N.1 2015 - L'accesso alla conoscenza

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La conoscenza come “bene comune” e il valore giuridico della persona umana

Raffaella Messinetti

Comunicazione e ricerca sociale, Università di Roma La Sapienza; raffella.messinetti@uniroma1.it

Abstract

Il saggio affronta il problema della ridefinizione della categoria dei “beni comuni” partendo dall’allargamento della sfera teoretica dovuta alla duplice e reciproca influenza del diritto sul web e del web sul diritto. Da questo punto di partenza, appare necessario anche decostruire il consueto paradigma che lega i beni comuni al valore della persona, vale a dire criticare il principio proprietario come perno orientativo della società. Ne deriva una complessa operazione di riscrittura del rapporto pubblico/privato che ha come diretta implicazione la ridefinizione dei compiti del diritto privato, non più concepito come dispositivo neutrale di salvaguardia dei rapporti economici, ma come meccanismo di protezione del valore della persona e di affermazione della sua dignità. Emerge così anche il vero significato da attribuire all’espressione “eguaglianza digitale” che coniuga la possibilità di accesso al web con il carattere neces­sariamente “comune” della produzione culturale: attività dove la logica dell’appropriazione e dello scambio cedono il passo o devono cedere il passo ad un modello aggregativo solidale regolato ed orientato da obiettivi di eguaglianza e dignità delineati dallo Stato costituzionale.

English abstract

This paper addresses the problem of how to re-define the category of “commons”, prompted by the broadening of its theoretical orientation caused by the two-fold reciprocal influence exercised by the web on the law and by the law on the web. From this presupposition, it seems there is also a need to deconstruct the standard paradigm that links commons to the value of the individual; in other words to contest the property principle as the linchpin around which society is oriented. In the author’s view, this leads to a complex process of redrafting the relationship between public and private, whose direct outcome is a redefinition of the functions of private law, which is no longer conceived as a neutral device for safeguarding economic affairs, but as a mechanism that protects the value of the individual and guarantees his human dignity. We therefore arrive at the real meaning of the term “digital equality” which links the possibility of access to the web to the inescapably “common” nature of a cultural product: an activity in which the rationale of appropriation and exchange gives way to an in-built community-based model governed by and oriented towards objectives of equality and human dignity specified by the constitutional state.

Significato dei cosiddetti beni comuni e valore giuridico della persona umana. Il principio personalistico e i processi di qualificazione dei beni

Com’è noto, la più diffusa definizione della società contemporanea è quella di società dell’informazione e della comunicazione. Secondo un’autorevole os­servazione, in questa autorappresentazione non vi sarebbe alcunché di originale e distintivo perché, a ben guardare, «ogni età è stata un’età dell’informa­zione» e «i sistemi di comunicazione hanno sempre foggiato gli eventi».

Sembra innegabile tuttavia che i sistemi di comunica­zione della postmodernità abbiano innescato trasfor­mazioni straordinarie a partire proprio da una nuova dimensione della realtà vitale, (in)definita da coordina­te spaziali e temporali evidentemente inedite: il World Wide Web. Con altre parole: sembrerebbe che le nuo­ve tecnologie stiano tessendo la rete di un vero muta­mento antropologico, trasformando l’idea stessa che l’uomo ha di sé e del mondo in cui vive.

Anche l’esperienza giuridica sembra darne atto in virtù di un nuovo lessico dei diritti fondamentali della persona umana: il diritto all’autodeterminazione infor­mativa, all’accesso a internet, alla cittadinanza digita­le, all’integrità e la riservatezza dei sistemi informatici cui si affidano i propri dati personali, all’oblio. Un les­sico che prefigura, con l’imminenza di nuovi conflitti tra i valori giuridici fondamentali, l’esigenza di nuovi bilanciamenti.

In sintesi: il diritto starebbe riscoprendo l’antico lega­me tra persona e conoscenza, iscrivendolo al centro della sua visione dell’uomo e, di conseguenza, nel nucleo costitutivo – e dunque intangibile – dell’iden­tità del sistema costituzionale. Le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, da questo punto di vista, avrebbero “reinventato” la conoscenza in forme che la narrazione giuridica della contempo­raneità descrive con l’espressione conoscenza quale bene comune.

Credo che il piccolo contributo che la riflessione giu­ridica può portare a questo sforzo autoriflessivo con­sista nel tentare di verificare, con il rigore del metodo giuspositivista, quali siano le condizioni di senso e di validità di tale espressione sul piano del diritto positivo. Se osservata attraverso la lente del diritto, la multi­forme pluralità dei discorsi che vanno svolgendosi intorno ai cosiddetti beni comuni rivela un elemento unificante: l’esistenza di una relazione tra questi beni e il valore della persona umana.

Questo riferimento ha una doppia specificazione. In primo luogo, il valore della persona non è indetermi­nato ma rinvia a uno statuto semantico storicamente definito: le libertà e i diritti fondamentali attraverso cui la personalità dell’uomo si esplica nella contempora­neità. L’espressione “persona”, in questo senso, indi­vidua un canone che, come istanza culturale, appare capace di superare il contesto dell’esperienza giuridi­ca dello Stato costituzionale-democratico e percorre­re il mondo manifestando una singolare universalità: quella di una nuova condizione dell’uomo in quan­to tale. Questa istanza – come vedremo – intende contrastare la tendenza della lex mercatoria a dettare l’ordine della globalizzazione e imporsi come nuovo diritto naturale.

In secondo luogo, il legame tra beni comuni e per­sona è visto come costitutivo secondo una forma specifica: i beni comuni sono entità essenziali al go­dimento effettivo dei diritti e delle libertà fondamentali della persona. Questo vincolo di essenzialità svolge due funzioni: selezionare i beni rilevanti come comuni; orientarli verso modelli di comprensione e di regola­zione non soltanto diversi, ma anche opposti a quelli costitutivi della logica mercantile: il calcolo della con­venienza e la massimizzazione del profitto individuali. Infatti, la relazione con la persona dovrebbe connet­tere regolativamente questi beni al contesto dell’es­sere, nella sua capacità espressiva di una logica con­trapposta e prevalente rispetto a quella dell’avere. Ciò avverrebbe per una ragione: la disfunzionalità del principio proprietario rispetto alla gestione dei beni comuni. L’idea è che, proprio perché essenziali allo svolgimento della personalità dell’uomo, questi beni non debbano essere utilizzati secondo il model­lo dell’attribuzione individuale e dello sfruttamento esclusivo: un modello inappropriato a comprendere e realizzare le “ragioni” che la persona umana proietta su queste risorse.

Dunque, il giudizio di inadeguatezza (disfunzionalità) viene orientato da un criterio non economicistico ma culturale: la centralità della persona umana. Questa situazione non può non sorprendere lo studioso del diritto privato abituato – nonostante la Costituzione – a un rapporto di forze radicalmente opposto tra le ragioni dell’essere e quelle dell’avere: quello che, nel­la modernità, produce l’assorbimento progressivo da parte del mercato dei luoghi di espressione dell’esistenzialità umana. Il riferimento evidente al discorso giuridico è alla cosiddetta patrimonializzazione della persona e al paradosso per cui tale fenomeno viene talvolta erroneamente percepito come rafforzamento della sua tutela giuridica e perciò conquista di civiltà. Si può trarre, quindi, una prima conclusione: la per­sona e i suoi bisogni vengono assunti come criterio di qualificazione di beni. Perciò occorre identificare pre­cisamente quale possa essere lo statuto comunicativo della persona come valore selettivo e regolativo dei beni comuni. Questo discorso si svolge nell’orizzonte di un modo nuovo di pensare la persona umana e la sua posizione nel mondo: quello che nel linguaggio corrente della scienza giuridica è sintetizzato nella co­siddetta antropologia giuridica del costituzionalismo democratico moderno. Il riferimento a una visione an­tropologica giuridicamente connotata è assai significa­tivo perché mostra come il concetto di persona venga desunto dal contenuto, culturalmente determinato, dei suoi diritti fondamentali. Detto altrimenti: parlare della persona equivale a parlare dei suoi diritti; diritti “conia­ti” non tanto dal diritto positivo quanto piuttosto dalla produzione culturale della società: i valori e i significati fondamentali condivisi. In questo contesto, riferirsi a diritti della personalità “nuovi” significa attuare la di­namicità intrinseca all’idea di persona come individuo sociale: un individuo che viene guardato nella storicità e nella concretezza della prassi. Si può dire, perciò, che i cosiddetti nuovi diritti della persona consistono essenzialmente in nuovi modi di essere dell’uomo: forme nuove di svolgimento della personalità umana nella contemporaneità (un esempio: la “posizione” dell’uomo nel cyberspazio genera la riflessione sulla cittadinanza digitale e sull’accesso a internet come di­ritti fondamentali). Non a caso, nel sistema giuridico italiano, il principio personalistico – in quanto principio costituzionale – è socialmente evolutivo: la sua trama “aperta”, che è una funzione del dialogo tra diritto e società, serve a recepirne immediatamente e costan­temente nel contenuto precettivo i significati generati autonomamente dalla prassi.

Come è noto, questa visione della persona è fonda­ta sul principio della dignità individuale e sociale dell’uomo, che istituisce un legame indissolubile tra i principi di libertà e di eguaglianza, da un lato, e i valori della giustizia sociale, dall’altro. La conseguenza di tale vincolo è duplice: l’inscindibilità dei diritti fonda­mentali che perciò costruiscono unitariamente il valo­re della persona; la rilevanza dell’uomo (non come soggetto astratto ma in quanto) immerso nella realtà delle sue condizioni vitali: quelle in cui si esprime la sua esistenzialità individuale e quelle in cui si manifesta la sua relazionalità. Iscrivendosi in quest’ambito, quale discorso mondializzato, quello dei beni comuni ripropo­ne il problema della giustizia della legge, collocandone i canoni “oltre” il diritto positivo. Da questo punto di vista, si pone nel flusso del moderno costituzionalismo, rivendicando, con la natura “sociale” della Costituzio­ne, la funzione “naturalmente” normativa della società, attraverso la sua produzione di senso e valore.

Queste precisazioni sono importanti per vedere il pro­filo essenziale riflesso nella comunicazione dei beni comuni: lo scontro tra due visioni opposte dell’indi­viduo e della società: quella del moderno costituzio­nalismo dei diritti e quella della società-mercato. La prima, a partire dalle Leggi fondamentali del secondo dopoguerra, è quella elaborata soprattutto dai discor­si della giurisprudenza costituzionale mondializzata e formalizzata nelle cosiddette costituzioni sovranazionali; la seconda è quella del cosiddetto capitalismo consumistico che, in virtù di una esasperazione del principio proprietario, riflette una società costruita a immagine – e misura – del mercato e un individuo oggettivato all’interno di relazioni di consumo.

La domanda di diritti che proviene dal “movimento” dei beni comuni è inverare la prima prospettiva. Ciò pone al giurista un problema: elaborare paradigmi di “gestione” dei beni che siano funzionali alle ragioni assiologiche della persona umana. A tal fine, credo che la riflessione su un “diritto dei beni comuni” non pos­sa evitare la decostruzione del principio proprietario per comprendere ciò che, secondo la razionalità del principio personalistico, si rivela criticità da rimuovere oppure positività da non disperdere.

Il principio proprietario e la tutela dei beni comuni. Il paradosso della costruzione giuridica della modernità: la società-mercato

La critica del principio proprietario procede da due di­verse angolature: contro il principio proprietario come fondamentale canone organizzativo della società: del­le relazioni interpersonali e di quelle di cittadinanza; contro il paradigma proprietario come modello di attribuzione efficiente delle risorse e forma privilegiata della tutela giuridica degli interessi rilevanti.

Il primo profilo è la riflessione su un aspetto specifi­co del sistema capitalistico della contemporaneità: la radicalizzazione dell’individualismo proprietario com­piuta dal primato dell’economia su ogni altro aspetto costitutivo del vivere comune e la conseguente rimo­zione di ogni limite alla naturale vocazione totalitaria del mercato.

La scienza giuridica ha da tempo posto in luce come tale situazione, per un verso, sia inclusa – come svilup­po potenziale – nella strategia di separazione dell’eco­nomia dalla politica che caratterizza la genesi del dirit­to moderno; per l’altro, derivi dalla mancata correzione del sistema capitalistico mediante il principio di solida­rietà. Le conseguenze più importanti per questa rifles­sione sono due: la distribuzione delle risorse è lasciata al mercato, quale luogo degli scambi interprivati; la libertà individuale è concepita essenzialmente come libertà economica: è questo il campo semantico che rimane dopo che l’astrazione del soggetto e della sua eguaglianza (principio di eguaglianza formale) ha re­spinto nel campo del giuridicamente indifferente le di­seguaglianze sostanziali tra gli uomini.

Il primo aspetto (la separazione della politica dall’eco­nomia) esprime la fondamentale scelta “costituziona­le” effettuata dal diritto privato moderno con le codi­ficazioni del XIX secolo: realizzare «un’organizzazione economica autogestita dai membri liberi della società civile, attribuendo al potere politico solo la funzione di garantire il libero gioco del mercato». Il suo compimento ha implicato l’assunzione “positiva” della logica mercantile a logica giuridica dei rapporti economici, in virtù del nesso regolativo istituito sul piano formale tra due principi sistematici del diritto privato: quello dell’autonomia privata (che si svolge mediante il con­tratto) e quello della patrimonialità (che governa l’ac­cesso al sistema della tutela giuridica delle obbligazio­ni e del contratto). È evidente che proprio in questa correlazione è iscritta la capacità espansiva attribuita dal diritto privato moderno al mercato: se per acqui­sire valore patrimoniale “basta” la sussunzione entro un rapporto di scambio (in virtù del contratto), due sono le conseguenze: 1) è solo il mercato a decidere ciò che ha e ciò che non ha valore economico; 2) dal punto di vista del mercato, non vi è nulla che di per sé possa non divenire “merce”. L’inclusione totalizzante è assicurata dalla capacità di omologazione univer­sale del denaro che rende irrilevanti qualità e identità per trasformarle in quantità perfettamente misurabili in termini di puro valore patrimoniale (monetario).

Si individua così un problema essenziale del senso comunicativo dei cosiddetti beni comuni: come op­porsi alla forza inclusiva e omologante del mercato che riconforma a sua immagine ogni aspetto della re­lazionalità sociale e – persino – della individualità della persona? Infatti, la condizione essenziale del fun­zionamento e della riproduzione del sistema è que­sta: che tutta la società sia ricondotta entro i confini categoriali della merce capitalistica: una merce in cui il valore di scambio e il valore d’uso tendono a coinci­dere come nella forma del denaro.

Non è per un caso, perciò, ma per una ragione siste­mica che nell’età della globalizzazione il luogo fonda­mentale della produzione di significati sociali “univer­sali” sia proprio il mercato. Questa ragione si radica in un carattere tipico della modernità: il dominio della tecnica. È qui infatti che assume centralità un para­digma che sarebbe realizzato in modo “spontaneo” dalle pratiche mercantili: l’efficienza economicistica. Da questo punto di vista, la stessa globalizzazione “funziona” come una tecnica di semplificazione del mondo: assumere la forma del mercato.

Questa strategia di “mercificazione” del mondo si è compiuta con successo in una sequenza storica sin­tetizzabile così: l’economia si separa dalla politica; il mercato diviene il fulcro dell’economia; il mercato ingloba progressivamente ogni dimensione della società; si afferma il primato dell’economia e delle sue leggi, percepite come naturali e – in un certo senso – inesorabili.

L’effetto della mercificazione globale ha un doppio volto: in forza della strategia di separazione dell’eco­nomia dalla politica è incluso nel progetto costitutivo della modernità; nella misura in cui è esteso all’uomo (e lo oggettualizza) tradisce la promessa di libertà che la rivoluzione illuminista affidava all’emancipazione dell’individuo dai vincoli della tradizione e delle appar­tenenze (col medium delle astrazioni del soggetto e dell’eguaglianza giuridica): la libertà dell’individuo di governare la propria vita con la forza della ragione. In una parola: autodeterminarsi.

Questo aspetto viene evidentemente negato quan­do il contenuto della libertà individuale viene a coin­cidere con il potere di compiere atti di acquisto, sce­gliendo oggetti e (perfino) identità predeterminati dal mercato in funzione di un criterio di efficienza eco­nomicistica messo in opera come principio di autoconservazione del sistema. Questo principio im­pone che persino i bisogni in quanto tali divengano oggetto della produzione capitalistica, istituendo un comparto essenziale dell’economia e della società di mercato. Il meccanismo ha una logica autoevi­dente: se è la produzione a governare il consumo (e non viceversa), allora è la riproduzione del sistema a esigere che i bisogni di consumo rimangano costantemente insoddisfatti. In conclusione: il sistema ha bisogno di un individuo costitutivamente abitato da un desiderio di possesso illimitato, che rinuncia a costruire in modo autonomo i significati e i valori della propria esistenza per mutuarli dal mercato. Questo è un aspetto decisivo, perché – come si è detto – il mercato non crea alcun valore diverso da quello patrimoniale; al contrario, omologa ogni entità per renderla scambiabile. Detto altrimenti: il mercato pratica, in virtù del denaro, una strategia di indifferenziazione che consiste proprio nella nega­zione di ogni determinazione qualitativa e valoriale. Tra le conseguenze emerge una coazione: gli interessi dell’uomo per acquisire rilevanza debbono assumere la forma mercantile monetaria. È questa coazione che il movimento dei beni comuni vuole rompere, restituendo alla società la sua funzione autonorma­tiva: costruire i propri valori; decidere i propri biso­gni; selezionare ciò che può essere scambiato e ciò che invece non può. In questo senso, parlare di beni comuni significa rivendicare la forza di ragioni assiologiche capaci di sottrarre talune entità al mercato e al totalitarismo della sua logica. Detto altrimenti: go­vernare le aporie della soggettività astratta (di diritto) e dell’eguaglianza formale, rivendicando il ruolo del soggetto e la garanzia della sua dignità di persona e di cittadino.

Da questa prospettiva, il problema non è la proprietà in sé, ma il principio proprietario assunto come princi­pio di conformazione della società: la società-merca­to: «in cui lo stare insieme sembra non avere altra ra­gione d’essere che il produrre e consumare, e in cui il singolo entra in rapporto con gli altri come funzionario della produzione e del consumo». Questa società è abitata dall’uomo mercificato: un individuo che non vale come persona, né come cittadino e neppure – a ben guardare – come proprietario. Quest’ultimo è un profilo centrale, acquisito da tempo dalle scienze so­ciali: se la quantità diviene il solo metro dell’esistenza, il proprietario non ha qualità: è (solo) un consumatore; come tale non è soggetto, ma un’entità che esi­ste se e in quanto “posizionata” sul mercato e quindi suscettibile di essere a sua volta consumata quale oggetto di utilità.

L’aspetto fondamentale che così emerge è questo: il mutamento del senso dell’individualismo rispetto alla sua genesi liberale coinvolge anche quell’idea di potere che ne costituisce il fondamento: da estrinse­cazione creativa dell’individuo, espressione della sua capacità di dominare il mondo, la proprietà è ridot­ta a mero possesso di cose da consumare. La conseguenza sulla soggettività è univoca, sia nel profilo dell’individualità, sia in quello della socialità. Infatti, se in questo sistema la proprietà rappresenta (anche) il criterio di identificazione del soggetto, allora la sog­gettività finisce evidentemente per risolversi nell’im­mediatezza dell’atto di consumo. È questo il senso della sintesi «sono, perché consumo». Da altra pro­spettiva: risolto per definizione nel flusso degli scam­bi, il consumatore è un individuo oggettivato e isolato, naturalmente a-sociale: l’ethos della società-mercato diviene l’individualismo di “massa” del consumo.

Segue. Proprietà e diritto soggettivo. Libertà giuridica e libertà di consumo. Quale paradigma per i cosiddetti beni comuni?

La riflessione sui beni comuni deve dunque confron­tarsi con gli effetti aporetici della costruzione giuridica della modernità. Tra questi, in primo luogo, la nega­zione di quella individualità che era posta a costituire il principio di derivazione dell’intero sistema; un sistema costruito per liberare il soggetto e proiettarne la po­tenza nel mondo ha finito, in realtà, per sopprimerlo. Questo paradosso è facilmente visibile alla luce del sen­so originario dell’individualismo moderno, come declinato dall’illuminismo radicale e tradotto nella sua “rivo­luzione della mente”: per un verso, il valore della irripe­tibile singolarità di ciascun essere umano, della identità che è individuale, appunto, perché non promana da un’appartenenza di status ma dall’essere “persona”; per l’altro, l’autonomia: il potere di scegliere i fini della propria vita, sottraendosi alla strategia di un destino so­cialmente istituito: iscritto, mediante uno statuto di diritti e di doveri, nella appartenenza inesorabile a una classe. Questa identità “liberata” non intendeva lasciare l’uo­mo isolato ma inserito in una società di uomini resi liberi ed eguali dalla forza di un diritto capace di vin­colare tutti. Perciò, coniugato tra la libertà e l’egua­glianza, il significato dell’individualità assumeva due nuclei complementari: la cura di sé e il rispetto dell’al­tro. Anche dalla prospettiva utilitaristica, che guarda­va alle connessioni inevitabili prodotte dalla vita as­sociata, l’individualismo non avrebbe isolato almeno in un senso: il rispetto dell’alterità è condizione ne­cessaria affinché ciascuno possa essere sé stesso. In questo senso, l’individualismo implica il pluralismo e si collega alla democrazia. Non a caso, dunque, la ragione avrebbe indirizzato la ricerca della felicità individuale non “contro” ma “dentro” la società quale luogo necessario della sua realizzazione.

È questa una condizione davvero sufficiente a coor­dinare le finalità individuali al bene comune? La que­stione non è affatto nuova e la risposta è già stata declinata da una molteplicità di punti di vista differen­ti. Tuttavia, per trovare il senso di un “diritto dei beni comuni” occorre riprendere l’individualismo costruito nel rapporto tra la libertà e l’eguaglianza giuridiche e riflettere sull’effetto decisivo che produce sul piano sociale: nessuno può essere obbligato a fare alcun­ché senza il suo consenso. Come è noto, questo è uno dei significati fondamentali della modernità; quel­lo che – nella sua strategia costituente – spiega la rappresentazione della società come coesistenza di sfere di libertà; di sfere proprietarie che si connetto­no tra di loro soltanto in virtù dell’accordo. Il punto è centrale perché è così che, affidando la mediazio­ne intersoggettiva al contratto (cioè allo scambio), si istituisce la centralità sociale del mercato (luogo degli scambi) e del suo dispositivo fondamentale: il calcolo delle convenienze individuali.

Il successo di questa strategia (l’accordo come medium delle relazioni intersoggettive e quindi della coopera­zione tra gli individui) ha una ragione sistemica: l’indi­vidualismo proprietario, “spirito” della libertà moderna, concepisce la proprietà quale sfera di sovranità del­la libertà individuale: libera da legami di scopo e da funzioni sociali. Infatti la rimozione della fraternité dalla triade rivoluzionaria dell’illuminismo radicale, com­piuta dalle codificazioni dello Stato liberale, ha conseguenze decisive sull’identità del sistema moderno e sul suo immaginario che «sostituisce il legame socia­le con il rapporto giuridico, la collettività con lo Stato e la ricerca della verità e della giustizia con il calcolo razionale, con la ragione strumentale procedurale».

Sono di evidenza comune le ragioni per le quali il predominio della società mercantile viene solita­mente connesso alla mancata attuazione del pro­getto costituzionale, in particolare in quegli aspetti implicati dal nesso tra il valore della persona e quello della giustizia sociale. Non a caso, dunque, la rifles­sione sui beni comuni recupera i temi del primato della persona e della defondamentalizzazione dei diritti patrimoniali così come sono posti dalla Costi­tuzione italiana: il disegno costituzionale esprime chiaramente l’idea che la negazione del sogget­to, implicata dalle grandi astrazioni praticate dalla strategia giuridica della modernità, non ne costitui­sce un esito inevitabile. Non a caso, infatti, diviene «compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva par­tecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione po­litica, economica e sociale del Paese» (art. 3 Cost.). È proprio il valore della persona umana, vista come soggetto irripetibile, nella concretezza delle sue re­lazioni vitali a esigere che in tali casi le regole gene­rali e astratte cedano il passo ai principi. In questo orizzonte, “rivitalizzazione” della sfera pubblica e inveramento della partecipazione democratica diven­tano parole chiave nella strategia comunicativa dei cosiddetti beni comuni.

Così, la critica del principio proprietario mette in discussione anche un’altra idea fondativa della co­struzione giuridica della modernità: il diritto di pro­prietà come archetipo della libertà individuale. In questa applicazione la proprietà ha un valore stra­tegico: è la tecnica della disponibilità che l’uomo ha sul mondo e persino su di sé nella forma del po­tere su oggetti.

La scienza giuridica ha disvelato come la situazione dominicale incentrata nel potere immediato ed esclu­sivo su una res abbia costituito il modello di elabora­zione del concetto di diritto soggettivo quale forma primaria della tutela giuridica degli interessi umani, in­dividuali o individualizzati. Questa idea si è radicata come struttura fondamentale del pensiero (non solo) giuridico in una doppia proiezione: come spazio di so­vranità della volontà individuale, per costruire il con­cetto di libertà; come potere immediato sulla cosa, per dare forma al dominio dell’uomo sul mondo e per­ciò all’espressione della sua volontà di potenza. I due profili sono strettamente correlati: l’interesse sotteso alla situazione proprietaria si realizza interamente nel dominio della volontà individuale (in una sfera di so­vranità soggettiva), attraverso l’esercizio di un potere sulla cosa che è diretto (non richiede la mediazione altrui) ed esclusivo (funziona come privativa).

Il paradigma della proprietà individuale, in questo profilo, appare di per sé inidoneo a soddisfare il pre­supposto ritenuto indispensabile al godimento dei cosiddetti beni comuni: l’accesso generalizzato che – a sua volta – costituirebbe la condizione essenziale all’esercizio dei diritti e delle libertà fondamentali. Sor­ge spontaneo un interrogativo: questa inadeguatez­za del canone proprietario – denunciata fortemente dal movimento dei beni comuni – esprime ragioni e problemi realmente diversi da quelli sottesi al proget­to di Stato sociale che la Costituzione italiana iscrive nella sua peculiare visione del mondo? Una visione che – come si è ripetuto –, incentrata sul primato della persona umana, comporta la cosiddetta defondamentalizzazione dei diritti patrimoniali e, di conse­guenza, istituisce una relazione tra politica ed econo­mia diversamente dallo Stato liberale. Basti pensare alla dicotomia fondamentale della proprietà che può essere «pubblica o privata»; alla sua funzione sociale che la legge deve assicurare (art. 42); alla possibilità di realizzare finalità di «utilità generale» riservando (o trasferendo) «a comunità di lavoratori o di utenti de­terminate imprese o categorie di imprese, che si rife­riscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale» (art. 43).

Da un punto di vista più generale, attinente alla teori­ca delle situazioni giuridiche soggettive, il nucleo di una tecnica di costruzione della libertà in virtù di un canone diverso dall’individualismo proprietario viene individuato nel vincolo che l’art. 2 Cost. istituisce tra i diritti invio­labili della persona e i doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. Ne deriverebbe un’idea della libertà individuale costitutivamente iscritta nella dimensione della responsabilità sociale: l’individuali­smo democratico quale principio di identificazione del soggetto. È in questo orizzonte che trova spiegazione anche il mutamento della situazione proprietaria in virtù del riferimento a una “funzionalizzazione” sociale. L’idea, qui, è non quella del limite esterno al potere individuale, già nota agli ordinamenti giuridici dello Stato liberale; ma l’introduzione di una ragione superindividuale all’in­terno della situazione soggettiva che la riconforma per contemperare l’interesse individuale con quello della collettività. Anche la proprietà, del resto, come ogni al­tro concetto giuridico, non ha un significato “assoluto” ma storicamente determinato.

Questo aspetto della domanda di tutela proveniente dal discorso sui cosiddetti beni comuni sembrerebbe rifor­mulabile così: inverare un progetto abbandonato con la dismissione dello Stato sociale e reso improbabile dal­la vocazione liberista della contemporaneità. Relativa­mente a questi temi, non può non rinviarsi alla ricchis­sima elaborazione della giurisprudenza e della dottrina. Proprio dalla dottrina civilistica più attenta alla lettu­ra costituzionale del principio proprietario sembra provenire un’indicazione diversa, che si indirizza oltre il modello tradizionale dello Stato sociale e muove dall’esigenza di attuare sul piano normativo il prin­cipio della dignità della persona “costituzionalizzata” iscritto nell’inscindibilità dei diritti e delle libertà fondamentali. Credo che una costruzione teoretica nuova e complessa sia facilmente visibile mediante due chiavi interpretative. La prima riguarda il senso dell’operazione: l’attuazione dei principi costituzionali viene affidata non più al meccanismo della differen­ziazione sistemica, in virtù dell’attivazione di sotto­sistemi di legislazione speciale in cui “confinare” le rationes antitetiche al principio proprietario (eccezio­nali rispetto a quelle mercantili), ma a una vera e pro­pria rifondazione del sistema. La seconda riguarda il nucleo concettuale della libertà dell’individuo nella contemporaneità, implicando una riorganizzazione delle forme del pensiero giuridico a partire da un’idea chiaramente formalizzata nel Preambolo della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea: il godi­mento dei diritti fondamentali «fa sorgere responsa­bilità e doveri nei confronti degli altri come pure delle generazioni future».

In quest’orizzonte, si comprende l’esigenza di con­cepire uno schema giuridico “opposto” alla proprietà, per tutelare la dimensione “in comune” dei beni coe­rentemente all’idea che i beni comuni

appartengono a tutti e a nessuno nel senso che tutti devono poter accedere ad essi e nessuno può vantare pretese esclusive; devono essere amministrati muovendo dal principio di solidarie­tà. Incorporano la dimensione del futuro e quindi devono essere governati anche nell’interesse delle generazioni che verranno. In questo senso sono davvero patrimonio dell’umanità e ciascuno deve essere messo nella condizione di difenderli, anche agendo in giudizio a tutela di un bene lontano dal luogo in cui vive.

È chiaro che la multiforme varietà dei beni potenzial­mente selezionati come comuni (in virtù del principio personalistico) non consente ragionevolmente di im­maginare una sola forma di protezione dell’interesse collettivo (un unico schema di situazione giuridica), né, di conseguenza, uno statuto regolativo unitario: soltanto un canone generale a partire dal quale svi­luppare regimi giuridici differenziati in ragione delle peculiari qualità che il bene manifesta nella sua re­lazione con la persona umana. Da questo punto di vista sarebbe necessario ma non sufficiente riformare le categorie della proprietà pubblica e di quella privata. Si individua, infatti, la necessità di elaborare un paradigma totalmente nuovo: uno schema formale in cui l’opposto della proprietà sia non una sempli­ce indicazione negativa ma il criterio costitutivo della tutela giuridica. Rimuovere la logica appropriativa sarebbe l’operazione preliminare ad alcune “sostitu­zioni” concettuali: alle ragioni del mercato quelle della persona; alle tecniche dell’esclusione quelle dell’in­clusione; alla forma dello sfruttamento individuale quella della condivisione. Si osserva, in particolare, che pensare “l’opposto della proprietà” significhe­rebbe (riuscire a) “praticare” una peculiare, inedita dimensione: “oltre il pubblico e il privato”. Come dire – almeno a prima vista – che i cosiddetti beni comuni evidenziano al diritto interessi umani che non sono adeguatamente compresi dalla dicotomia tradiziona­le del pensiero giuridico moderno: quella tra pubblico e privato. Inadeguati ai cosiddetti beni comuni perciò sarebbero non solo le categorie tradizionali del dirit­to privato, ma anche l’assunto per cui quella pub­blicistica, con la sua logica e le sue categorie, sia la dimensione unica e “naturale” della tutela giuridica degli interessi comuni.

A ben guardare, in tal modo vengono messe in di­scussione le ragioni “politiche” storicamente incor­porate in questa dialettica: la distinzione tra il diritto pubblico e il diritto privato quale riflesso della strate­gia di separazione tra politica ed economia messa in atto dal diritto della modernità. Questo è un profilo decisivo per intuire la portata teoretica di questa costruzione del diritto dei beni comuni. La necessità di nuove categorie del ragionamento giuridico per tute­lare gli interessi sui beni comuni è la conseguenza di una operazione più complessa, rifondativa del siste­ma: la “costituzionalizzazione” del diritto privato. La costituzionalizzazione del diritto privato è l’essenza del cambiamento normativo richiesto dalla rivoluzio­ne culturale della dignità della persona. Nella comu­nicazione dei beni comuni, è questo il rimedio alla privatizzazione del mondo; alla sua riduzione alla forma del mercato e alla sua ragione strumentale. In quest’ambito, l’espressione “oltre il pubblico e il pri­vato” quale proiezione propria del comune si manife­sta capace di segnalare la nuova portata del dialogo tra pubblico e privato iscritta nella costituzionalizzazione del diritto privato.

Non a caso il nucleo del mutamento è il diritto pri­vato: è il diritto privato che ha dato forma giuridica alla scelta politica fondamentale della modernità: as­sumere la logica mercantile quale logica giuridica dei rapporti economici. Ciò ha comportato che il rapporto giuridico abbia assunto la forma dello scambio e in­corporato le ragioni del calcolo economico. Come ho ricordato, il diritto privato ha accolto l’idea che sia sol­tanto il mercato a decidere cosa ha valore patrimonia­le: ciò che può essere scambiato e quindi costituire oggetto di appropriazione individuale e sfruttamento esclusivo. Si rivela così il senso di una strategia ca­pace di spiegare l’espansione totalizzante delle ragio­ni dello scambio e l’egemonia dell’economico su ogni altro contesto del sociale: la rinuncia della politica a proporre, in forza del diritto, una visione del mondo diversa da quella incorporata nel mercato.

Se si occulta questa rinuncia si negano il senso e la portata di quella separazione della politica dall’eco­nomia che è un momento centrale del progetto co­stitutivo della modernità. Qual è la forma di questa separazione? A ben guardare, appare inesatto affermare che sul piano giuridico il mercato si autoregola: è il diritto che regola il mercato in virtù di norme giuridiche che riproducono il contenuto di principi e rego­le coniati dal mercato in modo autonomo. Il punto decisivo allora appare questo: “mediando” questa transizione sistemica della regola (dal piano sociale a quello giuridico), il diritto istituisce e sanziona il potere normativo dell’economia. Il discorso sui beni comuni prende atto di un’evidenza: la “costituzionalizzazione della persona e dei suoi bisogni” impone proprio di rivedere questa scelta e perciò ridefinire i compiti del diritto privato. In questo senso, esso implica una strategia “costituente”: ripensare la “frattura”, fonda­tiva del diritto moderno, tra politica ed economia, rifiutandone l’idea presupposta: che l’economia deb­ba essere soltanto un affare dei privati e che di con­seguenza il diritto privato sia una tecnologia neutrale al servizio della convivenza sociale. Questa peculiare qualità conseguirebbe alla forma della comunicazio­ne tra diritto ed economia, evidenziando che il diritto privato si limiterebbe a predisporre soltanto le tec­niche che i privati possono utilizzare per realizzare sul piano giuridico i propri interessi individuali. Come dire: il diritto predispone “forme vuote” disponibili a riempirsi dei contenuti liberamente determinati dai privati nell’esercizio del loro potere di autonomia. La neutralità, in questo senso, opererebbe sia nei confronti dei contenuti, tutti egualmente protetti alla sola condizione che siano stati liberamente negoziati nel rispetto delle regole del gioco; sia rispetto agli “autori” dei contenuti, visti tra loro come eguali. Il punto deci­sivo infatti è il modo in cui il diritto decide di vedere i partner coinvolti nei giochi del mercato: la posizione di parità formale nel conflitto di interessi risolto dal contratto. Come è noto, questo modo di intendere l’eguaglianza produce una importante rimozione: quella delle diseguaglianze sostanziali dal piano della rilevanza giuridica. Questa rimozione ha un doppio, aporetico effetto: da un lato, trasforma le dipendenze economico-sociali da vincoli giuridici (status feudali) in pure esternalità, dalle quali pertanto diventa pos­sibile liberarsi; dall’altro, funziona come condizione della loro riproduzione “sistemica”: se il diritto “non le vede”, allora non si pone in condizione di rimuover­le. La conclusione è univoca: il diritto privato finisce per proteggere i rapporti di forza che si determinano autonomamente sul piano della prassi economica e proprio per questo garantisce la riproduzione del sistema capitalistico, nella pluralità multiforme delle sue espressioni.

È evidente che la nuova antropologia della dignità della persona “costituzionalizzata” non è compatibile con questa strategia; che richiede la costituzionalizzazione del diritto privato; che tale operazione è il vero significato sul piano della teoria giuridica di un diritto dei beni comuni. In questa prospettiva, il sin­tagma “bene comune” identifica in modo inequivoco il medium del cambiamento nella cultura del diritto: la rilevanza della persona come criterio di qualifica­zione dei beni. Di questo si è già detto; non è forse superfluo ribadire che in tal modo la persona e la sua logica irrompono proprio nel “cuore” del diritto priva­to: dove si regola la selezione delle risorse suscettibili di appropriazione e sfruttamento individuale. Questo è il luogo sistemico della dialettica tra il criterio del­la patrimonialità implicato dal principio proprietario e il principio personalistico evocato dal bene comu­ne: l’essenzialità del bene rispetto al valore giuridico della persona è ciò che sottrae il bene al dominio esclusivo del mercato e perciò alla logica proprietaria del calcolo delle convenienze individuali. È compito del diritto compiere questa sottrazione: costruire la pluralità dei modelli idonei a gestire queste risorse a partire dal valore giuridico della persona e della sua dignità. Adeguare il diritto privato alla costituzionalizzazione della persona e dei suoi bisogni è il solo modo per “prendere sul serio” i diritti fondamentali e la loro inscindibilità.

 

Beni comuni e “nuovi” diritti della persona nella società della comunicazione globale

L’idea di una nuova dimensione giuridica, collocata “oltre il pubblico e il privato” sarebbe capace di inter­cettare un altro profilo della inadeguatezza della logi­ca proprietaria rispetto al problema dei beni comuni: quello legato all’inefficienza strutturale della sovranità statale. Non è un caso che la “ragionevole follia” dei beni comuni si diffonda proprio nell’età della globa­lizzazione, con la percezione della dimensione plane­taria di una pluralità di fenomeni che interessano la vita umana. In quest’ambito, il valore “empiricamente” comune di alcuni beni ne proietta la rilevanza oltre i confini degli Stati nazionali, facendone il punto di ri­ferimento oggettivo di interessi della comunità umana in quanto tale (come comunità planetaria). È evidente che le politiche di uno Stato rispetto a risorse come – per esempio – l’ambiente, l’acqua, la conoscenza scientifica, internet, non possono non avere ripercus­sioni globali in un doppio, complementare significato: per un verso, producono effetti materiali che valica­no naturaliter i confini della sovranità territoriale; per l’altro, subiscono gli effetti della analoga interferenza delle scelte e delle pratiche degli altri Stati. Si dice, perciò, che la dimensione globale di queste dinami­che “delegittimerebbe” la sovranità statale. Con altre parole: che la forza dello Stato nazionale di governarle efficacemente sarebbe in larga parte neutralizzata.

In questa prospettiva, l’inadeguatezza dell’idea pro­prietaria si rende particolarmente evidente nel riferi­mento ad alcuni beni che emergono in relazione ai nuovi modi di essere della persona nella società del­la comunicazione globale; beni legati a quelle forme espressive della personalità umana che sono rese possibili dalle nuove tecnologie dell’informazione, in virtù della loro capacità di modificare la realtà. È nel quadro di questo mutamento che l’accesso a in­ternet si afferma come un diritto fondamentale della persona. A ben guardare, in tale caso la relazione tra persona e bene comune è complessa: da un lato, la persona (come valore normativo) è il criterio di qualifi­cazione di una risorsa come bene comune; dall’altro, è proprio il bene (internet) che genera un nuovo con­testo vitale; di attuazione della personalità dell’uomo e di partecipazione alla vita collettiva. Un contesto che è “comune” di per sé e solo impropriamente può definirsi “virtuale”: internet tesse la rete di una nuova dimensione della realtà, scandita da inedite coordina­te di spazio e di tempo, che non riconosce neppure la tradizionale distinzione pubblico-privato.

Si comprende così che l’accesso ha un doppio, pe­culiare valore, strumentale e finale: costituisce il pre­supposto per esercitare nella rete diritti e libertà fon­damentali; rappresenta la condizione dell’esistenza in questa nuova dimensione della realtà. Qui anche la persona appare “disincarnata” ma non certamente irreale. Non a caso, alle nuove opportunità di realizza­zione della personalità si accompagnano nuovi pro­blemi per la sua tutela giuridica. Si pensi, ad esempio, al modo in cui il «corpo profondamente modificato dall’immersione nel flusso delle comunicazioni elettroniche» influisce sulla rappresentazione sociale della persona: nella società dell’informazione l’identità del­la persona tende a coincidere con la sintesi dei dati informativi che la riguardano e che sono variamente reperibili nella pluralità multiforme dei luoghi dell’interazione sociale. Infatti, il tema dell’identità personale viene riconformato alla luce del nuovo fenomeno della molteplicità delle identità e della pluralità dei proces­si che le costruiscono. Il primo aspetto si lega alla pluralità dei luoghi – dello spazio reale e di quello co­siddetto virtuale – nei quali l’individuo può realizza­re e comunicare i propri modi di essere. Il secondo riguarda il distacco delle identità dalla persona e la connessione tra identità e tecnologie della società di­gitalizzata; la conseguenza è la costruzione informati­ca di profili di identità che vanno a costituire gli effettivi punti di riferimento soggettivo della molteplicità delle relazioni in cui si esprime l’attività sociale dell’indivi­duo. La scienza giuridica ha da tempo compreso che queste identità elettroniche rappresentano il modo in cui i poteri (pubblici e privati) conoscono le persone e di conseguenza prendono decisioni che si riflettono in modo reale nella loro vita, anche incidendone i diritti e le libertà fondamentali. Si tratta – come è noto – del fenomeno decisivo per comprendere il diritto alla pri­vacy nei suoi due aspetti essenziali: diritto fondamen­tale della persona e espressione primaria della democrazia nella cosiddetta società della sorveglianza; forma essenziale della tutela giuridica della identità personale nel tempo della comunicazione globale. È emersa infatti una “anima” della privacy nuova e di­versa rispetto al cosiddetto right to be let alone: il di­ritto alla protezione dei propri dati personali. Questo aspetto è importante nella riflessione sul rapporto tra la logica dell’essere e quella dell’avere perché mani­festa con evidenza l’inadeguatezza del modello pro­prietario alla tutela del nuovo modo di essere della persona: nel cyberspazio non serve solo un “recin­to in cui essere lasciati soli”, protetto dal potere di escludere l’altro, ma soprattutto un potere dinamico: “entrare” nei circuiti della comunicazione seguendo il flusso dei propri dati e controllare la propria identità. Si tratta di un dispositivo giuridico di apertura che garantisce un controllo democratico sulle nuove for­me di esercizio del potere sociale. A ben guardare, l’idea di “apertura” si ritrova sottesa a entrambi i mo­delli di comprensione dei due – apparentemente con­trapposti – bisogni fondamentali della persona nella società della comunicazione digitalizzata: esplicare la “cittadinanza digitale” e difendere il “corpo elettroni­co” come una forma costitutiva dell’“essere” umano nella contemporaneità.

Anche il linguaggio giuridico sembra restituire il senso di un mutamento antropologico: l’autodeterminazione informativa, la riservatezza e l’integrità dei sistemi in­formatici cui la persona affida parte di sé (i suoi dati), l’oblio, l’accesso a internet vengono qualificati diritti fondamentali dell’uomo.

È evidente perciò che, quale espressione di un modo di essere della persona nel mondo, il diritto di accede­re a internet non può essere inteso soltanto nel profilo tecnico della connessione alla rete. Detto altrimenti: il riferimento al “servizio universale” è inadeguato al significato essenziale dell’accesso come «sintesi tra una situazione strumentale e l’indicazione di una se­rie tendenzialmente aperta di poteri che la persona può esercitare in rete». Quindi l’accesso a internet si manifesta di per sé come diritto fondamentale: quale espressione della personalità umana è automatica­mente incluso nel concetto costituzionale di perso­na come principio socialmente evolutivo. Tuttavia, il suo riconoscimento esplicito serve ad accrescere la forza della persona contro il mercato significando, ad esempio, che l’accesso va garantito a tutti indipendentemente dal reddito; che non può essere negato per tutelare contrapposti interessi individuali di natura economica erroneamente ritenuti prevalenti.

In questo orizzonte, il discorso sui beni comuni tende a legare il significato dell’accesso quale diritto fonda­mentale della persona a due “principi” interconnes­si: la cosiddetta neutralità della rete e la cosiddetta conoscenza digitalizzata come bene globale. Il primo esprime l’idea che il principio di eguaglianza deve costituire il nucleo intangibile della cosiddetta Costituzione di internet. Ponendo il divieto di discrimina­zione, da un lato, garantisce a chiunque l’effettività dell’accesso; dall’altro, regola un aspetto “in comune” della rete: tutti debbono poter contribuire al proces­so collettivo di costruzione della conoscenza. Vale a dire: nessuno può esserne escluso; discriminato in virtù di una diversa “dignità” delle idee (i contenuti).

Il secondo riguarda la conoscenza “depositata” nel­la rete, che collega al canone della condivisione da due profili: quello del ruolo dell’informazione per il li­bero sviluppo della personalità e per l’effettività della partecipazione democratica; quello che considera la produzione culturale, scientifica e tecnologica come un processo comune, che fa della conoscenza un oggetto sociale strutturalmente cumulativo e perciò “naturalmente” comune.

Entrambi i principi assecondano ragioni diverse da quelle mercantili, coerentemente all’idea che i co­siddetti beni comuni della conoscenza non possano essere apprezzati soltanto con il “metro” del valore di scambio, ma in virtù del valore per lo sviluppo del­la personalità umana. Lasciarli gestire liberamente al mercato significa permettere “recinzioni proprietarie” e legittimare, di conseguenza, gli effetti negativi che queste hanno sia sullo statuto costituzionale dell’indi­viduo, sia sui processi di innovazione culturale. Il di­scorso sui beni comuni pone al centro della sua rifles­sione la ricerca di schemi concettuali e modelli regola­tivi adeguati alla cosiddetta conoscenza digitalizzata a partire da una considerazione tecnica: l’ambivalenza delle nuove tecnologie che, da un lato, creano nuove opportunità per la conoscenza come risorsa indivi­duale e collettiva; dall’altro, rendono possibili nuove forme per la sua appropriazione individuale e quindi per l’esclusione. La comunicazione dei beni comuni, da questo punto di vista, intende denunciare il doppio mutamento che vede in atto nella rete: la scompar­sa della proprietà intellettuale dell’autore per effetto della concentrazione oligopolistica della cosiddetta industria culturale; la sostituzione a una originaria si­tuazione di libertà della legge del più forte. In questo senso, si parla di “appropriazione” della rete da parte del capitalismo finanziario. È un profilo decisivo per comprendere la ragione dell’opposizione alla logica mercantile perché, per un verso, «la ricerca spasmo­dica del profitto chiude nel capitalismo finanziario ogni alternativa alla sopravvivenza di attività in cui il denaro non sia lo scopo principale»; per l’altro, non esisto­no spazi “normativamente” vuoti: privi di regole. Detto altrimenti: dove non esistono regole legittimamente condivise, si trovano “altre” norme: quelle poste da chi ha avuto la pura forza materiale di imporle. Si trat­ta, a ben guardare, proprio dell’eventualità che la costruzione dello Stato di diritto ha inteso scongiurare in virtù del cosiddetto primato della legge (principio di legalità).

È in questa prospettiva che, per tutelare i cosiddetti beni comuni della conoscenza, inverando il vincolo di essenzialità con la persona, vengono avanzate al­cune interessanti proposte: valorizzare il ruolo delle biblioteche come «pietre angolari della democrazia digitale»; quello delle università come luoghi «natu­rali» di produzione e condivisione del sapere. Anche ripensare il diritto d’autore, a partire sia dai modelli di condivisione generati spontaneamente dalla prassi digitale, sia dall’idea del limite e della funzione so­ciale della cosiddetta proprietà intellettuale. Il pro­blema è che non si tratta di forme e tecnologie dei poteri – individuali e collettivi – che si introducano da sé nel tessuto normativo, né che la cosiddetta società civile possa inserire stabilmente nella prassi, mutando di conseguenza l’identità del sistema. Si tratta invece, evidentemente, di obiettivi politici, variamente con­nessi al principio di solidarietà. Qui vi è un nodo tanto ovvio quanto importante: affinché possa trascendere il contesto spontaneo e asistematico del dono indivi­duale, la solidarietà deve essere – in un certo senso – “obbligata”: cioè formalizzata in limiti all’agire libe­ro dei soggetti; in doveri giuridicamente sanzionati. Questa “possibilità” regolativa altro non è se non il dispositivo “normale” di cui lo Stato costituzionale e democratico si è dotato per conseguire i suoi obiettivi di giustizia sociale. Con altre parole: per adempiere il suo compito qualificante: promuovere con l’egua­glianza sostanziale la dignità dell’uomo.