c’è stato infatti un vero equivalente dell’attacco al canone portato negli Stati Uniti dalle minoranze (nativi americani, neri, omosessuali e – anche se di una minoranza vera e propria non si tratta – donne) nel tentativo di modificare curricula universitari a loro dire basati unicamente sulle opere di “uomini europei bianchi morti” in nome di una maggiore diversità (e rispetto all’attacco dei romantici, mi pare significativo che si sia trattato di una contestazione sulla base di motivi puramente identitari e non intrinsecamente estetici: qui sta la sua debolezza). Italia e Stati Uniti si sono riallineati solo più tardi, all’incirca negli anni Novanta, quando gli effetti congiunti del tracollo degli standard educativi post-1968 e dell’invasione della televisione privata hanno cominciato a farsi sentire sulle nuove generazioni anche da noi. Per quanto la situazione italiana fosse e sia ancora migliore di quella statunitense, il discorso sul canone è ripreso alla luce di una emergenza: di fronte a studenti e adolescenti sempre meno scolarizzati individuare un minimo di classici condivisi. La grande eco del libro di Harold Bloom si colloca in questo orizzonte.

Nonostante gli sforzi di molti intellettuali pubblici, ci sono motivi profondi che impediscono la ricostituzione di un canone soggettivo forte. La nozione di canone è infatti sotto attacco a causa di uno dei suoi elementi costitutivi: la sua progettualità. Un canone delle opere mira infatti a costruire un certo tipo di studenti e poi di cittadini e il neo-liberalismo oggi dominante in ogni campo della vita bolla qualsiasi progetto del genere, che vada cioè oltre il puro e semplice conseguimento di alcune competenze pratiche da rivendere nel mercato del lavoro, come un retaggio dello stato etico (educatore): il primo passo sulla strada dei gulag.

Anche nel caso della lotta al canone, obiettivo del neo-liberalismo è sterilizzare i conflitti: politici come religiosi come estetici. Relegando tutte queste questioni nella interiorità del singolo, fuori dalla sfera pubblica, che viene lasciata solo alla capacità di contrattazione mercantile dei singoli, altrettante occasioni di scontro verrebbero magicamente a cadere. Niente più divergenze! Ma per questa via il concetto stesso di canone non trova più spazio. Nel mondo moderno l’importanza dei canoni, e di tutte le liste, dipende dal fatto che, non appena viene stilato un elenco, quello stesso elenco può essere messo in discussione e stimola una serie di controproposte (al tempo dei canoni oggettivi questo era possibile, ma molto più difficile, e richiedeva una serie di passaggi ufficiali molto rari). Per questo negli ultimi duecento anni il canone è sempre stato almeno in parte mobile, e con i suoi slittamenti ha aiutato gli uomini occidentali a prendere consapevolezza della propria identità, perché le cose stavano in un certo modo ma potevano stare anche in un altro, e si trattava allora di produrre gli argomenti migliori per difendere o sovvertire un sistema di gerarchie non più inattaccabile. Detto in altri termini: da quando è almeno in parte soggettivo, il canone è inevitabilmente fonte di contrapposizioni.

Nel caso dell’educazione, ovviamente, non ci si può affidare alle scelte e alle opinioni di coloro che devono essere educati (anche se i nuovi progetti per far valutare i docenti dagli studenti-consumatori come un qualsiasi altro servizio spingono in questa direzione paradossale). I neo-liberali, allora, propongono di affidarsi alle loro famiglie, cancellando qualsiasi luogo di mediazione superiore tra i diversi nuclei. Sei un creazionista? Manda tuo figlio a una scuola creazionista. Sei darwiniano? Manda tuo figlio a una scuola darwiniana. Poi la vita stabilirà chi ha scelto meglio, senza che lo Stato o la comunità dei cittadini possano mai pronunciarsi in merito e assumersi la responsabilità di dire la loro. L’idea è questa. Per questa strada non c’è però canone minimo che possa emergere: né nella letteratura, né nella scienza, né nella filosofia. Si tratta soltanto di garantire che l’offerta scolastica vada incontro alla domanda di educazione delle diverse famiglie secondo la più elementare legge del mercato. In assenza di un vero confronto intellettuale o politico tra le varie opzioni e del tentativo stesso di farle confluire in un progetto unitario di formazione, per il canone non c’è nessuno spazio.

L’indiscutibile vantaggio di questo atteggiamento riduce i conflitti tra prospettive diverse: cosa che il nostro tempo, messo a confronto con migrazioni bibliche e confronti non facili tra culture diverse, sembra desiderare più di ogni altra cosa. Con questo atteggiamento però l’ostilità neo-liberale a qualsiasi ipotesi di canone, impedendo una discussione sulle ragioni di una presenza o di una esclusione (perché questa discussione produce inevitabilmente scontri), finisce per rendere irrilevanti la letteratura e le arti, e porta a compimento un processo di pacificazione che in Occidente nel corso dei secoli si è esteso dalla religione (tolleranza religiosa) alla politica (marginalità delle differenze nelle post-democrazie consensuali e amministrative di oggi) sino addirittura alla sfera estetica. È una storia che Sloterdijk ha raccontato molto bene, dimostrando come la fine del conflitto coincida sempre, inevitabilmente, con la trasformazione di quei campi in qualcosa di molto simile a un hobby privato e irrilevante. Oggi sembrerebbe toccare alla letteratura e alle arti.

A me preme tanto il canone anche perché mi sta a cuore il conflitto, come fondamento della politica e della democrazia. Non abbiamo bisogno di scuole che offrono curricula alternativi a seconda delle opinioni dei genitori in modo da non urtare le sensibilità di nessuno, proponendo una serie di corsi di studi coesi e incomunicanti tra loro come altrettante monadi, a seconda dei casi ispirati alla pseudo-oggettività di ritorno dei canoni religiosi o magari a un principio di efficienza amministrativa che sterilizzi in anticipo ogni possibile “incidente”. L’educazione è infatti il primo luogo dove devono imparare a confrontarsi con la differenza e i suoi conflitti, proprio perché è qui che si preparano alla vita. È quello che fanno in particolare le discipline umanistiche (la storia, la letteratura, la filosofia), non a caso al centro dell’attacco neo-liberale. Abbiamo dunque bisogno di una scuola dove qualcuno si prenda ancora la responsabilità di proporre dei valori e delle gerarchie, ma dove questa autorità possa essere rimessa – nel caso – in discussione senza convocare ogni volta un concilio ecumenico. La modernità nei suoi momenti migliori è stata questo.

Il neo-liberalismo ha ormai fatto bancarotta morale e intellettuale. In attesa che faccia anche bancarotta politica, è importante sapere che la lotta per il recupero di un canone democratico (cioè discutibile e al suo interno conflittuale, perché consapevolmente soggettivo) sarà per forza di cose uno dei terreni dello scontro. Mi pare interessante rilevare però che le linee di frattura tra canonisti e anti-canonisti attraversano oggi trasversalmente la sinistra e la destra partitica (la destra religiosa per esempio è canonista, nella speranza che un domani si torni, a livello collettivo o in piccole enclave protette, al canone oggettivo delle origini, mentre la sinistra anarcoide più legata alla esperienza dei movimenti è risolutamente anti-canonista).

Maurizio Ferraris: Ancora Mallarmé poteva scrivere, sia pure in una poesia: «La carne è triste, ahimé! E ho letto tutti i libri». Cosa gli sarebbe successo se si fosse fatto un giro su Internet? Si sarebbe accorto che di libri da leggere gliene restavano tantissimi, per non dire dei testi che non hanno più la forma del libro. Chi si leggerà tutta quella roba? E come si trasmetterà ai posteri quell’ammasso di file e di carte mescolato con caroselli, film, mp3, dvd e loro successori?

Certo, si possono ipotizzare radicali (e tutt’altro che implausibili) rivolgimenti geopolitici, e in questo caso il problema non si pone: tutto scompare, o vivacchia in forma ridotta e marginale, in un mondo in cui la parola “Occidente” non dice più niente a nessuno, o è una semplice sopravvivenza storica per quei pochi a cui la parola “storia” dice ancora qualcosa. Ma se queste trasformazioni traumatiche non dovessero aver luogo, o non avvenissero così rapidamente, il canone potrebbe semplicemente implodere, per inflazione e obesità, nell’epoca in cui ognuno ha i suoi quindici minuti di celebrità su YouTube.

Credo che sia questo il rischio maggiore cui le biblioteche e le scuole sono chiamate a porre rimedio, perché il canone è anzitutto una storia e una geografia comune al di là delle differenze linguistiche, una koinè culturale che ovviamente può produrre effetti stranianti, ma che comunque inducono a pensare, come quando i bambini senegalesi imparavano a scuola che i loro antenati erano i Galli (in un certo senso, culturalmente e in quel momento, c’era un briciolo di verità) o quando non ricordo più se Gladstone o Disraeli disse che la vittoria dei Greci contro i Persiani a Maratona era stata decisiva per la sorte dell’Inghilterra.

Luca Ferrieri: Su questo punto direi che bisogna registrare un duplice fallimento, anche se di diverso peso specifico. Da un lato la nozione di canone letterario ha mostrato ampiamente la sua connivenza con l’ideologia del dover leggere, della lettura di certi testi (o addirittura del testo) come qualcosa di obbligato e obbligatorio, qualcosa da cui “non ci si può esimere”, da compiere in rigoroso ordine gerarchico. Dall’altro la negazione aprioristica e generalizzata del canone, che ha avuto l’indubbio merito di mostrare che il canone è nudo, una volta privato delle sue cattedre, ha finito con l’avvilupparsi in una sorta di ginnastica decostruzionista, con due fortissimi rischi: quello di essere virtualmente illimitata, come rilevato da Umberto Eco in diverse occasioni, e quello di condurre a un esito autocontraddittorio (come nel paradosso del mentitore o dello scettico). Ogni negazione o decostruzione del canone infatti produce un nuovo canone, seppur negativo, che deve essere a sua volta decostruito. Nella querelle canone/anticanone bisognerebbe quindi puntare a una posizione terza, che non significa affatto mediana o equidistante (il terzo non è il giusto mezzo, il terzo è l’altro). Tutte le teorie che si pongono nel solco del canone e della sua riformulazione, infatti, compresa l’intelligente capriola dell’ultimo Bloom (Il canone occidentale, Milano, Rizzoli, 2013), approdano a un esito neotradizionalista e restauratore, nutrito di livore verso ogni tentativo di “apertura” del canone. Invece gli svariati tentativi che si sono mossi lungo i sentieri della decostruzione, dalla “mislettura” del primo Bloom agli studi culturali e di genere, anche quando sono caduti nella banalizzazione o nel relativismo, hanno contribuito a porre alcuni punti fermi che mi sembrano costituire le “basi” per ogni teoria critica del canone.

Li sintetizzo brevemente. Innanzitutto la natura storica e culturale del canone, che è sempre anche il prodotto di rapporti di forza e di potere. Poi la necessità di sottoporre ogni canone – compresi quelli che nascono da operazioni di rottura rivoluzionaria – a un processo continuo di critica e di “revisionismo” (anche questo è un concetto bloomiano, da usare con lui e contro di lui). Per evitare la cattiva infinità di questo processo occorre restituire centralità all’esperienza di lettura, che è la sola capace di dare senso all’operazione e di farla uscire dalle logiche convergenti dell’accademia o del mercato. Quello che manca, infatti, sia alle glorificazioni postume e revanscistiche del canone, sia alla guerriglia decostruzionista, è proprio l’analisi del rapporto tra canone e punto di vista del lettore, tra critica letteraria e teoria della ricezione. L’unico canone sostenibile, oggi, anche perché pienamente falsificabile, è quello prodotto dal lettore nell’esperienza di lettura, attraverso il confronto con le precedenti letture e la loro stratificazione e manipolazione. Questo canone è in necessario e incessante mutamento, viene riscritto e riletto continuamente, non è dogmatico ma euristico: il suo valore non è quello di tranquillizzarci con certezze autorevoli, ma di offrirci cornici, orizzonti interpretativi e comparativi. Per questo sarebbe forse meglio parlare di mappe più che di canoni. E i libri che entrano nella mappa più che classici imprescindibili o idoli da venerare sono libri capitali o testi di formazione. Per evitare il rischio di soggettivismo nel disegno della mappa (rischio che esiste comunque anche nella formazione di un canone o semplicemente di una lista) occorrerebbe ragionare più approfonditamente sul ruolo della comunità di lettori e sulle sue dinamiche di confronto interno ed esterno.

Beatrice Fini: Non posso neppure immaginare che non ci sia più posto per un canone, è come se sostenessimo che non c’è più posto per ricordare, per guardarsi indietro e fare tesoro della memoria, dell’esperienza, della storia. Questa è la prima reazione, di pancia, certamente; poi guardo la realtà e penso ai ragazzi oggi, agli stimoli da cui sono sommersi, al mondo globale che li ha inghiottiti con forza e arroganza risvegliandoli bruscamente dall’infanzia, bruciando i tempi della crescita, della conoscenza, della scoperta ma che li ha pur dotati di strumenti innovativi, sconvolgenti e sorprendenti e forse, mi dico, il posto va ritagliato, ridisegnato, predigerito da noi adulti e offerto loro in sintesi, in forme differenti per poter essere accolto. Con questa intermediazione qualcosa si perde di sicuro: si perde l’esplorazione dei canoni, lo smarrimento di fronte a una scelta, l’errore ma anche il piacere inaspettato di ritrovare la strada, ma i giovani oggi non hanno tempo e vanno veloci, a volte troppo veloci. Quindi senz’altro sì, credo che sia più che mai importante oggi porsi il problema di quali siano le opere a cui si riconosce un valore “esemplare” non per proporre un’antologia mummificata, quanto, al contrario, per offrire strumenti di interpretazione del presente, che senza la consapevolezza di una memoria condivisa rischia di essere letto in modo parziale e superficiale. Un canone aperto e in perpetua evoluzione, che porti a una riflessione attiva sull’attualità facendo tesoro delle “storie” che si ritengono basilari.

Semmai la scommessa sta nel saper offrire ai ragazzi questi libri straordinari – non solo classici ma anche capolavori contemporanei – trovare il modo per proporre loro un testo o un autore che li affascini e li coinvolga tanto quanto fosse stato scelto da loro stessi o suggeritogli dall’amico piuttosto che dal genitore, l’insegnante, il libraio o il bibliotecario. Non è una questione anagrafica, molti ragazzi hanno la fortuna di instaurare rapporti di amicizia e confidenza con persone adulte, anche anziane, alle quali riconoscono un potere quasi magico di apripista, di consigliere. Si fanno raccontare con grande curiosità le esperienze, i ricordi, le storie. Un rapporto maieutico che diventa strategico per la formazione degli uni e la relazione con il mondo in divenire degli altri. Ecco, dovrebbero stare sullo stesso piano i consigli socratici del “maestro” e il passaparola, l’immagine di Instagram, il tweet o il post del compagno di banco.

Va tenuto conto, infine, che quello su cui noi ora ci “appoggiamo” è un canone occidentale, che percepiamo come “unico”, ma che in realtà è l’espressione di graduali e continui aggiustamenti determinati dall’evoluzione dei fatti e della storia. In questo senso, l’accelerazione delle relazioni e scambi tra i popoli dell’epoca in cui viviamo, ci porta a pensare che non ci sia più modo di istituzionalizzare un solo parametro normativo. Ci attende quindi una sfida più complessa: un nuovo approccio nel pensare a un canone non più esclusivo, ma inclusivo ossia capace di mettersi criticamente in discussione per evolvere. Un esempio concreto: un genere obbligato da cui un ragazzino deve passare è la forma diaristica. Gian Burrasca nato come un libro irriverente e provocatore è oggi il canone di riferimento classico per questo genere e attraverso Ascolta il mio cuore di Bianca Pitzorno siamo arrivati a Greg della Schiappa che ha mantenuto la tradizionale forma, lo svolgimento cronologico lineare, ma ha inserito elementi nuovi, ha estremizzato la contaminazione con il fumetto già presente in Vamba, e decorato il tutto con “sporcature” gergali.

Carla Ida Salviati: Il problema del canone è uno dei nodi irrisolti della nostra cultura: tuttavia è poco dibattuto, sia perché è un nodo controverso sia perché non credo ci si possa accontentare dalla sua mera destrutturazione. E, si badi, non è solo un problema della cultura umanistica e della letteratura in particolare; è un problema dell’intero sapere condiviso e investe tanto la storia quanto la filosofia quanto le scienze naturali, e così via. Ne sono esenti (ma solo in parte) le discipline dal forte statuto epistemologico, come la matematica o la fisica, per le quali senza i “fondamentali” è impossibile procedere. Ma persino per le cosiddette scienze esatte oggi il nodo c’è, eccome.

Fernando Rotondo: Il canone, elenco di opere e autori proposti come modello di una forma d’arte che corrisponde al patrimonio che l’istituzione scolastica dovrebbe trasmettere alle nuove generazioni, già da tempo non è più immutabile ma varia con i tempi e i gusti di chi lo propone e di chi lo accoglie. Più che di canone al singolare si può parlare di una pluralità di canoni. A metà Ottocento l’editoria diventa industria, la lettura si democratizza con l’entrata in scena del pubblico dei lettori, il canone si fa sempre più fluido e oggi liquido dietro la spinta del marketing e di un libertinismo lettoriale fortemente individualizzato. I libri “necessari” nei percorsi formativi per i giovani possono andare da Dante a Calvino, da Eco ad Ammaniti, da Dylan Dog a Zerocalcare. Come fare ordine, tracciare un sentiero, ora che il tram chiamato desiderio dei lettori sempre più spesso nei giudizi della critica all’incontrario va?

Piero Innocenti: Direi di sì. Il concetto di “canone” nasce come “regola” delle misure del corpo umano; fu elaborato da Policlèto, artista del V secolo a.C. Il medico Galeno, vissuto circa settecento anni dopo, lo condivide e lo spiega nei particolari: il busto misura 3/8 dell’altezza del normotipo, la testa 1/8, le gambe i 4/8 restanti (cioè la metà). Da allora si considerano belli i corpi umani (maschili, femminili o d’identità sessuale incerta) di proporzioni canoniche.

Quando però ammiriamo la falcata di Julia Roberts (le cui gambe si dice misurino 112 cm, su un’altezza di 175) che corre facendo pubblicità a una marca di calze, non ammiriamo il canone, ma una eccezione ad esso: affascinano, pare, sia la regola sia la sua violazione (cigno bianco e cigno nero, Odette e Odile: vecchia storia).

Regola e misura vanno di pari passo? Del nostro panorama culturale fa parte l’affermazione secondo cui nel mondo fisico «non esiste nulla fino a che non viene misurato» (Bohr), asserzione che richiede una scelta convenzionale dell’unità di misura che descrive il fenomeno (ma non interviene sul noumeno, direbbe Kant; ma forse lo modifica, direbbe Heisenberg).

Che la lingua possa essere convenzionale piuttosto che a priori è credibile fin dalla disputa fra analogisti e anomalisti (cioè da poco dopo Policlèto): è un terreno tranquillizzante, pragmatico e non metafisico. Se sono pattuibili, così come lo è il contratto sociale, sia la regola (il canone) sia l’unità di misura che ne valida il livello di attuazione, non può spaventarci la modellistica e la sua eventuale incombenza: a ben guardare, il canone aiuta a maturare, in noi e attraverso il dialogo coi nostri simili, la gestazione del nuovo canone.

In passato, il concetto di canone rappresentava una guida soprattutto nel processo di trasmissione alle giovani generazioni di una tradizione culturale che poteva poi essere contestata, sovvertita o dimenticata, ma con la quale bisognava comunque fare i conti. Da quali scelte, da quali testi o forme della testualità possiamo farci guidare, oggi, nel progettare percorsi formativi per le giovani generazioni?

Beatrice Fini: Nonostante l’enorme numero di novità pubblicate ogni anno, si possono individuare alcuni libri che hanno assunto il ruolo di “punti fermi”, di capisaldi della formazione giovanile: il Diario di Anna Frank naturalmente ma anche L’amico ritrovato, i romanzi di Calvino, Orwell, SiddarthaIl Piccolo Principe, La collina dei conigli, Rodari ma anche Tolkien e Pennac, insomma tutti noi abbiamo chiaro il pacchetto dei classici della letteratura moderna per ragazzi. Uno zoccolo duro comune che risponde a tante esigenze: quella della scuola dove gli insegnanti costretti a giocare troppi ruoli (a volte sostituiscono la famiglia, la legalità, la decenza del vivere umano) tendono a reiterare spesso lo stesso schema, quella delle famiglie che in tempi di crisi non devono comprare un libro nuovo perché lo hanno in casa, quella degli editori scolastici che tendono a inserire autori e libri già presenti nelle antologie dei concorrenti osando qua e là qualche prudente inserimento di novità che comunque deve andar bene sia all’insegnante di Aosta come a quello di Messina, insomma una rosa ben sedimentata di prescelti che accontenta tutti. Ma accontenta i ragazzi? I giovani leggono questi splendidi libri per piacere o per dovere? Quanti di noi hanno amato e goduto I Promessi Sposi, Omero, Lucrezio e l’Ariosto rileggendoli in età adulta! È solo perché non possiamo più scorrazzare con gli amici o forse anche perché è una lettura non imposta, non corredata da scheda bibliografica, commento e breve riassunto? Magari siamo affascinati da questi testi perché li sentiamo leggere stupendamente ad alta voce mentre siamo in auto o assistiamo a una rappresentazione scenica o comunque perché li leggiamo in libertà. E come possiamo pensare che proprio della parola “libertà” che ha come sinonimo concettuale “gioventù” sia privata la scelta della lettura? Per fortuna per quanto riguarda i lettori più autonomi (i cosiddetti forti che sono pochi, troppo pochi in Italia), a partire più o meno dalle scuole secondarie di primo grado, vediamo emergere spontaneamente romanzi che sopravvivono nel tempo e spiccano in mezzo agli altri canonici in gran parte per effetto del passaparola. Romanzi come Per questo mi chiamo Giovanni di Luigi Garlando o Wonder della Palacio dimostrano di aver saputo toccare corde profonde nei lettori.

Qualunque percorso formativo non può oggi che passare dalla creazione di eventi esperenziali, che lascino una traccia nella memoria emotiva. Letture ad alta voce, incontri con gli autori, laboratori ludici, drammatizzazioni (teatrali o video), scrittura creativa, o qualsiasi altra esperienza che consenta di vivere la letteratura come un evento caratterizzato da condivisione e empatia rappresenta un canale attraverso cui i contenuti valoriali, culturali e linguistici della nostra tradizione possono venire riconosciuti come vicini e identitari piuttosto che estranei e calati dall’alto. I libri devono diventare dei compagni di strada, non degli ostacoli da superare.

Al canone si arriva successivamente con un atto di testa e non di cuore, prima si deve essere in grado di far innamorare i ragazzi dell’atto di leggere e poi si sistemeranno i generi e gli stili. Ogni lettore ha diritto a un “suo” libro.

Quindi un assaggio di tutti i generi perché si può essere lettori di divulgazione scientifica come di graphic novel e arrivare successivamente al romanzo o alla poesia, pronti alle contaminazioni e alle nuove forme di espressione artistica in nome del grado di piacere che si prova nell’atto stesso della lettura. Senza perdersi di coraggio se rifiutano in toto alcuni generi o se sono spaventati dal numero delle pagine, dalla difficoltà del lessico. È un work in progress lento e piacevole scoprire di amare la lettura e, una volta consapevoli, vogliamo che duri più a lungo possibile in qualsiasi forma ci venga offerta, su carta stampata, in digitale, in audio. Non si perdono lettori con modalità differenti di supporto, semmai si rafforzano le file della comunità.

Piero Innocenti: Non me ne preoccuperei. Le generazioni che si avvicendano ci pensano da sé a elaborare il proprio canone: come sempre. Al giovane di oggi, Harry Potter può essere stato necessario tanto quanto lo erano altri libri per giovani del passato: non sostituzione, ma affiancamento (per un calzante esempio, interlinguistico, di ciò che intendo suggerisco l’edizione contrassegnata con l’ISBN 978-3-455-60031-5, Das große Miss-Marple-Buch di Agatha Christie, pubblicazione del 4 Settembre 2015).

Le sostituzioni di canone avvengono raramente con brutalità. Quando eventi grandi modificano il corso dei rapporti sociali e di produzione e le impongono, l’effetto è talvolta ridicolo: penso alla sublime idiozia del calendario rivoluzionario francese, che va di pari passo, 1793, con la geniale introduzione del sistema metrico decimale. Per non dire (idiozia senza nulla di geniale) della rinumerazione della così detta Era Fascista in Italia, 1922-1943.

Faccio un esempio di canone di lettura primaria evoluto molto lentamente: fra le fiabe (Märchen) dei fratelli Grimm e le “novelline” (Erzählungen) di Christoph von Schmid, press’a poco coeve quanto a composizione, le prime hanno prevalso solo per bradisismo: fino al 1900, Schmid compare in Germania in circa 190 edizioni e i Grimm in circa 130; fra il 1901 e il 2015 il primo rimane a 130, e i Grimm salgono a 1.329. Poiché Schmid era cattolico, ha un qualche significato registrarne la diffusione italiana, che conferma la linea di tendenza tedesca: in Italia egli ha avuto 524 edizioni fino al 1900, contro le 234 circa dei Grimm; 26 edizioni fra il 1901 e il 2015 (l’ultima delle quali nel 1971: ciclo esaurito da tempo, si direbbe), contro le 526 dei Grimm.

Il canone potrebbe anche definirsi come ciò che serve per stare in conversazione coi proprî simili, cogliendo testo, peritesto e sottotesto di quanto vien detto/scritto. Lo crea la socialità, con le pressioni di sconfinamento dal significato che i mezzi di comunicazione esercitano sul percipiente. Il luogo in cui se ne manifesta l’efficacia massima è la conversazione musicale: il canone inverso, retroagendo l’esecuzione diretta, genera il metacanone come insieme delle due, e partecipa del sublime.

Può essere citata ad esempio la rivisitazione, stridente al primo ascolto, del jingle pubblicitario (salumi) il cui ritornello reca «Le stelle sono tante | milioni di milioni» sopra una linea melodica di mezzo secolo fa, alterata da dissonanze; lo scopo è carpire l’attenzione di chi ne udì la prima versione, perché si faccia mediatore del prodotto verso figli e nipoti: si pone un obiettivo intergenerazionale (quindi canonico), e buon appetito davanti agli stessi salumi.

Fa cosa analoga Thackeray con Goethe, parodiandone in inglese tutto il Werther in quattro quartine; fa la stessa cosa, al quadrato, Ragazzoni, parodiando sia Goethe sia Thackeray: anche lui in quattro quartine, endecasillabi contro ottonarî (rispettivamente: Werther had a love for Charlotte Il giovane Werther amava Carlotta). Senza il Werther, sono incomprensibili: ma chi conosce Werther non conosce solo Goethe.

Differenza sostanziale con quel passato: chi non partecipa del canone è fuori, e sono vani i suoi tentativi di rientrare (Martin Eden, di Jack London, 1909); il lettore di oggi invece ha più sentieri informativi per riscontrare e recuperare ciò che non ha capito, ma se non ha il canone della cultura di base, non si accorge che c’è qualcosa da capire.

Isolarsi dal contesto vociante e sprofondarsi nella gestazione del proprio canone è, penso, ricetta tuttora valida: l’autorità di mille non vale quanto l’umile ragionamento di un singolo (Galileo); e anche secondo Bachelard vi è un solo mezzo per far progredire la scienza: dar torto alla scienza costituita. Né ciò vale solo per la scienza: quando Durkheim osserva che lo scarto dalla norma di oggi può costituire l’etica di domani, non parla di scienze pure.

Gian Arturo Ferrari: Si tratta di una scelta generale di politica culturale, che spetta, in quanto tale, ai governi. È difficile pensare a un grande Paese moderno, quale l’Italia è o dovrebbe essere, che rinunci a trasmettere la propria identità culturale. È difficile pensare a quel medesimo Paese che si limiti alla propria tradizione e non dia spazio nella propria scuola a Shakespeare, a Tolstoj o a Proust. Ed è parimenti difficile immaginare una scuola impenetrabile di fronte alle forme di comunicazione oggi più praticate. Bisogna studiare e mettere in atto compromessi giudiziosi: dare ai giovani la possibilità di venire in contatto con il sublime – Dante o Leopardi o Shakespeare –, ma anche di farsi prendere dai meccanismi narrativi e di sperimentare le relative emozioni, e insieme di verificare e far proprie le possibilità che oggi si offrono. Il problema è pratico, il terreno aperto alle prove e agli errori.

Carla Ida Salviati: Nel bene e nel male, la vestale del canone è la scuola. E per aver assolto a questo suo ruolo “trasmissivo” si è presa le più forti bordate della contestazione sessantottina. Però il Sessantotto è ormai antiquariato: quel che stupisce è come davvero non si sia elaborato un canone alternativo (niente Manzoni ma Pasolini, per buttare lì una provocazione). Piuttosto si accetta silenziosamente di ignorare Dante o Machiavelli o Agostino (per limitarci all’ambito letterario), che per decenni la scuola ha insegnato (o ha cercato di insegnare, magari senza successo: ma questa è altra questione). Che cosa si sia sostituito a questi “padri nobili”, che chiamiamo “classici”, davvero non lo so. L’impressione è che oggi la scuola vada molto “a braccio”. I “programmi”, d’altra parte, lasciano largo spazio alla mai abbastanza rivendicata “libertà didattica”; nella scuola dell’obbligo, poi, a sottolinearne la “non direttività” (parola magica in tempo di decentramento amministrativo) non si chiamano neanche programmi ma “indicazioni per il curriculum”. Insomma, sembrano dire: leggete quel che vi pare, studiate quello che la vostra scuola sceglie (non il sistema d’istruzione, attenzione) per la sua proposta formativa. Tutto molto bello, a parole; molto confuso, però, se lo sguardo si allarga, oltre le contingenze dell’esame di licenza, al futuro culturale del Paese. Fa riflettere che il ruolo di trasmettitori del canone venga assunto, alla fin fine, dai libri di testo. I manuali devono, giocoforza, selezionare una parte di sapere: ma più che agli esperti e ai pedagogisti essi mi sembrano sottoposti al mercato. Le antologie costituiscono, al nostro proposito, un interessante campione: alcuni anni fa mi occupai della presenza della poesia in quelle per la scuola media. Rilevai tra l’una e l’altra ampie e stimolanti differenze di impianto critico e di didattica, ma assoluta somiglianza nella scelta dei poeti e persino delle singole poesie: il gettonatissimo Ungaretti, il Saba della capra semita, il Levi di Se questo è un uomo diventano infatti una sorta di tormentoni scolastici. Per contro stridono le assenze: il dimenticato – ancorché immenso – Dino Campana, il Giovanni Pascoli più moderno. Insomma, a fronte di un curriculum sempre più fluido, nei fatti sono gli editori a costruire il canone dei nostri tempi: e nessuno si discosta troppo dagli altri per non perdere quote di adozioni. Le novità troppo accentuate, è noto, tardano ad affascinare gli insegnanti.  

Chiunque abbia un po’ di consuetudine con la formazione degli adulti – dai giovani in università ai professionisti in aggiornamento – sa bene di non poter fare più riferimento a letture condivise. Persino frasi entrate nel linguaggio comune come “quei due sono il gatto e la volpe” oppure “quel tizio non è un cuor di leone” oppure ancora (ma qui andiamo sul difficile) “quell’uomo era il Michele Strogoff del loro amore” (e cento altre similari) sono orami del tutto slegate da letture e contesti comuni. Insomma, parliamo lingue diverse. Il guaio è che, se vedo la morte della vecchia lingua, non riesco a intravvedere la nascita della nuova.

Tutto questo ragionamento, che potrebbe sembrare nostalgico del buon tempo antico, impone però una domanda: se il canone tradizionale è andato a gambe all’aria, qualche falla doveva pur averla. D’altronde è durato assai a lungo, ben saldo nella granitica impostazione storicistica dalla quale, nonostante le bordate, non ci siamo mica poi emancipati del tutto. Certo, oggi esso ci appare del tutto anacronistico per una realtà fluida (“liquida”, si dice…), che sfugge a tentativi di interpretazione totalizzanti. Attrezzati solo del nostro relativismo e della nostra inquietudine, non so neppure se sarebbe sufficiente sostituire un Saviano a un Carducci, un Tondelli a un Verga… Forse sarebbe meglio accontentarsi di una piccola base comune (un “piccolo canone”?), e poi dare via libera a tutte le letture individuali possibili. Ovvio che, perché questo possa avvenire in chiave di democrazia culturale, è indispensabile saper tutti leggere, e saperlo fare molto bene e con spirito critico.

Luca Ferrieri: C’è un tratto di assolutismo proprietario in ogni idea di trasmissione o anche solo di eredità culturale. Non perché il passaggio di un testimone, l’attecchire e il riprodursi di un filo di letture o di una koinè culturale non siano importanti, al contrario. Ma sono la direzione e la modalità del processo a deciderne il senso. La trasmissione di per sé è broadcasting, è a senso unico, quasi sempre da uno a molti. Il processo di scambio culturale invece avviene da uno a uno, o da molti a molti, in entrambe le direzioni, con carattere di tendenziale reciprocità. Non è un’investitura dall’alto o una forma di plagio e di epigonismo postumo. Come diceva Borges, sono i successori a scegliersi i precursori. Per questo più che di trasmissione, con specifico riferimento alla lettura, parlerei di iniziazione, di contagio, di contaminazione, qualcosa che molto spesso avviene fuori dalle strade, appunto, canoniche; in ambienti esposti ai flussi, alla migrazione e alla promiscuità culturale. Il materiale per il contagio deve essere reso disponibile e accessibile, e questo “fattore di approvvigionamento” è un compito insostituibile delle biblioteche, che oggi avviene in un contesto di transizione e mutazione delle forme testuali, per effetto della rivoluzione digitale ma anche per effetto dei movimenti di partecipazione e riappropriazione. La dieta culturale delle nuove generazioni è sempre più variata: pluralità di fonti, di agenzie, di forme comunicative contribuiscono alla formazione. La scuola ha perso da tempo un monopolio che non le ha mai giovato. È formativo – dal punto di vista delle forme testuali – ciò che permette e favorisce l’interazione e la combinazione di media diversi, che hanno età e linguaggi diversi, ciò che combatte ogni monocultura, compresa quella digitale, ovviamente.

Gabriele Pedullà: I due principi per fissare una serie di testi canonici rimangono la loro significatività storica e la loro qualità formale-intellettuale. Spesso ovviamente coincidono, ma ci portano a vedere cose molto diverse negli stessi testi. Posso leggere la Commedia perché altrimenti non capisco cosa è stato il Medioevo e difficilmente potrei entrare nelle tantissime opere successive che con essa dialogano; oppure posso mostrare le opzioni poetiche e filosofiche profonde che la sorreggono e la meravigliosa complessità (a tutti i livelli) dell’opera dantesca (al limite imparare da Dante come fare poesie a mia volta).

Si tratta ovviamente di opzioni assai distanti. Il principio della significatività storica si è imposto nelle aule solo con il Romanticismo e con il suo almeno parziale riconoscimento della legittimità di gusti altri rispetto a quello contemporaneo. Per tre secoli di classicismo Dante era stato emarginato nelle scuole, perché solo Petrarca era giudicato meritevole di essere imitato in base a quel principio di qualità che, in un sistema classicista, costituisce l’unico valore possibile nella formazione di un canone. I romantici invece hanno accettato che anche Petrarca avesse un posto nelle loro storie, seppure su un livello più basso rispetto al prediletto Dante. La soggettività qui ha ammesso uno spazio di tensione tra due modelli alternativi e per molti versi inconciliabili. La ricchezza della letteratura del XX secolo è in parte anche il risultato di tutte queste profonde tensioni all’interno del canone delle opere, scolastico e non.

Nel caso della significatività storica, per la letteratura italiana i veri irrinunciabili rimangono otto: Dante, Petrarca, Boccaccio, Machiavelli, Ariosto, Tasso, Manzoni e Leopardi. Ogni studente delle superiori dovrebbe imparare a conoscerli bene. La tradizione si è costruita attorno a loro; senza questi tasselli base (in quanto autori costantemente presenti a tutti coloro che hanno letto o scritto per secoli nel nostro idioma) non si può capire nulla del resto. Gli autori che meritano di essere letti per le loro qualità sono ovviamente molti di più. Ma questi otto costituiscono il vocabolario letterario di base. Un discorso simile si può applicare a qualsiasi campo ovviamente (e sarebbe interessante sentire le opinioni di un germanista o di un ispanista, per esempio), ma non mi avventuro in territori non miei.

Piero Boitani: Non vedo perché non dovremmo comportarci come in passato, ma allargando i confini ed elaborando canoni dinamici. Le “giovani generazioni” avranno tutto il tempo di contestare, sovvertire e dimenticare. Ma se non leggono Omero o Dante a scuola non li leggeranno mai più, e spesso non sapranno neppure chi sono. E saranno più povere. Alla City di Londra, assumono di preferenza i migliori laureati di Oxford, Cambridge, Londra ecc. in Humanities, non in Management, Economia o Banking. Perché? Perché il management, l’economia e il banking glieli possono sempre insegnare alla City, ma l’elasticità, l’originalità, l’intraprendenza non gliele può insegnare la City: quelle vengono ai giovani dalle letture di letteratura e storia che hanno fatto prima, seguendo canoni più o meno espliciti, ristretti o vasti. Non è beneficenza, è un investimento nel futuro.

Maurizio Ferraris: Nel Novecento, sotto l’impulso di tecnologie come il telefono, la radio e la televisione, si prediceva la “fine della scrittura”. Oggi abbiamo un fenomeno radicalmente diverso, e inverso: l’esplosione della scrittura, e soprattutto della registrazione. Ogni momento della vita è registrato, dunque è passibile di ripetizione e, virtualmente, di canonizzazione. Di fronte a questa circostanza, si possono immaginare due esiti.

Il primo è che il canone si particolarizzi, si regionalizzi, si moltiplichi in una miriade di sub-canoni effimeri e locali, al limite puramente individuali, il che comporterebbe il venir meno della stessa idea di “canone”. Sarebbe una catastrofe in senso tecnico ed etimologico, ossia, nel greco di Aristotele, una katastrophé, il rovesciamento o la rivoluzione radicale che pone fine al dramma.

Personalmente preferisco immaginare un altro finale, meno fatalistico, e in cui gli uomini di cultura, le scuole e le università possano giocare qualche ruolo. In questo happy ending il canone riesce a rinnovarsi. Non certo attenendosi a una lista volenterosa e un po’ velleitaria di libri da non perdersi, a meno che per qualche calamità documentale non si salvino, per avventura, solo quelli. Ma, piuttosto, accogliendo nuovi titoli, e facendo sì che diventino canonici quanto Omero e Shakespeare. Ossia che risuonino nei nostri discorsi e nei nostri pensieri, o, mal che vada, che siano conosciuti da tutti, magari più per sentito dire che per frequentazione diretta, che è il segno inconfondibile del Classico, dell’autore orgogliosamente entrato nel Canone occidentale.

Fernando Rotondo: Provo a rispondere con un case study (strettamente personale).

Come nasce un lettore. A otto anni, in quarta elementare, lessi il primo libro da cima a fondo, Le tigri di Mompracem, insieme alla “Biblioteca dei miei ragazzi”, che mi insegnarono che leggere è bello. Al termine del liceo con dei compagni comprai a rate alcuni libri da un camioncino di Einaudi sulla piazza del paese in Sicilia; ero quello che leggeva più di tutti e di tutto, dalla Medusa che prendevo in biblioteca al «Corriere dello Sport», dal Giallo Mondadori a Urania, ma non conoscevo Pavese ed Hemingway (la scuola, malgrado che i professori fossero colti e seri, non mi aveva dato niente). Quando lessi I quarantanove racconti, soprattutto Un posto pulito, illuminato bene e I killers, rimasi sbigottito: ma questo è un extraterrestre, mi dissi leggendo quei dialoghi secchi come spari, abituato com’ero allo stile ciceroniano, sostantivo-due aggettivi, sostantivo-due aggettivi, molto apprezzato nei temi. La luna e i falò nella mia ingenuità e ignoranza giovanili lo lessi come un testo marxista con le classi subalterne aggressive che scalzano quelle superiori inette, e solo più tardi capii che si parlava di qualcosa di più grande, del mito.

Interpretazione: ero entrato nella modernità letteraria, seppure per vie non canoniche. Quelli erano i libri a me “necessari”, perché mi dicevano cose che non potevano essermi dette altrimenti. È un’altra via: non solo partire da canoni, ma da altri testi più affabili per risalire a ritroso ai classici, ai miti.  

Nella sua esperienza di lavoro, c’è ancora un rapporto fra i momenti di selezione dei testi (per lettura personale, per acquisti nel caso delle biblioteche, per la stesura dei programmi di studio per corsi scolastici e universitari, per la scelta di cosa pubblicare, o tradurre, o recensire…) e l’idea che i testi scelti debbano comunque appartenere in qualche forma a un canone di riferimento?

Luca Ferrieri: Certo, c’è e ci deve essere sempre di più, anche se, alla luce di quanto detto, il rapporto può essere rovesciato e l’appartenenza al canone può diventare perfino fattore di esclusione, perché le scelte devono rispondere all’esigenza prioritaria di creare ambienti di contaminazione e di riproduzione della lettura, e non di conservare una tradizione. Ultimamente l’attenzione delle biblioteche e dei bibliotecari sul momento e sui criteri della scelta e della selezione mi pare sia scesa ulteriormente e questo lo trovo negativo, come se l’ambiente digitale non rendesse ancora più necessaria e urgente la selezione critica, il posizionamento della biblioteca, la militanza bibliotecaria. La relativa perdita di importanza delle collezioni, o il loro assemblaggio “post-coordinato”, attraverso processi di ricerca e montaggio estemporanei, non giustificano affatto la visione della biblioteca come ricettacolo passivo di tutto quel che passano il mercato o la rete. Se si pensa di evitare il “crepuscolo delle biblioteche” (Virgile Stark, Crépuscule des bibliothèques, Paris, Les Belles Lettres, 2015) con l’annacquamento, la neutralità e l’assimilazione, o il consolatorio rifugio in un generico ruolo di “miglioramento della società”, non si fa altro che favorire la loro marginalizzazione e “disintermediazione”.

È chiaro che la selezione di testi per la lettura personale, o per l’acquisizione in una biblioteca pubblica, o per una pubblicazione editoriale, ubbidiscono a logiche e finalità molto diverse tra loro. Eppure il dibattito di tutti questi anni sulla possibilità o necessità di essere “bibliotecari lettori” o “insegnanti lettori”, indica che i confini non sono così rigidi e che queste e altre professionalità debbono conoscere dall’interno le passioni e i travagli della lettura se vogliono contribuire ad alimentarla. Il momento della scelta (di cosa leggere, di cosa acquistare, di cosa pubblicare, di cosa promuovere) diventa proprio il fattore unificante delle diverse professioni del libro, anche perché rappresenta un movimento e un atteggiamento fondante della “mente che legge”.

Gabriele Pedullà: La risposta cambia molto a seconda dei diversi casi prospettati nella domanda. Lettura personale: tendo a essere molto canonico nelle mie letture. Coltivo la lettura come principale strumento di autoeducazione e – accanto a un gran numero di testi contemporanei e persino stravaganti – di questa autoeducazione fa parte il progetto o il sogno di impossessarmi del maggior numero possibile di autori di quello che una volta era il Canone con la lettera maiuscola. Impossessarmene vuol dire assai più che leggerli: muovermici con un certo agio, entrarci in confidenza profonda, stabilire connessioni impreviste tra di loro mediate dal mio sguardo. Se vogliamo: “dare del tu” ai loro autori, cioè stabilire una relazione partecipata e non più filtrata dall’ovvio rispetto per gli spiriti magni che impariamo a scuola e che va bene per il primo approccio, inevitabilmente riverente, ma poi va messo da parte (anche se per questo ci vogliono anni). E poi la verità è che nulla mi piace tanto quanto rileggere. Solo per dare un’idea di questo mio atteggiamento, nei primi sei mesi del 2015 ho riletto integralmente per mio piacere Iliade, Odissea, Eneide, CortegianoLes choses e W. di Perec, i racconti di Maupassant e i racconti di Čechov. In alcuni casi non lo facevo da vent’anni (ed è stata una esperienza magnifica, proprio perché per la prima volta con alcuni di loro sentivo di costruire quella intrinsecità che, quando li leggi da adolescente o da studente universitario, ti è preclusa). Alla fine mi ritrovo a essere molto canonico anche perché rileggo spesso i latini e i greci e nel loro caso, per quanto uno possa ambire alla originalità immergendosi in Erodiano o in Procopio di Cesarea, si finisce spesso tra le Grandi Opere.

Corsi universitari: oggi è obbligatorio essere canonici. Puoi fare un corso monografico su Niccolò Tommaseo o su Pietro Giordani solo se i tuoi studenti conoscono già passabilmente bene Manzoni o Leopardi, cosa che non è più affatto scontata. Con il Novecento, che molti non hanno mai incontrato negli anni delle superiori, ciò è probabilmente ancora più vero. Di anno in anno concepisco corsi molto diversi e li ruoto spesso, ma l’idea di fondo rimane che – almeno al triennio – gli studenti leggano solo autori di primissima fila e riescano a farsi un’idea di base della letteratura del XX secolo. Diverso è il discorso per il successivo biennio, nei corsi di laurea magistrale, dove provo ad azzardare di più. Spesso rileggo i classici esplicitamente in vista dei corsi: ovvero uso i corsi per obbligarmi a riprendere in mano degli autori che nel tran tran della vita professionale uno potrebbe abbandonare alla lontana memoria delle letture adolescenziali.

Saggistica: come saggista, invece, tendo a essere piuttosto anti-canonico; credo cioè alla importanza di difendere un canone assai più ampio di quello che sembra sul punto di imporsi in questo principio di XXI secolo così spesso troppo smemorato. Per gli autori otto-novecenteschi, in particolare, mi piace occuparmi di figure che per le ragioni più diverse non sono state abbastanza riconosciute, al di là dei banali Verga Pascoli D’Annunzio Svevo Pirandello Gadda Montale Ungaretti Calvino Levi Pasolini ecc. Ho scritto occasionalmente di alcuni di questi giganti, ma davvero non sento molto il bisogno che si continui a rimpinguare le loro bibliografie (tra coloro che continuano a farlo, ovviamente, ci sono quelli così bravi che riescono ogni volta a dimostrare l’erroneità di questa mia affermazione…). Mi sono invece battuto, e mi batto, per il pieno riconoscimento di autori non meno grandi di loro come De Roberto, Bontempelli, Brancati e Fenoglio. È più difficile ancora, ma ho cercato di fare qualcosa di simile anche con alcune figure più remote: per esempio con il grande storico di Roma antica Dionigi di Alicarnasso (fonte oggi ignorata di gran parte del pensiero politico europeo tra Machiavelli e Montesquieu). E in altri casi ho proposto la rivalutazione di autori condannati dalla storiografia per le ragioni più diverse come gli umanisti Francesco Filelfo e Francesco Patrizi da Siena e il filosofo peripatetico Agostino Nifo (ingiustamente accusato di aver plagiato il Principe). In effetti l’unico scrittore ipercanonico di cui mi sono occupato con continuità è proprio Machiavelli.

Carla Ida Salviati: Mi viene in mente la mia recente esperienza di coordinatore del Gruppo di lavoro per la scelta dei libri del progetto In vitro promosso dal Centro per il libro e la lettura. A parte le selezioni per 0-6 anni (assai libere, per nostra fortuna), quelle 6-10 e 11-14 hanno avuto al centro proprio il nodo del canone: un bel filo da torcere, va detto. In vitro è un progetto sperimentale e il compito nostro stava nell’identificare trecento libri da inviare a scuole che avevano presentato interessanti progetti di promozione della lettura. Inevitabilmente, ci siamo dovuti confrontare con la lettura a scuola e della scuola. Quali libri, dunque? Il Gruppo, composto in prevalenza da bibliotecari, si è molto confrontato. L’intoppo più grosso è arrivato con gli autori più noti (o ritenuti tali): «Rodari no – sostenevano alcuni –, a scuola lo leggono già tutti!»; «Ma neanche Astrid Lindgren: chi non conosce Pippi Calzelunghe?»; «Non manderemo mica Pinocchio! Gli insegnanti penserebbero che vogliamo offenderli…». Lunghi dibattiti, anche perché volevamo far arrivare libri attuali e di qualità, questo non era certo in discussione! Si è trovata una soluzione di compromesso, identificando in una apposita sezione alcuni titoli “imperdibili” che infine abbiamo chiamato – anche con un po’ di sorriso – “i (quasi) classici”, ossia libri di autori contemporanei che hanno segnato una svolta nella letteratura per ragazzi (Ascolta il mio cuore di Bianca Pitzorno, Favole al telefono di Gianni Rodari, Io mi ricordo di Roberto Piumini, per citare qualche esempio). Insomma, non abbiamo “offeso” i docenti inviando a scuola la Austen o il Vamba (che certo tutti conoscono benissimo e sollecitano i ragazzi a leggere… O almeno vorremmo di questo essere convinti…); però abbiamo “osato” un’idea di piccolo canone della letteratura giovanile di oggi. Potevamo fare altre scelte, beninteso, tutto è opinabile; e certo non tutti saranno soddisfatti del nostro operato. Diciamo che abbiamo buttato un sasso nello stagno. Vedremo.

Maurizio Ferraris: Fortunatamente la filosofia è una disciplina, malgrado le apparenze, estremamente canonizzata. Kant insisteva sul fatto che in filosofia non esistono classici, c’è un po’ il mito del pensiero puro che va alle “cose stesse”, ma di fatto il commento prevale, e il commento insieme presuppone e genera il canone. Whitehead ha detto che la filosofia è una nota a piè di pagina a Platone, e non aveva torto. Preciserei solo che quella era la filosofia antica. La moderna è stata una nota a piè di pagina a Kant. E la contemporanea una nota a piè di pagina di Nietzsche: l’idea di distruzione della metafisica, così forte nel Novecento sia tra analitici sia tra continentali, è stata una via per cui (tra i continentali) si è reintrodotto in grande stile il canone, sia pure in negativo: si trattava di dimostrare quanto razzista fosse Aristotele, quanto idealista Cartesio, quanto etnocentrista Hegel, ma, alla fine, il canone c’era, e chiaro e forte.

Se posso citare la mia esperienza personale, visto che gli autori decostruiti da Derrida coincidono esattamente con la lista canonica dell’Agrégation francese, e visto che per capire Derrida quando ho incominciato a studiarlo me li sono letti tutti, posso dire che tra quei testi e i classici – da Platone a Hegel – che, per una eccellente iniziativa che si è conservata a Torino, dove sono stato studente e dove ora sono professore, bisognava studiare per affiancare gli esami “teorici” (teoretica, morale, estetica), ho avuto una Bildung filosofica fortemente canonica. Non me ne pento affatto, anzi ritengo che sia stata la cosa migliore della mia formazione universitaria e post-universitaria, che ha controbilanciato la tendenza mia (e in genere di tutti i giovani) verso le novità e i derniers cris del pensiero. Le cose però vanno diversamente tra i filosofi analitici. Quelli che hanno la mia età o sono più anziani di me hanno spesso una conoscenza ammirevole del canone, ma i più giovani (come del resto i loro colleghi inglesi e americani) sono molto meno canonici, o meglio il loro canone si riduce ai venti articoli importanti (in genere degli ultimi cinque anni) per l’argomento che stanno affrontando in quel momento.

Fernando Rotondo: Nel mio ambito di studio e lavoro – la letteratura per l’infanzia primariamente e poi la narrativa popolare e di genere – dopo aver superato le secche della novecentesca querelle sull’imprescindibile questione dello “statuto epistemologico” della materia, si è deciso, tacitamente e pragmaticamente nonché proficuamente, di procedere di conserva: ci sono testi pubblicati per bambini ragazzi adolescenti o che da questi vengono letti, dunque studiamoli, parliamone e scriviamone, di libri lettori autori editori biblioteche scuole librerie. Il regista Monicelli diceva che il cinema è arte applicata all’industria; parafrasando, l’editoria per l’infanzia è narrativa e illustrazione applicate all’industria.

Per il semiologo Stefano Calabrese la letteratura per l’infanzia è ormai entrata nei comparti alti della letterarietà, è sempre più qualcosa che si rivolge ai bambini fra i cinque e i tredici anni [ma in realtà comincia da zero], la globalizzazione dei crossover (a partire da Harry Potter) ha di fatto annesso i testi destinati agli adolescenti al mercato della lettura per adulti. Un canone di riferimento della letteratura giovanile non può che essere gassoso.

Piero Innocenti: Naturalmente sì. Una parte estesa della mia attività di ricerca e di comunicazione dei suoi risultati è consistita nell’applicarsi teoricamente e strumentalmente alla mediazione bibliografica fra produzione scritta e lettura. Il mio primo lavoro (1967) fu in un gruppo editoriale: redattore (uno dei) addetto a seguire Francoforte; il canone era chiaro: ai redattori la rosa di testi da proporre, al settore commerciale la scelta, ai redattori, di ritorno, la messa in opera della confezione. In quattro parole: quanto costa/quanto rende.

Dal 1969, per una quindicina di anni, fui bibliotecario, poi direttore di biblioteca; produzione di servizî e non di merci quindi canone meno brutale: analisi della vocazione in divenire delle collezioni della biblioteca e del suo pubblico, addestramento finalizzato del personale, organizzazione. Non mancarono nel periodo occasioni editoriali di messa in pratica della teoria: il coordinamento della edizione italiana del Manuale internazionale di bibliografia di Totok-Weitzel (1979-1983, ai miei occhi la più importante), la collaborazione alla seconda edizione della Guida alla formazione di una biblioteca pubblica e privata (1981: riaccese un dibattito che la prima edizione aveva suscitato, a partire da «Quaderni piacentini»), infine la revisione finale del volume bibliografico della Enciclopedia europea Garzanti (1984): caleidoscopio di punti di vista, generali e speciali, su canone bibliografico e pratica di lettura. Tre episodî intrecciati di una stessa riflessione che quando, nel 2001, mi capitò di riprendere, con una mia allieva, commentando la progettazione di una nuova biblioteca pubblica (Pistoia), si rivelò ancora produttiva.

Passato alla ricerca scientifica, tutt’oggi mi confronto con letture individuali, sociali e canoni di lettura (storici e funzionali): senza un canone non si lavora, è come voler disegnare una circonferenza a mano libera (ma Giotto ci riusciva…).

Piero Boitani: Sì. Ma in maniera non programmatica, organica, a meno che non si tratti di scegliere testi per un corso universitario di base. Insegno Letterature comparate. Quando scelgo i testi per il triennio, cerco di fornire un’idea del complesso della letteratura del passato (possibilmente dal IX secolo a.C. all’altro ieri). Certo questo complesso è frutto di un mio canone personale, formato in più di cinquant’anni di letture e in quarant’anni di insegnamento. Però mi pare funzionare. Non c’è studente che resista all’Odissea, o a Paolo e Francesca, o ad Amleto. Pochi, anche, sanno resistere a Emily Dickinson, a Moby Dick, a La morte di Ivan Il’ič, a Seamus Heaney o Derek Walcott. Il canone va presentato con oculatezza, badando al respiro delle opere… e dei ragazzi. Vorrei anche dire che un canone di questo tipo deve essere un delicatissimo equilibrio di libertà e costrizione. Ci sono cose che devono entrarci per forza – per esempio, il Secretum di Petrarca, senza il quale non si capisce il nascere della sensibilità moderna – ma ci deve anche essere la liberazione: che so, il romanzo d’avventure, il giallo, la fantascienza. Aggiungerei, anche, che per quanto possibile il canone dovrebbe essere multidisciplinare: non è più possibile che un ragazzo impari tutto sulla questione della lingua e Pietro Bembo e ignori la seconda legge della termodinamica, Michelangelo, Kant, e Mozart.

Quanto alla lettura personale. Ci sono stati anni in cui ho letto anche per coprire il cosiddetto canone tradizionale: non si diventa critici, e men che mai professori, se non lo si fa. Ma mi concedevo anche allora molte vacanze, rigetti e ribellioni. Ho sempre rifiutato di leggere il romanzo epistolare del Settecento, per esempio la Pamela di Richardson: è supremamente noioso, e la noia non è mai un buon criterio sul quale fondare la lettura. Meglio Dumas, o Verne: non li si metterebbe mai giù.

Gian Arturo Ferrari: La dimensione propria dell’editoria è quella esplorativa, di frontiera. Gli editori non si muovono in un mondo di valori costituiti, non sanno a priori quali sono i libri buoni, si sforzano di costruirli. Dall’avvento dell’editoria industriale, nella seconda metà dell’Ottocento e in Italia un poco più tardi, è entrato in scena un nuovo, misterioso e imperscrutabile personaggio, il pubblico, il quale determina i cambiamenti del gusto, l’affermarsi delle mode e, nel lungo periodo, il sedimentarsi e il solidificarsi dei giudizi di valore. Gli editori sono come àuguri, interpretano il volo degli uccelli per cercare di prevedere il futuro. Il canone non c’entra, non è di nessun aiuto, se non per il fatto che deve essere posseduto e pienamente padroneggiato da chi le scelte editoriali le compie. Specie nei settori considerati più popolari e meno colti, i cosiddetti libroidi. Per fare starbooks e libri di comici è consigliabile disporre di una solida cultura classica.

Beatrice Fini: Inevitabilmente e quasi automaticamente, per via dell’esperienza o del canone ormai introiettato, il riferimento di un testo a un gruppo codificato piuttosto che a un altro influenza certamente la selezione. Le scelte cercano spesso di coniugare l’aspetto della qualità (letteraria e tematico-contenutistica) con l’orizzonte di riferimento dei giovani lettori che è composto da una koinè di linguaggi diversi, ma che tendiamo a far confluire in una strada già battuta e validata. È un gioco di equilibri, di pesi e l’armonia, l’eterogeneità della proposta dovrebbe essere il principale obiettivo. Proprio per rispettare i canoni, ma anche per ampliarli, per accoglierne altri e aprire i confini. I lettori vanno accuditi, curati: ogni editor sa perfettamente quali sono i libri del proprio catalogo che regalerebbe volentieri a un giovane lettore, per donare momenti di irresistibile intrattenimento o per stimolare riflessioni su valori profondi. E qualunque adulto che si dedichi professionalmente o privatamente alla promozione della lettura può usare come filtro l’idea di selezionare con calore umano i doni più preziosi da passare in eredità ai ragazzi.

Indipendentemente dalla sua professione, le chiediamo di calarsi per un momento nei panni di un dirigente scolastico, di un insegnante o di un bibliotecario che vogliano creare una nuova biblioteca in una scuola che prima non ne disponeva: avendo a disposizione un budget limitato per la selezione dei testi da acquistare, da quali criteri si farebbe guidare nella scelta? 

Piero Boitani: Comprare tutti i “classici” che può, nel maggior numero di lingue possibili. E tra i “classici” metterei anche quelli della scienza, delle arti e della musica.

Maurizio Ferraris: Proporrei un criterio iper-classico, un po’ (mutatis mutandis) nello stile della Biblioteca di Fozio, sebbene la situazione sia opposta, di sovrabbondanza invece che di potenziale penuria. Dunque proporrei delle scelte vecchie, che rispondono a tutto ciò che normalmente non si trova nel web. La collana di letteratura italiana di Ricciardi, i classici filosofici della Bompiani (le traduzioni lasciano spesso a desiderare e tra i classici può saltar fuori Wojtyła, ma l’insieme è impressionante, economico e con testo a fronte), una buona collana di classici delle letterature straniere. Inserirei inoltre degli oggetti desueti, che probabilmente i ragazzi non hanno mai visto: dizionari, una enciclopedia, un atlante. E, quanto al resto, adotterei un accorgimento abbastanza semplice. Procurarsi un vecchio volumetto einaudiano, la Guida alla formazione di una biblioteca pubblica e privata. È del 1969, dunque la distanza storica è sufficiente per capire cosa appariva allora imprescindibile, e oggi non lo è più, e cosa invece ancora conta e importa. Con questo semplice accorgimento, si avrà un canone: ovviamente in movimento, come tutti i canoni, e soprattutto sbilanciato all’indietro, di nuovo come tutti i canoni.

Carla Ida Salviati: Non c’è una risposta univoca, buona per tutti. Bisogna valutare il tipo di scuola e quanto offre il territorio. Se in zona esiste una biblioteca pubblica efficiente, sarà bene raccordarsi per dare alla biblioteca scolastica una fisionomia peculiare indirizzata a sostenere soprattutto lo studio e lasciando all’altra il più piacevole compito di dedicarsi alle letture nel tempo libero. Per contro, se la scuola opera in una zona priva di biblioteche pubbliche, allora essa dovrà farsi carico anche delle domande di lettura meno “scolastiche”. Insomma, si dovrà ampiamente aprire al “contro-canone”. Che cosa scegliere, dunque? Si potrebbe partire dalle esigenze consapevoli, che possono essere indagate con questionari o inchieste. Una raccolta dei “desiderata” dei ragazzi potrebbe indicare il primo nucleo di libri per far partire una biblioteca in sintonia con i gusti degli studenti. Però non dimenticherei le esigenze dei docenti, e in seconda battuta chiederei anche a loro che cosa vorrebbero trovare nella biblioteca della scuola, sia per far meglio il loro lavoro sia per costruire quell’educazione alla lettura che oggi ci sembra tanto mancare. Attenzione però: bando ai pregiudizi! Non è affatto detto che i ragazzi esprimano sempre grande innovazione, e neanche che tutti i docenti si incaponiscano con Le mie prigioni. Mi piacerebbe dovermi sorprendere, e non è detto che ciò sia escluso. Ma il gioco ha qualche possibilità di riuscire solo se ci si mette in condizione di ascolto e di condivisione. Di biblioteche estranee e respingenti ne abbiamo anche troppe. 

Gian Arturo Ferrari: Dividerei il mio budget in tre e dedicherei il primo terzo al canone italiano, il secondo ai canoni degli altri Paesi europei e delle culture extraeuropee e farei scegliere l’ultimo agli studenti. Quello che vogliono loro. Non quello che piace ai professori. I quali professori, visto che il canone è il loro mestiere, sarebbe bene pensassero a come meglio avvicinare i ragazzi al sublime e lasciassero perdere la produzione contemporanea.

Luca Ferrieri: Credo che la risposta stia in un mix di criteri, anzi di ingredienti diversi (stiamo parlando di alta cucina, in realtà). Intanto c’è la soddisfazione dei bisogni dei lettori, qualcosa di più e di diverso dal semplice “gradimento”. Non esiste biblioteca che possa prescinderne, a meno di voler tornare a una biblioteca del principe sotto mentite spoglie. Poi vi è l’ambito della relazione con il canone e l’anticanone, di cui abbiamo già parlato. In parziale sovrapposizione con questa vedo la sfera del libro di testo e dei suoi satelliti (i testi di approfondimento, i testi di lettura legati ai programmi scolastici, i testi in lingua originale ecc.). La biblioteca scolastica deve svolgere anche una funzione di circonvoluzione e circonvenzione del libro di testo, seguendo e sviluppando tutte le direttrici che ne dipartono e quelle che tornano a lui come un boomerang. La biblioteca è, quasi per definizione, uno strumento riduttivo e interpretativo del pulviscolo informativo circostante. Il pulviscolo passa attraverso il filtro della biblioteca e genera un guadagno conoscitivo, organizzativo e ambientale. Anche la portata “ecologica” di certi testi, la loro capacità di attraversare il rumore come sonde purificatrici, è un valido criterio di selezione. E la selezione, per i suoi fini, le sue metodologie e i suoi processi decisionali, è sempre il contrario di un’operazione censoria.

Ai margini dei meccanismi di scelta si apre la faglia della lettura per piacere. È una zona fortemente sismica, che è stata prima bandita dalla scuola, poi addomesticata in funzione correttiva e ancillare, e che richiede un paziente lavoro di scavo delle età, dei gusti, dei linguaggi. Una zona di bighellonaggio curioso, di andirivieni sottratto a ogni redditività scolastica. Per nulla improvvisato, anzi, quasi sperimentale. La biblioteca deve selezionare testi e contesti anche in base al piacere che la lettura può suscitare, al desiderio che può accendere, alle situazioni relazionali e ai legami che può intrecciare. Se poi questo allargamento di campo configuri una riforma del canone, basata sulla sua capacità di rapportarsi alla “vera presenza”, come diceva Steiner, o un suo radicale e materialistico capovolgimento, lascio alla discussione.

Quanto alla promozione della lettura – che è un altro ingrediente della scelta – non è un evento che si innesta dall’esterno sull’offerta documentaria, è una sua componente interna che va portata al livello di emersione. In sintesi i criteri di formazione di una biblioteca scolastica devono rispondere alla necessità di stare dentro e fuori l’istituzione in cui si colloca. Nessun ambiente come quello scolastico ha bisogno di questa natura ancipite e anfibia della biblioteca. Quella scolastica è infatti la più polivalente delle biblioteche: in un attimo deve convertire i suoi scaffali in una spianata per collettivi di studio e gruppi di lettura, in una trincea o in un ponte levatoio, in un muretto di chiacchiere e solitudini, in una macchina del tempo.

Beatrice Fini: Scenario tanto affascinante quanto maledettamente difficile. Opterei per un mix: un quadrilatero formato da un po’ di classici certamente che restano le fondamenta per costruire qualsiasi ponte. Poi i temi, gli argomenti più vicini ai ragazzi, contemporanei e quotidiani. Naturalmente una qualità oggettiva di stile e scrittura che facciano da basi necessarie per la padronanza e l’uso della nostra lingua. E infine un’alternanza di scrittori italiani e scrittori stranieri. Su questi quattro criteri di base inserirei della divulgazione narrata, dei fumetti, dei libri di sola illustrazione senza parole, ma anche dei testi più alti e sofisticati, senza disdegnare qualche inserimento poetico o dialettale o di lingua italiana meno recente. Tutti, e dico tutti, scelti con il cuore, con il desiderio e la gioia di fare un regalo al nostro futuro.

Fernando Rotondo: Per creare una nuova biblioteca scolastica in una scuola con risorse limitate c’è poco da inventare, ma qualcosa a cui ispirarsi sì. Il metodo: a inizio del Duemila in Francia nella scuola primaria fu introdotto un progetto per l’educazione alla lettura in base al quale ogni alunno avrebbe dovuto leggere in un anno almeno dieci libri scelti in un elenco di 180 proposti da una commissione di esperti. Su questo modello oggi la scelta si potrebbe fare così: una commissione di insegnanti preparati, motivati, soprattutto appassionati alla lettura si colleghi in prima istanza alla biblioteca pubblica per lavorare insieme, poi dalle riviste «Liber» e «Hamelin» e dai loro siti ricavi bibliografie aggiornate e ragionate e, nel caso della seconda, costruite e sperimentate con studenti della secondaria. Obbligatorio coinvolgere anche i fruitori della condenda biblioteca, ascoltandone suggerimenti, proposte, richieste di partecipazione. L’equilibrio fra classici antichi e contemporanei (Twain e Alcott, Rodari e Pitzorno), bestseller (Rowling e Meyer) e novità di qualità (Ammaniti) è compito della sensibilità di chi ci mette competenza e passione.

Altro case study (anche questo autobiografico): Come nasce una biblioteca.

Nello stesso periodo, in Italia il Ministero della pubblica istruzione guidato da Luigi Berlinguer finanziò un programma in base al quale le scuole che avessero presentato un preciso progetto (locali e arredi attrezzati secondo standard biblioteconomici, acquisto di libri e altri materiali documentali, presenza di un docente distaccato con funzioni di bibliotecario e formato in apposito corso) per la creazione o lo sviluppo di una biblioteca avrebbero potuto ottenere un contributo di cento milioni di lire. Fui invitato a un incontro con insegnanti e genitori di una scuola media che partecipava al progetto. Durante la visita alla biblioteca il professore-bibliotecario raccontò che quella mattina era venuto un ragazzo mandato dalla professoressa per prendere un libro, ma non “Piccoli brividi” (libretti di una collana horror allora di culto). Il ragazzo non sapeva cosa scegliere, ma l’occhio gli correva irresistibilmente allo scaffale dove spiccavano i volumetti proibiti. Allora il “biblioprof” propose un compromesso: «Tu prendi un Piccoli brividi, lo metti in tasca e non diciamo niente alla prof; ma io ti darò anche un altro libro e la prossima volta mi dici se ti è piaciuto» (era Buchi nel deserto, che un’autorevole giuria di esperti aveva giudicato miglior libro dell’anno).

Insomma, professionalità magistrale, conoscenza dei libri, passione per la lettura, sensibilità e buonsenso devono darsi la mano.

Piero Innocenti: Per insegnanti, bibliotecarî, dirigenti scolastici bravi, sarebbe una intrusione se un estraneo si mettesse nei loro panni. Per quelli non bravi, vale ciò che ha detto una (bravissima) dirigente scolastica che conosco, commentando i confusi progetti italiani di riforma così detta della “buona scuola”: «Non dovevano darci il potere di chiamare, ma di licenziare». Se non ne faccio il nome per non esporla a linciaggio, ciò non significa che non la ritenga esemplare (canonica).

Gabriele Pedullà: I discorsi sul canone hanno una loro rilevanza per i critici, ma è solo alla prova dei curricula scolastici e delle scelte delle biblioteche che diventano concreti e scottanti. Qui però per rispondere servirebbero più informazioni. Una scuola di che livello? E con un budget quanto limitato? Sono variabili troppo ampie per rispondere in maniera non approssimativa. Abbiamo canoni da 100 libri, canoni da 1000 e canoni da 10.000, e conosco biblioteche scolastiche di tutte queste dimensioni. Un liceo classico del centro non è una scuola media di periferia, Roma non è Teramo eccetera. Non solo il tipo di libri, ma i criteri con cui sceglierli cambiano a seconda dei casi.